Capitolo 32: Naos

«Stanno arrivando da ovest!»

Le parole urlate da Etios, in ricognizione per conto degli Elyse, si spansero velocemente per tutto l'accampamento di Naos. I ribelli e i soldati della Terra del Leone cominciarono a prepararsi per l'attacco imminente, e tutto il campo fu pervaso dalla frenesia.

«Hanno portato la cavalleria» constatò Seamus sottovoce, appena venne raggiunto da Nahil. Avevano viaggiato insieme da Sansea, in cui avevano lasciato parte dei loro uomini a protezione del confine, e adesso marciavano insieme verso Burok, la capitale della Terra del Toro. Lì, Seamus avrebbe finalmente trattato la questione del lascito di Rothgar, il giovane re suicida che gli aveva lasciato la sua Terra in eredità per strapparla dalle grinfie di Alec.

«Fanno sul serio, adesso».

«Com'è possibile che ci abbiano trovati? La nostra meta doveva essere segreta. Chi dei vostri ne era a conoscenza?» gli disse piano il sovrano, avvicinandosi all'orecchio.

«Cosa state insinuando?»

«Non sto accusando né voi né i vostri soldati, ma dobbiamo mettere tutte le carte in tavola: io ne ho parlato solo con il mio consigliere, e di lui mi fido ciecamente».

«Posso dire lo stesso per i miei uomini». Il tono di Nahil era più sulla difensiva di quanto avesse voluto, ma si rifiutava di credere che uno dei suoi li avesse traditi. Non sapeva se Ares ne avesse parlato con qualcuno, lui lo aveva rivelato solo a Enora, ma non poteva essere lei la spia, non avrebbe avuto senso. Se fossero arrivati entrambi vivi alla fine di quel giorno, comunque, avrebbe dovuto parlarle.

Si allontanò dal sovrano e ognuno di loro diede disposizioni ai propri eserciti, cercando al contempo di contenere il panico dilagante. Erano ancora troppo stanchi da Sansea, non era passato neppure un mese, e ogni ribelle che reggeva un'arma era perfettamente consapevole di non avere speranze di vittoria.

Si trovavano a est del Lago di Naos, a poche ore di marcia dall'omonima cittadina: il territorio era collinare e loro avevano montato l'accampamento nel punto più in alto. Non era un'altura particolarmente vantaggiosa ma, almeno, avrebbero avuto la possibilità di combattere in discesa.

Organizzarono gli schieramenti puntando sulla difesa: la maggior parte dei soldati del Leone venne schierata in prima linea con lance lunghe e scudi per ripararsi dalle eventuali frecce e, appena dietro di loro, si posizionarono gli arcieri di entrambi gli schieramenti alleati. Al centro venne disposta la cavalleria o, quantomeno, tutti coloro che erano in grado di cavalcare, mentre tutti gli altri ingrossavano le retrovie.

Nahil e Seamus, appena davanti la prima linea, si scambiarono sguardi gravi mentre l'esercito nemico continuava a marciare contro di loro.

«Sto per chiedervi uno sforzo immane, – iniziò il sovrano della Terra del Leone e del Toro, i capelli color miele che oscillavano lenti, mossi dal vento leggero – ma so che questa mia richiesta sarà accolta da tutti voi. Voi che avete dimostrato il vostro valore più di una volta, voi che siete i portavoce di ciò che di giusto esiste in queste Terre. Sconfiggeremo il nemico non solo per avere salva la vita, ma vinceremo perché questo è ciò di cui hanno bisogno le nostre famiglie, le nostre città e l'intera Holtre! Perché vincere adesso scuoterà le coscienze di molti cittadini ancora addormentati dalle bugie di Alec, perché vincere oggi ci permetterà di cambiare la storia, e di poter dire "io c'ero". Io ci sono, soldati, ci sono per Holtre! Chi è con me? Chi è con me!»

Un borbottio sommesso diede presto posto a urla di incoraggiamento che, in un attimo, presero il sopravvento sulla stanchezza. Erano stati colti di sorpresa, ma non avrebbero perso.

L'esercito nemico era sempre più vicino, e ora si riuscivano a scorgere i colori di due armature differenti: il nero e il blu.

Nahil richiamò l'attenzione di Seamus prima che sparisse tra carte geografiche e pedine.

«Alec ha coinvolto la Terra dello Scorpione, ci sono anche le armature di Marvin».

Il sovrano guardò per un attimo l'enorme mole di soldati che si stava avvicinando.

«Avrei dovuto immaginarlo» disse il sovrano, pensieroso. Il Sommo Re aveva riscattato le Terre che aveva estorto con l'inganno a tutti loro e Marvin, ovviamente, non aveva opposto resistenza. Quell'uomo non era mai stato particolarmente temerario, aveva sempre messo il suo interesse personale prima di ogni cosa e di certo quella volta non era stata diversa.

Nahil si allontanò senza chiedere spiegazioni, non ce n'era il tempo. Raggiunse i suoi uomini e si preparò a scendere in battaglia. Era la prima volta che combatteva senza suo fratello.

Le Armate nemiche si fermarono poco lontano dall'accampamento ribelle. Ogni soldato di Alec prese posizione e attendeva solo il comando per attaccare. Gli uomini della resistenza, invece, nelle prime file, alzarono lo scudo e puntarono le lance.

L'urlo dell'Esercito Nero ruppe il silenzio surreale e iniziarono una corsa selvaggia contro di loro.

Nahil e Seamus rimasero immobili con un braccio alzato. La tensione cresceva ogni secondo, i nemici si avvicinavano sempre di più e le loro grida si diffondevano nell'aria satura di pioggia.

"Non ancora" pensò il sovrano del Leone e del Toro.

Quando l'esercito nemico fu abbastanza vicino, Seamus diede finalmente il via agli arcieri, che cominciarono a scoccare frecce una dietro l'altra. Tutti gli altri rimasero fermi.

"Non ancora".

Le punte acuminate delle frecce falciarono i primi uomini dalle armature scure, senza però rallentarne l'avanzata.

«Adesso!»

Seamus aveva atteso il momento esatto in cui tutto l'esercito di Alec si trovasse alle pendici della collina, così che i suoi uomini potessero sfruttare al meglio il pendio sul quale si erano appostati.

Il clangore dell'impatto riverberò nell'aria circostante, riempiendola di urla e sangue.

Gli scudi e le lance della prima linea riuscirono a contenere l'attacco per pochi minuti, fino a quando i cavalli dell'Esercito Nero riuscirono a sfondare la loro difesa. Le frecce dei ribelli caddero come pioggia, ma molte di loro scansavano i nemici mentre altre sembravano troppo deboli per trafiggerli.

Noor, dalla groppa del cavallo, osservava i cambi di traiettoria delle frecce, mosse dai fili invisibili degli stregoni. Cercò di non pensare al fatto di essere l'unico tra i ribelli a esserne a conoscenza, e approfittò del varco nella prima linea per spronare il destriero contro i nemici. Era la prima volta che faceva parte della cavalleria e non era abituato a muoversi tenendo conto della stazza dello stallone, tuttavia, riuscì a ferire molti uomini, mulinando la spada verso il basso.

Una freccia gli passò così vicino all'orecchio da poterne sentire il sibilo, un'altra invece colpì il cavallo sul fianco, che nitrì alzandosi sulle zampe posteriori, senza però arrestare la sua avanzata. Altre due gli sfiorarono il braccio e la gamba, conficcandosi sulla zampa del cavallo e sul terreno; stavolta, l'animale cadde a terra morente, disarcionandolo. Noor, così, si ritrovò a pochi passi da Enora: raccolse scudo e spada e si diresse verso di lei, senza curarsi della ferita alla spalla che la caduta gli aveva procurato.

Nahil combatteva abilmente impugnando a due mani la fedele spada lunga, colpendo i nemici con la stessa forza che avrebbe riservato all'assassino di suo fratello. La rabbia, sfogata fino ad allora soltanto sul duro legno degli alberi, poteva adesso fluire libera e realizzare il suo scopo catartico. Si muoveva sicuro nel campo di battaglia, eseguendo a memoria tutte le figure che aveva imparato sin da quando era un ragazzino e che aveva affinato per tutta la vita. L'arma era un proseguimento naturale del suo braccio, erano in perfetta sinergia, e neppure i potenziamenti magici riuscivano a proteggere a lungo i nemici dalla furia dei suoi colpi.

Breit ed Etios combattevano spalla a spalla, fronteggiando un piccolo gruppo di soldati che si muoveva in cerchio attorno a loro. Il giovane si era presentato agli Elyse che era ancora un ragazzino e Ares e Nahil gli avevano vietato di iniziare a combattere: era stato allora che il burbero uomo che adesso gli copriva il fianco destro lo aveva preso con sé e lo aveva istruito, non solo nella difficile arte del lavoro sotto copertura, ma anche in quella della spada e della vita. I due avevano sviluppato negli anni una profonda affinità che aveva permesso loro di uscire indenni da molti altri scontri in cui erano in evidente inferiorità numerica, nonché di sconfiggere i nemici che li stavano circondando.

Il sole calò dietro la linea dell'orizzonte e il buio avvolse i combattenti, impedendo loro di continuare la battaglia e costringendoli a ritirarsi nei propri accampamenti. Immersa nel chiarore della luna, l'aria non risuonava più dello stridio delle lame ma solo dei lamenti dei feriti.

Enora non si era fermata un attimo dal calar del sole e, dopo la battaglia, raggiunse Mylene nell'enorme tenda bianca. Al suo interno si arrabattavano guaritori e sacerdoti di entrambi gli eserciti alleati, ma i feriti erano troppi e le medicine non bastavano per tutti.

La ragazza dalla collana di perle si avvicinò a Kimav e gli spalmò quel poco di pastura che era riuscita a preparare.

«Brucerà un po' ma, per adesso, non posso darti altro».

"Papavero, iperico e foglie di caprifoglio, essiccate e triturate, per velocizzare la guarigione di ferite e lenire il dolore", recitò a memoria mentre gli fasciava il petto ferito.

Nahil la raggiunse in quell'istante.

«Devo parlarti».

Enora si pulì le mani dalla pastura medica e poi lo seguì fuori: sapeva cosa voleva chiederle ed era pronta a raccontargli tutta la verità.

Non vi fu, tuttavia, il tempo di dire nessuna parola. Un soldato dall'armatura verde li raggiunse sulla soglia della tenda e li avvisò della morte dei soldati che erano andati in ricognizione nel campo di battaglia per recuperare i feriti.

Il generale Razor si era ritrovato a capo di quel grande esercito in maniera improvvisa. Il Sommo Re in persona era venuto a comunicargli la sua missione, avvertendolo della presenza degli uomini della Terra dello Scorpione.

Non doveva sopravvivere nessuno. Era questo il suo compito: una carneficina.

Aveva guidato l'armata fino a Naos con l'adrenalina di chi non aspettava altro che scatenare la propria furia, ricordando ai suoi sottoposti quale sarebbe stato il loro ruolo. Con l'attacco a sorpresa aveva quasi ottenuto l'effetto desiderato, anche se non si aspettava di incontrare una tale difesa. Gli Elyse si erano mostrati molto più preparati di ciò che aveva creduto, spiegando una notevole mole di soldati pronti a combattere, nonostante le ferite subite a Sansea. Aveva previsto la strategia di Seamus: era la mossa più logica per un esercito stanco, ma aveva dovuto accettare il rischio. Le perdite erano state ingenti nelle fasi iniziali dello scontro, i ribelli avevano il vantaggio dell'altezza e dello slancio, ma aveva posizionato le Armate Blu dello Scorpione nelle prime file, per cui non si sentiva particolarmente incline a rimpiangerne le morti. A fine giornata, in ogni caso, aveva deciso di far ritirare le truppe per una notte di riposo, consapevole comunque che quegli stolti non avrebbero avuto nessuna possibilità contro di loro.

Uno dei suoi uomini gli venne a riferire che due ribelli si muovevano nel campo di battaglia recuperando feriti e cadaveri, e un'idea gli balenò fulminea nella testa.

Quella era l'occasione perfetta per dimostrare quanto fosse diverso da quell'insulso principe. Aveva finalmente ottenuto dal re la libertà di movimento che Fabian gli aveva sempre negato, così stupidamente ligio alle regole e all'onore. Aveva fatto la degna fine che si meritava.

Si mosse in silenzio oltre il proprio appostamento, e li vide chinati nel tentativo di capire se uno dalla pettorina bianca fosse vivo oppure no.

Pensò che ucciderli sarebbe stato un buon modo per destabilizzare ancora di più quelle poche speranze a cui gli illusi della Resistenza erano aggrappati. Non avrebbero dovuto mostrargli pietà: dovevano sentirsi braccati, senza via d'uscita, con la morte sempre a un passo.

Si avvicinò lentamente, nella notte. Impugnava la spada in una mano e il pugnale nell'altra.

«Hanno fatto un macello, Etios... tutte queste vite spezzate. Guarda, lui me lo ricordo. Sono stato io a portarlo, è stato uno dei primi ragazzi della capitale. Si chiamava Erik» disse uno dei due ribelli. Etios si voltò appena verso il ragazzo che lo accompagnava e si lasciò sfuggire un sospiro.

«È meglio fare il lavoro in fretta e in silenzio, Breit. Prima finiamo, prima possiamo andarcene via da questo campo di morte... almeno per qualche ora».

Ci fu un breve movimento che catturò l'attenzione di entrambi, poi un rantolo soffocato. Breit alzò lo sguardo per capire da dove provenisse il rumore e si impietrì.

Etios sputò sangue, imbrattando gli abiti e il viso del compagno, e poi crollò sul terreno, esanime. Un rapido baluginio della luna rifletté il metallo della lama che si stagliava imponente e mortifera dalla sua schiena, e Breit indietreggiò istintivamente d'un passo. Mosse lo sguardo verso l'alto, consapevole che non gli restava più molto tempo, e cercò di sollevare il braccio che reggeva la spada. Non ne ebbe il tempo.

A Razor bastò un movimento rapido della mano con cui teneva il pugnale: gli tagliò la gola di netto, e attese che il gorgoglio del sangue lasciasse nuovamente spazio al silenzio della notte prima di dileguarsi.

Dovevano capire che non erano al sicuro, che non sarebbe sopravvissuto nessuno. Dovevano combattere per rabbia. Quella, Razor lo sapeva molto bene, li avrebbe fatti sbagliare.

«Non hanno nemmeno avuto il coraggio di affrontarli faccia a faccia». Nahil si allontanò senza dire altro, incapace di distogliere lo sguardo dall'orribile spettacolo che gli si presentava davanti. Raggiunse il sovrano nella sua tenda, interrompendolo mentre parlava con qualcuno.

«Hanno ucciso due dei miei migliori uomini mentre recuperavano i cadaveri. Li hanno colpiti alle spalle. Ucciderò quei farabutti ad uno ad uno, con le mie mani».

«Klethus, uscite fuori, riprenderemo poi» disse Seamus senza staccare gli occhi da Nahil, con un'espressione grave in viso. Il consigliere annuì e li lasciò soli.

«Mi serve una strategia delle vostre per coglierli di sorpresa, nonostante l'inferiorità numerica».

«A voi serve di calmarvi. Non possiamo rischiare».

Nahil sbatté le mani sul tavolo al centro della tenda facendo cadere qualche pedina.

«Conoscevo Etios da una vita. È stato uno dei primi in questa maledetta Resistenza! Hanno già preso mio fratello, non gli lascerò passare liscia anche questa».

«E volete rischiare centinaia di vite per riscattarne due?» ribatté il re, senza scomporsi minimamente.

«Non dovevano morire! – urlò il generale, più a sé stesso che all'uomo che aveva davanti – Non in questo modo... non così».

Ci volle tutta la notte prima che Nahil si rendesse conto della follia del suo piano; così, ritornato al campo di battaglia con il sole che era appena un ovale pallido ai confini del cielo, non gli restò che combattere con più grinta e più ferocia. Quella mattina sia i ribelli che i soldati del Leone la pensavano allo stesso modo e, nonostante l'assenza dei feriti si facesse sentire, ognuno combatteva con la foga di dieci uomini.

Enora parava e affondava senza sosta, sembrava non stancarsi mai: aveva preso una botta al braccio, ma questo non l'aveva rallentata. Schivò un fendente e colpì la mano nemica che reggeva la spada, e il soldato dell'armatura blu la fece cadere con un gemito; la ragazza, così, poté ferirlo nel fianco scoperto. Il soldato indietreggiò, cercando di fermare il sangue con la mano vuota, e lei infierì con lo scudo sullo stesso fianco, costringendo il nemico sulle ginocchia.

Un soldato dalla stessa armatura, con lo scorpione scolpito in pieno petto, arrivò in soccorso del proprio compagno, con l'obiettivo di tranciarle un braccio. Lei fu svelta a pararsi; il colpo, però, fu più forte di ciò che pensava, e dovette indietreggiare per evitare di cadere. Il soldato appena arrivato non si arrese e cercò di colpirla di nuovo: Enora, istintivamente, abbassò lo scudo per proteggersi, ma fu troppo lenta e il nemico la prese all'addome. Guardò il punto in cui era stata colpita, ma non vide sangue: la spada aveva tagliato solo la pettorina. Questo le diede la forza per reagire, affondando la lama nella parte bassa del ventre. Subito si voltò verso il soldato contro cui aveva lottato prima, ma lo trovò steso per terra, immobile, con la faccia rivolta a terra.

Arkara affondò la lama nel collo del nemico, trapassandolo da parte a parte. Si pulì il sangue che le era schizzato in viso e si voltò verso un soldato dall'armatura blu che si avvicinava piano. Era arrabbiata, tremendamente. Aveva passato la notte nascosta dagli occhi di tutti, seduta immobile tra le radici di un albero, con gli occhi vuoti e asciutti rivolti verso il cielo, ed era tornata indietro solo quando era stato il momento di prepararsi a combattere. L'assenza di sonno tuttavia non aveva diminuito i riflessi ma aveva, invece, ampliato tutti i sentimenti, che adesso si presentavano dirompenti a chiederle il conto, lottando per emergere.

Era stata ferita alla coscia e non riusciva più muoversi agilmente, ma non aveva intenzione di arrendersi. Senza più lo scudo, si mise in posizione mantenendo alta la guardia e aspettando che fosse il nemico a raggiungerla. Per il soldato fu facile atterrarla, colpendola all'altezza del fianco. Arkara cadde senza avere la forza di rialzarsi; riuscì a trovare a tentoni la spada che le era sfuggita dalle mani e si spostò in tempo per schivare il colpo diretto al cuore. Un attimo dopo, sentì un dolore che non aveva mai provato prima.

Il soldato, approfittando dello sbilanciamento della ragazza, le aveva conficcato la spada nella ferita aperta che aveva alla coscia. Il dolore la immobilizzò completamente, talmente forte da non riuscire neppure a urlare, così chiuse gli occhi attendendo solo di sprofondare nell'oblio.

Sentì un tonfo accanto a lei, aprì le palpebre e vide il suo nemico riverso sul terreno, con una lama conficcata nella parte bassa della schiena.

Klethus le porse la mano per farla rialzare.

«Non puoi combattere in queste condizioni, hai bisogno di cure».

Senza dire una parola, Arkara si appoggiò completamente al consigliere dall'armatura verde, incapace di reggersi in piedi. La ferita non smetteva di sanguinare: a ogni passo era sempre più difficile continuare, e doveva sforzarsi per non svenire.

Una spada tranciò di netto il braccio di Kimav proprio mentre Arkara lo stava guardando. Di getto, lasciò la presa su Klethus per raggiungere suo fratello, ma la ferita si squarciò e lei cadde a terra. Cominciò allora a strisciare reggendosi sulle braccia lasciando una lunga scia di sangue dietro di sé, ma il soldato colpì ancora Kimav in pieno petto prima che lei potesse raggiungerlo.

Qualcosa dentro di lei si spezzò, il mondo perse colore consegnandole immagini prive di senso e i suoni cominciarono ad arrivarle attutiti, incomprensibili. Continuò a strisciare, e fu solo grazie a Klethus che il nemico non uccise anche lei. Raggiunse Kimav mentre ancora sanguinava e lo strinse piangendo, tenendo gli occhi ben aperti per memorizzare i lineamenti di suo fratello in modo da non dimenticarli mai più.

Il consigliere del Leone la sollevò, ma lei iniziò a dimenarsi con le ultime forze che le restevano, aggrappandosi al dolore per rimanere sveglia. Voleva tornare da suo fratello, abbracciarlo, e morire insieme a lui in quel dannatissimo campo di battaglia che le aveva portato via ogni cosa.

Klethus la bloccò cingendole energicamente le braccia e la ragazza cedette presto alla sua forza, esausta, non solo fisicamente, ma stanca di provare dolore. La trascinò fino alla tenda dei feriti, da Mylene, respirò profondamente e rientrò in battaglia.

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