Capitolo 27: Macerie
La battaglia era giunta al suo sesto giorno, ma la fine sembrava vicina: le truppe di Seamus erano esauste e i soldati di Kamal continuavano ad abbandonare le linee; i ribelli erano stati decimati, e persino gli uomini di Alec avevano subito gravi perdite. Nessuno aveva più la forza di continuare.
La morte di Ares aveva messo addosso alla Resistenza una forza nuova, una tenacia e una rabbia immensa ma, tuttavia, faticava a lottare contro quegli uomini dalle energie inesauribili.
Le Armate Nere stavano vincendo.
Ormai erano loro a schiacciare le squadre di Kamal e quelle di Seamus sulle mura del castello, mentre i ribelli gli stavano alle spalle. Combattevano con una ferocia inaudita, e i loro colpi non diminuivano né in forza, né in precisione.
Entro la fine di quel giorno avrebbero conquistato il castello e sterminato ogni nemico.
Un corno suonò nell'aria. I soldati Neri abbandonarono il campo di battaglia lasciando gli altri paralizzati dal rumore. In pochi minuti salirono sui carri rimasti usando anche quelli dei soldati di Seamus e dei ribelli, e lasciando tutti gli altri soli in mezzo al campo di battaglia, senza sapere bene cosa fosse successo. Le truppe alleate non attaccarono neppure la ritirata tanto era stata inaspettata, e rimasero immobili per quelle che parvero ore, con le spade ancora pronte in guardia alta.
Nayél, ferito alla testa e a un polpaccio, fu il primo a lasciar cadere l'arma, che raggiunse la strada acciottolata con un tonfo sordo. Come i cerchi che si propagano sulla superficie dell'acqua, quando qualcosa ne rompe il perfetto equilibrio, così il gesto del ribelle dai capelli rossi echeggiò per le strade desolate di Sansea, risvegliando i compagni da quello che sembrava un incantesimo che li aveva immobilizzati. Si guardarono attoniti l'un l'altro, poi da qualche parte qualcuno si accasciò al suolo e rise fin quasi alle lacrime; la tensione si dissolse nel nulla, e abbozzi soffocati di riso isterico si diffusero per tutta la città.
Inspiegabilmente ce l'avevano fatta. Erano vivi.
Enora si avvicinò ad Arkara, gli occhi verdi lucidi e un sorriso tremante sul volto stanco e ferito. Lasciò andare l'elsa che cozzò con l'elmo di chissà chi caduto poco lontano dai suoi piedi, e strinse la sua migliore amica in un abbraccio che esprimeva tutta la gioia di poter ancora assistere alla bellezza del sole che tramontava.
«Abbiamo vinto» sussurrò la ragazza dai capelli rossi, come se avesse paura di dirlo a voce alta, come se i soldati di Alec potessero riapparire dal nulla.
Nahil guidò il suo esercito verso l'accampamento in una marcia stanca e disordinata. Sembrava l'unico a non gioire di quella vittoria e aveva l'impressione che, dalla morte di Ares, non sarebbe più stato in grado di gioire di niente. Quando finalmente le gambe lo trascinarono nella tenda in cui c'erano ancora le carte spianate sul tavolo, Christopher era lì ad attenderlo.
«Ah, ce l'hai fatta a venire, dopotutto».
L'uomo dagli occhi verdi era seduto sulla terra nuda, le gambe incrociate e un'espressione contrita sul volto.
«Ho saputo di Ares».
Nahil annuì stanco, non voleva parlarne in quel momento, così mosse a fatica i piedi per uscire fuori di lì.
«Mi dispiace non essere arrivato prima» continuò l'ex soldato massaggiandosi la barba ispida, poi si issò in piedi e raggiunse l'amico che si era fermato dandogli le spalle.
«Tanto tu non combatti, vero, Christopher? "Userò la spada solo per proteggere mia figlia", lo hai promesso, ricordi? Non sarebbe cambiato nulla».
«Non mi assumo la responsabilità della sua morte, Nahil. Sono qui per Enora». Si fermò a pochi passi dal generale degli Elyse, il braccio in procinto di toccargli una spalla mollemente fermo a mezz'aria. Nahil si voltò, gli occhi scuri e vuoti fissi sui suoi.
«Ares ti ha sempre assecondato in questo tuo folle modo di vivere la vita, costantemente all'ombra della figlia che neppure sa di averti come padre. – iniziò, con il preciso intento di ferirlo – Ti ha sostenuto quando ci hai quasi supplicato di aspettare i tuoi tempi, di non rivelarle la verità fino a quando tu non avessi deciso di farlo. Etios è miracolosamente riuscito a impedire a Stenphield di rivelarle ogni cosa, ma non credo che riuscirà a tacere per molto. Ares è morto perché gli stregoni di Alec sono stati più forti, e tu stai impedendo a Enora di aiutarci ad accrescere i nostri poteri. Ci servono le sue capacità, adesso più che mai».
«Era Ares a non volerli fare uscire allo scoperto, non addossarmi questa colpa. Enora non è ancora pronta, sarò io stesso a spiegarle tutto, solo... non adesso».
Christopher aveva giurato a sé stesso che sarebbe stato lui a raccontare a sua figlia Elisea la verità sulle sue origini; aveva pensato alle parole da dirle per quasi tutta la vita, mentre la vedeva crescere tra le braccia di un uomo che chiamava padre al posto suo. Adesso, però, non aveva il coraggio di affrontare la realtà: aveva paura di distruggerle l'equilibrio che si era faticosamente costruita, aveva paura di essere rifiutato. Erano paure egoistiche, lo sapeva, e più passava il tempo e più sarebbe stato complicato, solo che... non adesso. Semplicemente, non adesso.
«Fa' come ti pare» fu la laconica risposta del generale, poi gli diede le spalle e si incamminò lontano da lui.
«Dobbiamo andare a parlare con il re Kamal» lo fermò Seamus, intercettandolo appena fuori dalla tenda. Nahil sollevò leggermente il capo, rassegnato a non trovare il tempo per riposare i muscoli stanchi e la testa pesante e, senza dire nulla, si diresse insieme al sovrano verso le mura distrutte del castello di Sansea.
Seamus, Nahil e Kamal si riunirono nella Sala del Giudizio, mentre fuori i soldati si affrettavano tra feriti e caduti. In quell'enorme sala, governata dalle sfumature del blu e dell'argento, come gran parte di tutta la dimora, solitamente il re della Terra del Pesce emanava le sue sentenze su uomini e delinquenti: tutti gli altri ambienti erano allestiti per dare soccorso ai feriti e ospitare le salme, mentre gli abitanti della città erano tornati per le strade a prendere atto di tutto ciò che avevano perso.
«Ciò che è successo non ha il minimo senso. - sentenziò Seamus, prendendo posto insieme agli altri in uno degli alti scranni appartenenti alla famiglia reale Landok - Ci avrebbero annientati di lì a poco, se non avessero suonato quel corno».
«Non importa. Non saremmo giunti a questo punto se voi foste arrivati in tempo» intervenne il sovrano della Terra del Pesce. Nahil si voltò stupito verso di lui.
«Non sareste durati nemmeno mezza giornata senza il nostro aiuto» gli ringhiò tra i denti. L'alleanza con Kamal sarebbe stata preziosa per poter vincere contro Alec, lo sapeva, ma non era proprio in vena di discutere con quell'uomo viziato.
«I miei soldati sono più valorosi di quello che credete» rispose il re dagli occhi azzurri, ricambiando lo sguardo di sfida.
«I vostri soldati vi avrebbero lasciato da solo, se noi e le truppe di Sua Maestà Seamus non lo avessimo impedito!». Il generale degli Elyse era esausto, non aveva neppure avuto il tempo di togliersi di dosso le protezioni sporche e insanguinate, né di curare tutte le ferite che gli pulsavano nel corpo, ma non aveva intenzione di permettergli di minimizzare il loro operato, di minimizzare la morte di Ares.
«Io credo sia meglio dimenticare ciò che è successo là fuori e concentrarci sulle prossime mosse da fare contro l'esercito Nero».
«Le prossime mosse, Seamus?! Io non mi alleerò con un sovrano che ha contribuito alla morte di mio padre!».
"Vostro padre era un folle, e mi chiedo come abbia fatto a vivere tanto a lungo" pensò Seamus.
«Io e vostro padre non eravamo d'accordo su alcune delle sue scelte, ma vi assicuro che ho tentato di proteggerlo fino alla fine» disse invece, sebbene fosse decisamente stupito per la posizione che Kamal aveva assunto contro di loro, soprattutto dopo aver salvato la città. Kamal lo guardò scettico, poi sorrise spostando i lunghi capelli biondi dietro le orecchie.
«Nessuno mi dice che non siete coinvolto nella sua morte, non posso semplicemente fidarmi di voi».
Seamus fece appello a tutta la diplomazia in suo possesso per non urlargli contro. Era spaventosamente simile a suo padre.
«Perché sarei intervenuto in vostro favore, se fosse come dite?»
Il re della Terra del Pesce sembrò non sentirlo nemmeno; si avvicinò a pochi passi dal sovrano e lo guardò dall'alto verso il basso.
«Come facevate a sapere che Alec mi avrebbe attaccato? E cosa vi ha fatto pensare che dopo il vostro intervento mi sarei alleato con voi? Avete appena detto che senza quel suono ci avrebbero presto annientati: se i risultati sono questi, quale sarebbe il mio vantaggio nel combattere al vostro fianco?»
«Abbiamo uomini al castello che sono dalla nostra parte e ci tengono informati su ciò che accade» intervenne Nahil di getto, ricordandosi di dover coprire quella menzogna anche con Seamus.
«Vostro padre è morto per mano di Alec, noi combattiamo contro di lui: un'alleanza sarebbe la cosa più ragionevole per...».
«Io ucciderò quel verme con le mie mani! Non ho bisogno del vostro supporto per vincere!» urlò Kamal, interrompendo l'altro sovrano.
Seamus si alzò al pari del re che gli stava di fronte. Era più grande di Kamal solo di qualche anno, eppure non avrebbero potuto essere più diversi.
«Chi credete sia intervenuto per evitare la disfatta dell'intera fanteria? – gli disse poi a un palmo dal naso, trattenendosi visibilmente per non urlare – Chi credete abbia aiutato i soldati sotto le mura? Chi ha attaccato l'Esercito Nero su due fronti, dandovi il tempo di riorganizzare la difesa? Non avreste resistito un giorno in più senza il mio aiuto e quello dei ribelli, e se siete troppo testardo per capirlo, se siete troppo orgoglioso per accettare l'aiuto degli altri, vuol dire non solo che siete un pessimo sovrano, ma anche un pessimo uomo». Seamus abbandonò la sala senza attendere oltre e Nahil si trovò costretto a seguirlo, per evitare di affrontare Kamal da solo.
«Non ho tempo da perdere con un uomo simile» esordì Seamus, anticipando le domande del generale che lo aveva raggiunto sulla soglia della Sala del Giudizio. Lui non disse nulla, non aveva la forza di ribattere, e neppure gli interessava.
Camminarono in silenzio, uno di fianco all'altro, lungo corridoi gremiti di feriti e soldati, attraversando sale distrutte e superando pareti cadute e statue in frantumi; poi, ognuno si diresse verso il proprio esercito.
Non appena Seamus e Nahil chiusero l'uscio dietro di loro, Kamal poggiò stancamente le spalle contro lo schienale dello scranno su cui era seduto, e prese ad ammirare l'alto soffitto della sala. Le travi di legno che ne reggevano il peso erano crepate e inclinate, e si chiese quanto tempo sarebbe passato prima che cedessero completamente.
Si sollevò in piedi e fece scrocchiare le ossa del collo e delle dita, poi si diresse verso l'uscita con il cipiglio fiero di chi sapeva di aver agito per il meglio. Non gli serviva l'aiuto di ribelli e mezzi uomini, lui avrebbe trionfato su quel farabutto di Alec, dimostrando a tutti che la Terra del Pesce non permetteva a nessuno di attaccarla e uscirne indenne.
«Che cosa avete fatto?». Paulne, l'anziano consigliere della Terra del Pesce, lo guardava torvo da sotto la sua gobba, inarcando le folte sopracciglia del volto rugoso.
«Quello che dovevo».
Avevano avuto un'accesa discussione subito dopo la fine dello scontro. Kamal gli aveva comunicato la sua intenzione di armare un esercito contro Olok da far partire immediatamente, ma lui e Veerin, il secondo consigliere del re, lo avevano supplicato di non farlo. Non erano pronti per affrontare una marcia così lunga, né per combattere ancora e, dopo lunghe ore, erano riusciti a convincere il re quantomeno a farli partecipare alla riunione con il capo dei ribelli e Sua Maestà Seamus. Una volta giunti alle soglie della Sala del Giudizio, tuttavia, i due uomini erano già andati via.
«Siete solo stato un incosciente! Non possiamo permetterci di affrontare da soli una battaglia del genere!». Il dito nodoso del vecchio Paulne oscillava fastidiosamente davanti al naso di Kamal, e il re stavolta non riuscì a sopportarlo. Gli afferrò bruscamente il polso e glielo abbassò di colpo, facendolo strillare di dolore.
«Ucciderò Alec con le mie mani, e non sarete voi a fermarmi; partirò da Sansea il prima possibile. Lascerò gli uomini necessari affinché la città venga costruita in fretta e, poi, tornerò reggendo la testa del Sommo Sovrano come si fa con gli animali dopo una battuta di caccia». Kamal spostò i lunghi capelli biondi dietro le orecchie, che gli erano ricaduti sul viso quando si era chinato per parlare all'altezza del consigliere, poi si sollevò in tutta la sua stazza e piantò gli occhi del colore del mare in tempesta sull'altro. Veerin, però, non ebbe il coraggio di proferire parola, completamente annichilito dalla durezza nello sguardo del re e dal modo in cui aveva trattato Paulne.
Kamal inspirò ed espirò a fondo, come se volesse così buttare via tutta la rabbia repressa, poi lasciò la sala e i suoi tre consiglieri.
Era terribilmente arrabbiato. Era arrabbiato perché suo padre Teodor lo aveva lasciato da solo, perché era sempre stato solo dopo la morte di sua madre. Era arrabbiato perché non aveva mai avuto il privilegio di mostrarsi debole, perché si era allenato a lungo affinché fosse in grado di proteggere la sua famiglia e perché, quando ce n'era stato il bisogno, non c'era riuscito.
E suo padre era morto.
E Gebediah era morto.
Salì le scale che portavano ai suoi alloggi nel primo piano, piantando i piedi a ogni passo che faceva, incurante delle fitte che gli partivano dalla ferita al ginocchio e che gli si dipanavano per tutto il corpo.
Nessuno osò fermarlo. Erano tutti troppo impegnati a contare caduti e moribondi, a pulire ferite, mettere bende; qualcuno aveva persino la forza di litigare per chissà cosa, mentre altri si limitavano a guardare fissi davanti a sé, con gli occhi e il cuore completamente vuoti.
Oltrepassò le stanze di Derlyn e Fergus, i gemelli che, nonostante non condividessero più gli alloggi da quando erano bambini, avevano comunque sempre voluto essere vicini; oltrepassò la stanza incredibilmente silenziosa di Gebediah, e poi superò quelle che erano state le sue. Non vi dormiva più dalla sua nomina a sovrano. Non si svegliava più con la luce del sole che entrava dalla finestra fino a dargli fastidio agli occhi; non aveva più il suo letto, né le sue abitudini. Si era dovuto trasferire nella camera padronale, come era consono che facesse, e, adesso, la prima cosa che vedeva quando apriva gli occhi era un enorme ritratto di sua madre che Teodor non aveva mai fatto rimuovere e che lui non aveva neppure la forza di guardare.
Continuò ad avanzare sul piano che ospitava tutte le stanze reali, fino a fermarsi davanti alla porta socchiusa di quella che apparteneva a Syria. I piccoli singhiozzi che provenivano dal suo interno ebbero la forza di interrompere il passo claudicante del re, che si concedeva solo quando era sicuro che nessuno lo vedesse. Aprì piano l'uscio ed entrò, senza preoccuparsi di fingere il contegno che si obbligava ad avere dinnanzi a tutti gli altri.
Sua sorella era rannicchiata sulla balaustra imbottita della grande finestra che dava su Sansea, le ginocchia al petto e il viso rivolto fuori.
«La ricostruiremo. Sarà più bella di prima» le disse. La principessa tirò su col naso e si voltò verso il fratello che era appena entrato, senza nessuna vergogna nel mostrargli gli occhi gonfi e rossi. Scosse la testa alle parole che le aveva rivolto il fratello, e la poggiò sulle gambe che stava abbracciando.
Crescere con quattro fratelli non era stato facile: aveva dovuto imparare da sola molte cose, mentre altre non aveva mai potuto farle. Non aveva mai potuto intrecciarsi i capelli con sua madre o con una sorella; aveva potuto farlo con le domestiche, ma non era mai stato lo stesso, e così aveva deciso di tagliarli e portarli sempre corti. Non aveva potuto chiedere a nessuno cosa stesse succedendo al suo corpo negli ultimi anni, e non aveva avuto nessuno che le insegnasse le cose che solo una madre può sapere. In compenso, però, era tremendamente brava ad arrampicarsi, sapeva tirare con l'arco e cavalcare all'amazzone; infine, aveva ben imparato dai suoi fratelli a non mostrare mai nessuna delle emozioni che provava.
In quel momento, però, non era stata in grado di dissimulare tutto il groviglio che le invadeva il petto, né era riuscita a fermare le lacrime che avevano preso a scorrere copiose, come se volessero svuotarla.
«Non andare» lo supplicò tenendo il volto sepolto tra le ginocchia. Kamal le si avvicinò e le poggiò una mano sulla chioma bionda, carezzandogliela distrattamente.
«Non puoi chiedermelo, Syria. Devo vendicare Gebediah e tutta Sansea. Questa distruzione non può rimanere impunita».
Lei sollevò la testa e la poggiò sul braccio del fratello.
«La morte di Alec non lo riporterà indietro, Kamal, e forse non tornerai nemmeno tu. Ho chiesto io giustizia per Gebediah, ma guarda come ci hanno ridotti. Non abbiamo la forza di reagire».
Il giovane re guardò oltre la vetrata della finestra, osservando la decadenza del giardino reale e di tutte le case che si vedevano da lì; osservò i suoi cittadini strisciare i piedi mentre camminavano sulle strade acciottolate, trasportando cadaveri e feriti; vide uomini piangere di fronte a tutto ciò che avevano perso, reggendo tra le mani le poche cose che gli erano rimaste mentre, i più fortunati, si stringevano ai loro familiari.
«Non lo vedi? Anche se respiriamo, sembriamo già tutti morti. Siamo deboli, stanchi, e, se tu vai via, saremo anche soli».
Kamal dovette allontanarsi da lì per evitare di essere sopraffatto dalle emozioni della sorella, e indietreggiò fino ad appoggiare le spalle sull'uscio.
«Accetterò l'alleanza con i ribelli e gli chiederò di lasciare qualcuno dei loro uomini a proteggere i confini della città, se questo ti farà stare meglio. Ma non posso rimanere qui, non chiedermelo».
Syria piegò la testa in modo da avere una guancia poggiata sulle ginocchia e gli occhi azzurri piantati in quelli del fratello. Sorrise debolmente chinando il capo in un leggero cenno di assenso, e poi Kamal sparì dalla sua vista oltrepassando la soglia delle sue stanze.
Quando il re raggiunse i suoi alloggi personali per scrivere un biglietto per gli Elyse, trovò Aileen in piedi di fronte al ritratto di sua madre, Leonore.
«Ora che la battaglia è finita, potete andare via da questo castello in rovina» le disse senza neppure salutarla, superandola per raggiungere lo scrittoio.
«So che volete partire verso Olok» ribatté lei, con una voce stranamente priva del solito tono civettuolo.
«Non me ne avete fatto parola» continuò, notando l'espressione interrogativa del sovrano.
«Non sapevo di esserne tenuto». Kamal si sedette, accese una candela per rischiarare meglio l'ambiente alla luce soffusa del tramonto, e impugnò la piuma per scrivere, sperando che la donna comprendesse l'antifona di quel comportamento.
«Dovete sposarmi, prima».
Quando il sovrano si voltò, i suoi occhi chiari incontrarono quelli scuri e screziati di verde della contessa di Gergovia. Posò la piuma, pronto per ribattere a quell'assurda pretesa, ma Aileen si avvicinò a lui con una strana espressione e il volto estremamente serio.
«Ci sono degli accordi, Sire. Mio padre ha firmato un patto, così come i consiglieri a nome vostro. Questo trono mi spetta. E, dopo che sarò regina, voi potrete pure scorrazzare liberamente per Holtre».
Kamal si mise in piedi, sovrastando l'esile corporatura della donna con la propria. Le cinse le spalle in un gesto che poteva sembrare romantico, se non fosse per la glacialità che trasudavano i loro sguardi.
«Vi consiglio di partire immediatamente, contessa. Non vorrei trovarmi nella spiacevole situazione di cacciarvi dalla mia città».
Aileen, però, non aveva la minima intenzione di cedere.
«State per partire per una lunga battaglia, Maestà, e le forze di Gergovia vi potrebbero essere molto utili durante questo viaggio. Oppure, vi potrebbero essere molto d'intralcio».
Kamal lentò la presa sulla donna e prese nuovamente posto sulla sedia vicino lo scrittoio, portando un piede sul ginocchio opposto e squadrandola con interesse per la prima volta da quando si erano conosciuti: evidentemente, era molto meno ingenua di ciò che credeva.
«E sia. – concesse infine – Rimanete pure qui. Ma non sarete mia sposa, non adesso. Quando tornerò vittorioso da Olok, solo allora, vi farò regina».
La contessa batté le mani un paio di volte rompendo la tensione che si era creata, e recuperando tutta la superficialità a cui Kamal si era abituato.
«Oh, non abbiate timore, Mio Re. Quando tornerete, la città sarà meravigliosa! Sarà stupendo inaugurarla con il nostro matrimonio».
Kamal l'accompagnò fuori dalle sue stanze senza aggiungere una parola, poi ritornò alla sua postazione, si passò una mano sul viso che sembrava invecchiato di colpo e iniziò a scrivere.
Quella sera, Nahil si diresse silenzioso verso una radura poco distante dalle tende dei ribelli. Erano tutti lì e lo stavano aspettando. Tanti, troppi corpi giacevano attorno ad un immenso fuoco, per quel macabro rituale che si sciupava alla fine di ogni battaglia. Il generale fece scorrere lo sguardo su ognuno di loro e si rese conto di conoscerli tutti.
Si sedette sul terreno, stanco come mai lo era stato in tutta la sua vita, e attese insieme agli altri.
Dagli alberi a sud della radura emersero alcuni ribelli che trasportavano una salma. Ares, avvolto in un lenzuolo e sorretto da Noor, Korinna, Nayél ed Etios, venne adagiato accanto a uno degli altri caduti.
Non aveva avuto la forza né la voglia di accompagnare suo fratello in quell'ultimo viaggio. Odiava pensare che fosse morto.
Il fuoco cominciò a lambire i cadaveri e, poco per volta, tutti coloro che assistevano assorti si allontanarono dal lugubre evento. Mentre la folla si dileguava piano, dei piccoli singhiozzi sincopati riecheggiarono nell'aria fresca della notte, interrompendone il solenne silenzio. Quando i ribelli si voltarono verso la fonte di quei lamenti, videro Nahil con il volto sommerso tra le mani e la testa tra le gambe. Nessuno ebbe il coraggio di avvicinarlo, e il generale rimase lì, immobile, a piangere come un ragazzino.
Korinna non riuscì a resistere ancora, e si distaccò velocemente dal fuoco, come se così potesse attenuare il doloroso e opprimente senso di colpa che sentiva gravare su di sé. Noor fu l'unico che se ne accorse e che la seguì fino alla tenda che era stata di suo padre. La raggiunse e le si sedette accanto, ma lei non sembrò accorgersi della sua presenza.
«So quello che provi. - le disse semplicemente - Non puoi cambiare il passato, ma puoi fare in modo che la sua morte non sia stata vana». Decise poi di rimanere in silenzio fino a quando fosse stata lei a parlare, e rimasero accanto per lungo tempo prima che i singhiozzi le permettessero di farlo.
«E cosa potrei fare per renderlo fiero di me?». La ragazza alzò la testa e lo guardò con occhi tristi e gonfi.
«Andare avanti. Andare avanti e combattere».
Una voce fuori la tenda distrasse i ragazzi dai loro pensieri: un uomo vestito di tutto punto e con lo stendardo della Terra del Pesce chiedeva a gran voce del "capo dei ribelli".
Non volevano disturbare Nahil in quel momento, non sapevano nemmeno dove fosse, in realtà, così dissero a quell'uomo di riferire a loro. Il paggio parve riflettere un po', ma alla fine decise di rivelare il messaggio e così, con aria evidentemente seccata, aprì la pergamena che reggeva tra le mani e lesse.
«"Sua maestà Kamal Landok, sovrano della Terra del Pesce, ha il piacere di comunicare ai ribelli e a Seamus Lutphield, sovrano della Terra del Leone e del Toro, che acconsente a una collaborazione militare per aumentare le vostre possibilità di riuscita. Vi invita, inoltre, a presentarvi domani quando il sole sarà alto, per discutere meglio dei piani d'azione da intraprendere affinché i conflitti possano durare il minore tempo possibile"». L'uomo richiuse il foglio di carta che aveva inutilmente proclamato a gran voce, e si allontanò senza dire altro.
Non appena Seamus e Nahil lasciarono la Sala del Trono in cui Kamal li aveva accolti, il re si diresse immediatamente nell'armeria dove sapeva che avrebbe trovato Berut. L'uomo, infatti, passava lì la maggior parte delle sue giornate a lucidare le armi in modo quasi maniacale, e ad allenarsi nel piccolo fazzoletto di terra che la circondava.
Fu sufficiente un rapido gesto della testa del sovrano per far sì che il generale interrompesse il combattimento a mani nude con un fantoccio di paglia.
«Ho bisogno che prepariate l'esercito per marciare su Olok» esordì Kamal.
Berut, generale dell'esercito rosso e capo delle spie della Terra del Pesce, non mutò la sua solita espressione corrucciata: sapeva che quella sarebbe stata la reazione del suo re e si era già preparato. Ci aveva pensato a lungo e, nonostante la ragione si opponesse strenuamente a quel pensiero, non poteva fare a meno di sentirsi colpevole per tutta la distruzione che lo circondava. Dopotutto, erano state le sue spie a fallire, facendoli cogliere dal nemico completamente impreparati e, adesso, covava dentro un odio che poteva essere saziato solo con il sangue.
«Vi chiedo solo di darmi una settimana di tempo per riunire i soldati e organizzare una spedizione con tutti coloro in grado di partire».
«Radunate gli uomini di Gergovia e Jena, richiamate ogni singolo pescatore dai villaggi sulla costa, fate in modo che i marinai tornino sulla terraferma. Ogni uomo che sia in grado di reggere un'arma sarà utile; non risparmiate nessuno, anche a costo di obbligarli con la forza. Distruggeremo la Terra Centrale e ci riprenderemo la nostra dignità».
Il generale chinò il capo e si allontanò con la testa improvvisamente più pesante. Si guardò intorno e seppe che, probabilmente, quella sarebbe stata l'ultima volta che avrebbe rivisto la sua città. Era pronto per la battaglia, come sempre, ma conosceva le pessime condizioni in cui versava l'esercito, e sapeva che non avrebbero mai potuto vincere contro la furia che avevano scatenato i soldati neri.
Inspirò a fondo per incanalare nei polmoni quanta più aria potesse, assaporando il gusto salato che il mare gli conferiva. Sapeva di casa, di libertà, di famiglia.
Una settimana dopo, Berut aveva raggruppato diverse centinaia di persone unite dall'odio verso Alec e dalla voglia di rivalsa, ma c'erano molti feriti e diversi contadini e pescatori che non avevano mai imbracciato un'arma in tutta la loro vita. Le condizioni di partenza erano indubbiamente a loro sfavore, ma il generale sapeva quanto poteva essere letale un uomo mosso dalla rabbia di aver perso tutto, e la maggior parte del suo esercito era proprio composto da persone che, ormai, non avevano più nulla da perdere.
Prima di raggiungere l'esercito di fronte alle mura della capitale, Berut si recò al molo che dava sul grande mare di Sansea. Da lì si potevano vedere i pescatori prendere il largo e si scorgevano anche, poco prima dell'orizzonte, le enormi navi che il re Teodor aveva fortemente voluto per scongiurare attacchi marini e per aumentare il senso di sicurezza dei cittadini. Si sedette sulla sabbia umida con il viso verso l'orizzonte, e cominciò a parlare rivolto alla bassa montagnetta di terriccio accanto a cui si era seduto.
«Papà tornerà presto, piccola mia, non temere. Nel frattempo, tu e la mamma potrete rimanere qui, nel tuo posto preferito. Potrai finalmente giocare in spiaggia per quanto tempo vorrai, Aysha... per tutto il tempo che desideri, per tutto il tempo del mondo».
Il generale di Sansea si rimise in piedi con un agile movimento di gambe, si scrollò di dosso la sabbia e, senza abbassare lo sguardo su ciò che restava della sua famiglia, ritornò dai suoi uomini, pronto a marciare verso Olok.
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