Capitolo 31: Nuovi orizzonti
Enora si svegliò di colpo. Si issò rapida sulle lacere coperte che l'avevano avvolta nella notte umida di pioggia e si rese conto di stringere convulsamente la collana che portava al collo. Cercò di recuperare un ritmo normale di respirazione e si deterse le gocce di sudore che le imperlavano la fronte e il petto.
Gli occhi verdi e brillanti, leggermente offuscati dal sonno, vagarono per la piccola tenda montata a sud di Naos, nella Terra del Pesce, e si posarono su ognuno degli oggetti che erano ancora sparpagliati sulla terra nuda. Erano arrivati quella mattina, i dieci giorni a Jena erano trascorsi tranquilli e non avevano incontrato ostacoli nemmeno durante il tragitto fino a lì.
C'erano i libri sulle erbe curative che le aveva dato Mylene, la sacerdotessa che la istruiva su quell'arte così complessa sin da quando aveva messo piede negli Elyse, e si ricordò che la notte precedente era crollata mentre cercava di studiare. Era stato difficile imparare a leggere, quei minuscoli simboli grafici non avevano il minimo senso per i suoi occhi, ed era stato faticoso memorizzare tutti i suoni a essi collegati. Si era impegnata molto e Mylene era stata davvero paziente, ma adesso poteva finalmente divorare pergamene e libri con una fame di conoscenza che non riusciva a saziare.
Si lasciò andare nuovamente sul giaciglio scomodo e pruriginoso e osservò con aria assorta i segni che le perle le avevano lasciato sul palmo della mano.
Aveva ancora fatto quel sogno. Erano giorni, ormai, che riviveva il dialogo avuto nel bosco con Stenphield il giorno in cui le aveva donato la collana, che risentiva il bruciore agli occhi prima di tornare a vedere, che piangeva alla vista di Noor, che sentiva le terribili condizioni dell'elfo.
Una perla, una persona cieca.
Era un peso che non aveva mai dimenticato di portare, eppure era come se non fosse importante, non più, come se ci fosse un dettaglio che le sfuggiva. Quanto tempo era passato? Eppure suo fratello ancora vedeva, e così pure Arkara.
Delle voci concitate fuori dalla tenda la fecero destare completamente, evitando che cadesse ancora nelle sue ormai solite ruminazioni. Si mise in piedi, stiracchiando le braccia indolenzite e la schiena rigida, e poi uscì fuori leggermente infastidita, con ancora il viso ammaccato dal sonno. Non era neppure mattino, diamine!
«Cosa succede?» chiese a Breit, la prima persona che riuscì a fermare nel via vai continuo.
«Finalmente buone notizie. È arrivato un messaggio importante stamattina da Olok: il principe Fabian è morto! Pare che sia stato accusato di alto tradimento e che si sia tolto la vita nella sua cella con i calzoni. Si è impiccato con i suoi pantaloni!». La strinse energicamente con un entusiasmo che non provava a nascondere, senza nemmeno accorgersi dell'espressione cinerea che aveva assunto lei, e si allontanò per continuare a festeggiare la notizia, certo che la morte dell'erede al trono sarebbe stata un duro colpo anche per l'esercito di cui era a capo.
Enora rientrò rapida nella tenda prima che qualcuno si accorgesse delle lacrime che non era riuscita a frenare e si sedette a gambe incrociate incapace di reagire a quella notizia. Ogni piccolo frammento di sé, che Fabian aveva saputo rimettere insieme, si frantumò facendola sentire, ancora una volta, disgregata.
Nayél la raggiunse in quell'istante.
«Non c'è bisogno» le disse, notando che cercava malamente di asciugare le guance con il palmo della mano. Enora lo guardò attraverso i capelli bruni che le coprivano il volto.
«Sono solo sorpresa».
«Non c'è bisogno. – ripeté, sedendosi di fianco a lei – So cosa è successo tra te e il principe».
La ribelle alzò lentamente la testa fino a potersi specchiare negli occhi limpidi del suo amico; lui la fissò per qualche secondo prima di parlare, con un'intensità tale che Enora poté sentire l'azzurro dei suoi occhi bruciarle la pelle.
«Non preoccuparti, non lo saprà nessuno. Sono solo venuto a dirti che mi dispiace».
Il ragazzo che adesso le porgeva una spalla su cui piangere era completamente diverso da quello a cui era abituata: non c'era traccia della sua sfacciataggine, né del solito modo ironico con cui affrontava la vita. Enora non ebbe la forza di mentirgli e dirgli che tra lei e Fabian non c'era mai stato niente, così accettò il supporto che le stava offrendo e si lasciò abbracciare da lui.
«Io ci sono, Enora, ci sarò sempre» le disse, allentando la debole presa sulle sue spalle. Lei iniziò a piangere silenziosamente senza nessun freno, senza nessuna vergogna, e Nayél le baciò la guancia, proprio sulla lacrima che la bagnava.
Avrebbe voluto essere capace di risanarla, di guarirla come lei aveva fatto tante volte con le sue ferite. Avrebbe voluto essere lui il destinatario di quei sentimenti che la devastavano in un modo che non riusciva a sopportare. Avrebbe voluto stringerla ancora, più forte, fino a fondersi completamente. E invece si allontanò da lì con il cuore gonfio e la bocca asciutta, avvertendo ancora addosso il calore del corpo che aveva stretto fino a un attimo prima.
Enora osservò immobile i capelli ricci di Nayél ondulargli sulle spalle mentre usciva dalla tenda, e rimase seduta ancora per molto tempo con le lacrime ferme sulla rima dell'occhio, come se non avessero più neppure la forza di scendere.
Uscì da lì che il sole era ancora pallido nel cielo. Il dolore si era velocemente tramutato in rabbia e non era più stata capace di rimanere ferma. Aveva bisogno di sfogarsi e, soprattutto, aveva bisogno di andare lontano dai festeggiamenti che non accennavano a diminuire.
Appena fuori incrociò lo sguardo di Nayél che le sorrise beffardo come suo solito, come se non fosse accaduto niente. Lei si rese conto di non riuscire a ricambiare e continuò ad avanzare senza mai fermarsi, giungendo in una piccola radura nel bosco. Lì, tra la foschia e l'umidità della mattina, iniziò a sfogarsi.
"Se solo sapessero chi era in realtà".
Le risultava tremendamente innaturale parlare di lui al passato.
Urlò contro il cielo, contro il re, contro tutti i colpevoli che riuscì a trovare per la morte di Fabian, e iniziò a colpire con ferocia il tronco dell'albero che aveva davanti.
Noor aveva appena finito il suo turno di guardia insieme ad Arkara, e si stava dirigendo con lei verso la tenda del generale per fare rapporto.
Aveva cercato di starle lontano più che poteva, non solo per dare un nome al groviglio che sentiva nello stomaco ogni volta che le stava di fianco, ma anche per capire meglio sé stesso. Il dialogo avuto con Nahil nell'accampamento di Sansea gli tornava spesso alla mente, con tutto il peso che si portava dietro. Non aveva avuto il coraggio di parlare a nessuno delle scoperte su di sé e i suoi poteri, nemmeno a sua sorella, e non si sarebbe mai fatto avanti senza prima avere la sicurezza di chi fosse, di cosa fosse.
Si voltò leggermente verso Arkara e la vide mentre sistemava la caratteristica coda bassa con cui cercava di contenere l'enorme mole di capelli rossi; la sentì lamentarsi, come suo solito, di quanto fossero scomodi, e si ritrovò a sorridere a quella scena che lo riportava in maniera quasi dolorosa alle giornate tranquille a Olok. Ricordò il modo in cui il sole glieli illuminava, facendogli assumere il colore del fuoco, e sentì il cuore mancargli un battito. All'improvviso, si rese conto che non gli sarebbe bastata la loro amicizia, che voleva di più, ma fu terrorizzato dalla forza con cui questa consapevolezza gli emerse chiara nella mente. Distolse lo sguardo da quella minuta ragazza che si agitava ancora nel tentativo di dare una forma alla chioma ed entrò diretto nella tenda del generale, deciso ad allontanarsi da lei il prima possibile.
Riferì a Nahil tutto ciò che era successo durante la ronda, inclusi alcuni ragazzi che avevano deciso di abbandonare la loro causa, e l'uomo li ascoltò con gli occhi chiusi, stanco. Era profondamente cambiato dalla morte di suo fratello.
«L'alleanza con i sovrani Seamus e Kamal dovrebbe infondere coraggio; non capisco perché scappino proprio adesso» disse Arkara, dopo che Noor finì di parlare, completamente ignara di tutto ciò che gli passava per la mente.
«Non è solo questione di combattere: si deve sopravvivere anche fuori dalla battaglia, e noi non abbiamo più abbastanza cibo. La gente ha paura e scappa, e io non mi sento di dargli torto».
«Mio padre non la pensa così». Korinna entrò nella tenda in quel momento, con il viso sporco di terra e la spada graffiata.
«Ares è morto, non può pensare proprio niente».
La ragazza dagli occhi di ghiaccio gettò l'arma ai piedi del generale.
«L'ho trovata tra i boschi, conficcata in un tronco. Colpire gli alberi non ti aiuterà a stare meglio. Mio padre non tornerà, e tu hai il dovere di guidarci senza rimpianti».
Nahil guardò la lama sul terreno e sentì i muscoli delle braccia bruciare al ricordo dell'ennesima notte insonne passata a sfogare la rabbia.
«Sapevo fin dall'inizio che andare a Sansea sarebbe stato un errore. Non ho insistito, e questo lo ha portato alla morte».
«Io l'ho portato alla morte! – si sfogò Korinna, svuotandosi di tutto il fiato che aveva in corpo – È morto per proteggere me! Quindi ora smetti di incolparti e riprendi in mano la tua vita e tutti gli Elyse. Noi abbiamo bisogno di un capo, e tu non lo sei più». La ragazza uscì senza aggiungere altro e Noor la seguì subito dopo, mentre Arkara rimase dov'era. Non era certo il momento più giusto, ma doveva parlare con il generale.
Korinna si addentrò tra gli alberi sul lato est dell'accampamento, e raggiunse il luogo in cui era stata poco prima. Si sedette poggiando la schiena su uno dei tronchi e alzò il viso verso il cielo: era ricoperto di bianche nuvole talmente fitte da non far scorgere il sole rendendo tutto l'ambiente piatto, privo di ombre. Era tutto perfettamente in accordo con il suo umore: anche lei si sentiva piatta, vuota.
«È ora di andare avanti, per tutti».
Korinna sussultò leggermente, non si era accorta di essere stata seguita. Noor le si avvicinò e le mise una mano sulla spalla sedendosi di fianco a lei.
«Tu come hai superato la morte di tua madre?» gli chiese, senza abbassare lo sguardo.
«Mi sono arruolato tra i ribelli».
Korinna sorrise amara.
«Dimmi che questo dolore passerà, che riuscirò a non sentire più il peso della sua morte».
«No, non passerà, non può passare. È un dolore che non andrà mai via, ma da cui puoi trarre la forza per andare avanti. Per lui».
Lei gli poggiò la testa sulla spalla, lasciando che la lunga treccia bionda in cui aveva acconciato i capelli le ricadesse morbida sul petto.
«Grazie» disse poi. Noor le cinse le spalle senza dire nulla, e rimasero così per molto tempo, in silenzio.
Arkara raggiunse il recinto dei cavalli con il passo svelto e la testa china. C'era solo un ribelle che si occupava di loro, dandogli cibo e cambiando loro l'acqua per bere.
Kimav. Suo fratello.
Aveva chiesto a Nahil di dirle chi fosse il ragazzo che aveva raggiunto gli Elyse soltanto per incontrarla ma, ora che poteva guardarlo meglio, si rese conto che non ce ne sarebbe stato bisogno. Aveva i capelli della sua stessa sfumatura di rosso, le labbra e il naso erano assolutamente identici, e persino gli occhi avevano lo stesso colore.
Era stato difficile accettare che sua madre non avesse mai fatto nulla per incontrarla nonostante vivesse nella sua stessa città, ma non voleva che il dolore le impedisse di conoscere la sua famiglia o, almeno, una parte.
Rimase impalata di fianco alla recinzione e lo osservò per interi minuti, senza riuscire a muovere un solo passo né per raggiungerlo, né per scappare via.
Kimav si accorse di lei solo dopo un po', intento a trasportare balle di fieno ed enormi brocche di acqua pulita da una parte all'altra della piccola arena. Gli cadde dalle mani la sella del destriero che aveva deciso di cavalcare e raggiunse la sorella a grandi falcate. Si guardarono a fondo, uno di fronte all'altro, con gli occhi lucidi e un nodo alla gola.
«Io sono...» iniziò lei, senza avere la forza di continuare.
«... Arkara». Con un abile movimento, Kimav fece forza su un braccio e scavalcò la recinzione con un solo balzo. Non avrebbe permesso a nient'altro di frapporsi tra lui e sua sorella, nemmeno degli stupidi pezzi di legno.
«Ho sempre sentito un vuoto dentro di me che non sono mai riuscita a colmare. - iniziò lei, prima che Kimav potesse dire qualunque cosa e disperdere quel poco di coraggio che aveva faticosamente raccolto - I genitori che mi hanno cresciuta non mi hanno mai nascosto di non essere figlia loro, così ho cercato le risposte alle mie domande per tutta la vita, senza mai trovarle. Ero molto arrabbiata quando Ares mi ha raccontato tutta la verità sulle mie origini, probabilmente lo sono tutt'ora, ma... per la prima volta ho avuto la sensazione di poter riempire quel vuoto con qualcosa di diverso dalla rabbia e dalla frustrazione. Ho sentito di essere forte abbastanza per accettare tutta quanta la mia storia, ho sentito che forse c'è abbastanza spazio nel mio cuore per ospitare due famiglie, e persino un fratello. Non ti posso assicurare che sarà facile, ma possiamo cominciare a conoscerci, se ti va». Parlò di getto, come per togliersi un peso, e fu più semplice di ciò che aveva immaginato. Lo guardò dal basso verso l'alto, gli arrivava a malapena al mento, e sentì un legame istantaneo verso quello che, a tutti gli effetti, era un perfetto sconosciuto.
Kimav ascoltò con un sorriso a labbra strette che non riusciva a togliersi dalla faccia e, per tutta risposta, l'abbracciò. Non era mai stato bravo con le parole, né con i sentimenti, ma sua sorella avrebbe avuto tutto il tempo per capirlo.
Arkara non si aspettava un contatto così immediato, ma non poté fare a meno di ricambiare la stretta con tutta la forza che aveva. E si sentì a casa, per la prima volta dopo un'infinità di tempo.
Non appena si allontanò dal fratello, il perenne sorriso di Breit entrò nel suo campo visivo, facendola sorridere a sua volta. Asciugò di fretta le guance umide e si diresse verso di lui quasi saltellando.
«Suppongo che quello fosse Kimav» le disse quando fu abbastanza vicina. La ribelle annuì con vigore come una bambina, e lui le mise un braccio attorno alle spalle cominciando a camminare senza una meta precisa.
«Non avevo dubbi che avresti fatto la scelta giusta».
Arkara era assurdamente felice. Non solo per aver conosciuto suo fratello, ma anche per aver finalmente incontrato Breit: era arrivato il giorno precedente, e non aveva ancora avuto occasione di parlargli. Era stato il primo a cui aveva raccontato le proprie origini, seduti su un carro diretto a Sansea subito dopo aver parlato con Ares, e il suo supporto era stato fondamentale per non farla cadere a pezzi. La sua presenza altalenante, ma sempre nei momenti giusti, le aveva da tempo fatto comprendere quanto fosse importante per lei.
«Questo, però, non mi impedirà di venire a Olok insieme a te» gli disse, decidendo in quel preciso istante che non avrebbe accettato, ancora una volta, di vederlo andare via. Il ragazzo si fermò di colpo e la guardò dall'alto verso il basso con espressione divertita.
«Non ricordavo che ne avessimo già parlato. Preferisco le relazioni in cui le decisioni vengono prese in due».
Lei si staccò da lui, il cuore che le batteva all'impazzata e il viso dello stesso colore dei capelli.
«Questo non posso proprio garantirtelo».
Breit scosse la testa, il solito sorriso professionale gli riempiva tutto il viso; le prese le mani e la tirò a sé, avvolgendola completamente. Arkara alzò la testa e si alzò in punta di piedi, cercando con le labbra quelle di lui, assaporandole.
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