Capitolo 3: Azzurro come il cielo
Marianne si accostò al letto di Enora, e la svegliò delicatamente.
«Su, piccola mia, oggi è un giorno speciale».
La bambina aprì gli occhi verdi e spenti, la madre le si avvicinò e le due si abbracciarono.
«Mamma, ti sei ricordata che oggi è il mio compleanno?»
«Certo tesoro, – disse baciandola sulla fronte – il quinto compleanno è un traguardo importante» disse sorridendo, anche se la figlia non poteva vederla. Enora, prima di alzarsi, si voltò nella direzione in cui sapeva esserci una finestra.
«Mamma, com'è il cielo oggi?»
Marianne la guardò e le si strinse il cuore: glielo chiedeva ogni giorno da quando aveva scoperto che ne esisteva uno.
«Molto bello: è limpido e luminoso. Il sole è alto, e le nuvole gli stanno intorno».
Marianne e Danker si erano impegnati molto per riuscire a donare alla figlia una sua normalità. Più Enora cresceva, più aumentavano le sue domande; loro cercavano di rispondere al meglio, spiegandole gli elementi del mondo che la circondavano.
«Anche loro sanno che è il mio giorno speciale?» chiese voltandosi verso la madre con un'innocenza spiazzante.
«Sì, tutti lo sanno».
Dopo averla aiutata a vestirsi e a pettinare i lunghi capelli mossi e castani, l'accompagnò nell'altra stanza in cui erano pronti tutti per farle festa. Sia lei che Danker stavano disperatamente cercando di farle avere una vita normale, e così avevano deciso di invitare qualcuno in casa. C'era persino sua sorella Helyse, da una città vicino, con suo marito Jerome e il figlio Kalir poco più grande di Noor. Tra gli invitati, però, Marianne si accorse di un'assenza.
«Non doveva venire anche tuo fratello?» chiese al marito, guadagnandosi un'occhiataccia.
«No. Non doveva venire».
La donna lo fermò per un braccio prima che andasse via.
«Siete adulti adesso, e questa storia va avanti da troppo tempo. Dovete chiarire una volta per tutte».
«Te l'ho già detto, Marianne: è una cosa che riguarda la mia famiglia» le rispose disimpegnandosi dalla presa.
Il discorso non venne più accennato da nessuno dei due e quella sera Enora ricevette la sua prima bambola di pezza.
«Noor, dovresti tornare al mercato per una commissione». Marianne stava preparando il pranzo, e si accorse che le mancava un ingrediente.
«E porta con te anche tua sorella» aggiunse dopo un attimo d'esitazione.
«Ma ci sono già stato stamattina!»
«Hai dieci anni ormai, Noor, smettila di lamentarti come un bambino».
Lui sbuffò e andò a prendere il mantello per sua sorella. La donna fece molte raccomandazioni a entrambi, perché era la prima volta in sette anni che Enora andava in un posto affollato senza lei o Danker.
I bambini si incamminarono quindi per la città, divisa come una scacchiera in Est e Ovest dalla Strada Principale. La loro abitazione alla ventitreesima strada est era parecchio distante dalla terza, che era interamente occupata dal mercato.
Nelle prime due strade vi erano tutte le botteghe e officine dei cittadini, mentre tutte le altre fino alla ventiquattresima erano occupate da abitazioni. La Strada Principale, costeggiata da lampioni che venivano meticolosamente e pazientemente accesi e spenti da un guardiano ogni sera e ogni mattina, collegava diametralmente gli opposti della città: da una parte vi erano le mura e i cancelli di Olok, e dall'altra si trovava l'enorme Real Castello. Tutto era perfettamente in ordine, così come il re aveva stabilito.
Dall'angolo della loro strada, se ci si sforzava un po', era possibile vedere la statua che sovrastava la fontana posta al centro della Strada Principale tra la quarta e la quinta strada, e che raffigurava il Sommo Re in armatura da cerimonia con il pugno alzato in segno di vittoria, quella stessa vittoria che gli aveva permesso di divenire sovrano di Olok e della Terra Centrale.
Stavano per uscire dal mercato quando Enora si fermò, frenando anche il fratello.
«Sento dei bambini che giocano, voglio andarci».
Noor roteò gli occhi seccato.
«No, dobbiamo tornare a casa: la mamma si arrabbierebbe se lo sapesse».
«E noi non lo faremo sapere alla mamma» sorrise furba.
Il ragazzino si fece convincere, e insieme si avvicinarono a quei bambini. Le descrisse più accuratamente possibile ciò che vedeva, ed Enora rimase ad ascoltare senza interromperlo nonostante non capisse tutto ciò che le diceva.
«Ehi, Arkara, guarda come sono bravo!»
«Smettila di fare lo stupido, Erik» sentì dire da una distinta voce femminile. Poi ci fu un tonfo.
«Arkara, prendi la sacca che è caduta».
Una risata.
«Vieni a prenderla tu, così la pianti di fare lo stupido».
Passi. Qualcosa si sollevava da terra. Risate.
«Posso giocare con voi?». Enora aveva parlato piano e imbarazzata, ma quei bambini l'avevano sentita. Percepì qualcuno avvicinarsi a lei, e appena parlò riconobbe la voce di colei che era stata chiamata Arkara.
«Ma tu ci vedi?»
Enora aggrottò la fronte, nessuno le aveva mai fatto quella domanda.
«Che vuoi dire?»
«Sorellina, è ora di tornare a casa» disse Noor prendendola per un braccio, ma lei si scrollò di dosso la presa. Voleva restare, voleva capire.
«Riesci a vedere il numero che faccio con le dita?» insistette la bambina dalla voce squillante. Enora allungò le mani per poter toccare quelle di lei, com'era abituata a fare con la madre, ma quella le ritirò stranita; anche Enora lo era.
«Che vuoi fare?» chiese Arkara.
«Come faccio a dirti il numero, se tiri indietro la mano?»
La sentì ispirare più forte, la sentì allontanarsi, poi la sentì ridere. Tutti risero.
«Sei cieca!»
«Non ci vedi!»
«Sei cieca!»
I bambini cominciarono a prenderla in giro, ed Enora si voltò confusa cercando con le mani il fratello. Anche lui era piuttosto attonito: non era mai successo nulla di simile e non sapeva cosa fare, ma lei era sua sorella e nessuno poteva parlarle in quel modo.
«Basta, basta! – cominciò, prima timidamente, poi sempre più forte – Smettetela! Enora può fare tutto! Basta!»
«Può fare tutto? Allora tieni, bambina cieca, prendi questa». Erik lanciò la sacca di cuoio duro con cui stavano giocando, e Noor non fece in tempo né a prenderla né a scansare sua sorella, così che venne colpita a una spalla e cadde per terra.
Ancora risate. Enora cominciò a piangere.
«Andiamo via, Noor, portami a casa».
Danker era appena tornato dal lavoro e si sedette vicino al camino spento.
«Dove sono i bambini?»
«Al mercato» rispose la moglie tranquilla mentre tagliava delle carote. Lui invece sussultò.
«Al mercato? Marianne, hai idea di cosa potrebbe succedere?! Enora è cieca, e Noor è solo un bambino!».
«Lui è molto responsabile, lo sai, e il mercato è tranquillo in questo periodo» disse con una tale calma da irritare il marito.
«Enora non ha la percezione del mondo esterno, dannazione! Non sa nemmeno di essere diversa!».
La donna sbatté il coltello sul ripiano e si voltò verso di lui.
«Essere cieca non deve impedirle di vivere come gli altri bambini, Danker».
«Guarda in faccia la realtà! Non può vivere come gli altri bambini!».
«Lo so» disse semplicemente la loro figlia mentre attraversava la cucina per raggiungere l'altra stanza. Nessuno dei due si era accorto che Noor ed Enora erano appena arrivati alla soglia della porta di casa.
Enora entrò nella stanza che condivideva con il fratello, sapendo di trovarlo a intagliare del legno, con le spalle ricurve e i capelli scuri che gli ricadevano sugli occhi, in una postura che invano aveva cercato di correggere.
«È arrivato il giorno, Noor! Andiamo in Piazza delle Comunicazioni?». Quella mattina la ragazza era particolarmente euforica, e parlò contenendo a stento l'eccitazione.
«Non ne ho voglia». La risposta secca che le giunse, le spense l'enorme sorriso sul viso piccolo e ovale.
«Ma, Noor, ci sarà persino il re! Il Sommo Re!»
«Non disturbarmi mentre intaglio il legno, sono già indietro con il lavoro».
Lei si arrese e fece per andarsene con un sonoro sbuffo di stizza, poi però venne richiamata dal fratello che aveva cambiato idea, reduce di tutte le volte in cui Marianne lo aveva ripreso per un comportamento simile.
Enora sorrise e si tenne stretta al suo braccio per tutto il tragitto.
Non parlarono molto, e lui ebbe il tempo di riflettere su diverse cose. Si rese conto di aver passato gran parte della sua vita dietro sua sorella ad accompagnarla ovunque volesse, e che proprio per questo non aveva amici, né tanto meno una moglie. Aveva ormai vent'anni e anche un lavoro come intagliatore del legno, eppure...
Immerso nei suoi pensieri, il ragazzo dai grandi occhi nocciola lentò la presa della sorella, che la recuperò prontamente.
«Ma sei impazzito? Non puoi lasciarmi! Io sono cieca, nel caso te ne fossi dimenticato».
Lui non riuscì a ingoiare il rospo anche quella volta, e le tolse bruscamente la mano dal braccio.
«Sono stufo di starti sempre dietro! Far avere una vita normale a te, non vale il sacrificio della mia. Smettila di usare la tua cecità per ottenere tutto quello che vuoi, e comincia a cavartela da sola!»
Enora, incredula, sentì Noor allontanarsi, lasciandola lì. Non aveva idea di dove si trovasse, né del perché nessuno la stesse aiutando, così si inginocchiò nel punto in cui si trovava e cominciò a piangere. La testa le si riempì in fretta di tutti i suoni della capitale, sentiva la gente camminarle accanto, qualcuno addirittura la colpiva con delle ceste per il cibo durante il passaggio, e lei si sentiva sempre più stupida e sempre più sola.
Passarono pochi minuti, o intere ore, prima che una mano si posasse sulla sua spalla.
«Va tutto bene?»
Enora sapeva di conoscerla; aveva già sentito quella voce, ma non ricordava dove. Dall'altra parte invece, l'aveva subito riconosciuta: dopotutto, non c'erano molte persone cieche a Olok.
«Sono Arkara, non so se ti ricordi di me».
«Ma certo che mi ricordo. Io sono Enora, non ho avuto il tempo di presentarmi l'ultima volta».
La ragazza avvampò dalla vergogna, nonostante ai tempi fosse solo una bambina.
«Che ci fai qui, da sola?»
«Mi sono persa» mentì cercando di asciugare in fretta le lacrime, ma Arkara lo sapeva, perché aveva assistito a tutta la scena.
«Tuo fratello non avrebbe dovuto lasciarti, ma non preoccuparti: ti riaccompagno io a casa, se vuoi».
Enora, un po' imbarazzata, si trovò costretta ad accettare quell'offerta, così si alzò reggendosi sulla mano che quella sconosciuta le aveva porto, e si lasciò guidare da lei.
Parlarono molto durante il tragitto riscoprendosi più simili di ciò che credevano, tanto che la ragazza le promise di andarla a trovare nei giorni seguenti.
Per la prima volta qualcuno si rapportava a lei senza compassione, senza il tacito obbligo morale di aiutare chi sta peggio, come se lei fosse una mendicante che avesse bisogno di cibo, e che quel cibo le venisse offerto per dovere e non per reale volontà. Salutò la sua nuova amica all'inizio della ventitreesima strada est, nonostante le premure di lei, e si incamminò da sola in quella via che conosceva a memoria.
Quella mattina, però, non sentiva i soliti rumori dei bambini che giocavano né le donne durante i mestieri di casa, probabilmente perché tutti erano ad ascoltare il re. Tutti tranne lei. Adesso che era completamente da sola ebbe modo di pensare alle parole di suo fratello, e malgrado volesse essere in collera, si rese conto che aveva ragione, che non aveva mai fatto nulla da sola e che si appoggiava a lui per qualunque cosa, così come si aggrappava al suo braccio per muovere ogni passo.
Un rumore la distrasse brevemente dai suoi pensieri, ma non gli diede importanza. Poi ce ne fu un altro, e un altro ancora, come se ci fosse qualcuno che camminava su delle foglie secche. Enora tentò di convincersi che fosse solo la sua immaginazione, ma aveva la sensazione che qualcuno la stesse guardando. Sperò con tutta sé stessa che fosse Noor.
I suoni attorno a lei si dilatarono, riuscendo a percepire ogni minima variazione, il rumore di ogni movimento. Si appoggiò alle pareti delle case, e proseguì sempre in quel modo tenendo ferma la mano che scorreva sui muri, credendo così di essere protetta almeno da un lato. Riusciva ora distintamente a sentire dei passi vicino a lei, che si fermavano quando si fermava, che si affrettavano quando anche lei accelerava il passo, e avvertiva nitidamente il respiro di qualcuno vicino.
Non aveva mai desiderato come in quel momento sapere cosa le stesse succedendo intorno.
La voce preoccupata di Marianne la riportò bruscamente alla realtà.
«Enora! Dov'è tuo fratello? È successo qualcosa?».
Lei scosse la testa bruna, ancora un po' intontita.
«Mi ha accompagnata una ragazza di nome Arkara; Noor sta bene. No, papà, – disse poi anticipando la sua sfuriata – non è colpa sua. Va bene così».
Si allontanò da loro e si diresse verso un albero in una piccola radura vicino che aveva imparato a raggiungere da sola, sperando che chiunque fosse stato prima si rifacesse vivo. E invece arrivò solo suo fratello.
«Scusami per prima, non so cosa mi sia successo» le disse prima di avvicinarsi. Si vergognava per ciò che aveva fatto, non avrebbe mai dovuto lasciarla da sola. Era ritornato indietro praticamente subito; dopo aver sbollito la rabbia, i sensi di colpa erano arrivati puntuali a bussargli nello stomaco, ma quando non l'aveva più vista nel punto in cui lui l'aveva lasciata, il panico si era impossessato di lui e aveva preso a cercarla ovunque. Era stato fermato da una ragazza dai capelli rossi mentre percorreva mesto la strada verso casa, e lo aveva avvertito di cosa era accaduto; così aveva corso fino a lì, poiché sapeva che sua sorella ci sarebbe andata.
«Tranquillo, ho capito. – disse la giovane, portando una ciocca di capelli castani dietro un orecchio – Ho capito di dovermi dare una mossa, per non essere un peso nella vita di nessuno». Enora sorrise verso di lui, un sorriso sincero anche se un po' triste. Noor prese posto accanto alla sorella seduta ai piedi di un piccolo albero, poggiando la schiena sulla corteccia ruvida.
«Ricordi quando da piccoli ti chiesi cosa fossero i colori? Ricordo ancora come ti resi confuso con quella domanda. – disse lei alzando leggermente il viso verso l'alto, per cercare il calore dei raggi di sole – Mi dicesti che erano come delle sensazioni che senti, una spiegazione ammirevole per un bambino di otto anni» continuò, e a quelle parole lo sentì ridere piano.
«Perché lo stai ricordando adesso?»
«Non lo so, mi è venuto in mente che ti dissi che eri il rosso, come il calore del sole sulla pelle. Sei com'eri da bambino, Noor, impulsivo e protettivo come il sole». Allungò la mano per cercare il fratello, e lui gliela strinse forte.
«E io mi ricordo che ti dissi che eri verde come le foglie: piccola e che non stava mai ferma, mossa dal vento». Il ragazzo sistemò con una mano le corte ciocche di capelli scuri, e pensò per un attimo.
«Ora però è diverso. – continuò lasciando che la sorella gli poggiasse la testa sulla spalla – Sei libera e rassicurante, sei gioiosa e dai gioia: se dovessi darti un colore adesso, direi che sei l'azzurro, azzurro come il cielo».
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