Capitolo 26: Le armate invincibili
Nessuno riuscì a dormire quella notte: i lamenti dei feriti si diffondevano nell'aria secca del crepuscolo e la paura di un attacco notturno teneva svegli anche quei pochi abbastanza lontani da non sentirne i gemiti. Le ore si susseguirono lente, dilatando ogni suono della boscaglia in cui si erano accampati; i ribelli avevano i nervi tesi e tennero le armi ben in vista per tutto il tempo, fino a quando finalmente il sole fece timidamente capolino oltre la linea delle montagne che si intravedevano, dando così il tacito assenso a un altro giorno di scontri.
I soldati si disposero in posizione mentre le ultime striature di rosa lasciavano spazio all'azzurro chiaro di primo mattino, con l'adrenalina in corpo a fargli dimenticare tensione e stanchezza. Il sole prometteva un'intensa giornata di caldo nonostante fosse autunno inoltrato, e cominciarono presto a sudare dentro le pettorine e le armature verdi e amaranto.
In avanscoperta erano stati schierati i soldati del Leone, ben più addestrati ed equipaggiati dei ribelli, con lance e archi a lunga gittata; al centro si trovava la cavalleria, mista tra armature verdi e pettorine bianche, mentre nella retrovia si allargava la fanteria, insieme a tutti gli uomini che nonostante le ferite volevano continuare a dare il proprio contributo. Sotto le mura di Sansea, invece, impalati come statue di cera, erano posizionate gran parte delle forze rosse del Pesce insieme alle squadre di Seamus e della Resistenza che erano riuscite ad arrivare fin lì, oltrepassando la massiccia macchia nera di Olok che si espandeva dal perimetro del castello reale.
Un silenzio innaturale regnava sulla città ormai distrutta, poi un urlo di battaglia diede il segnale, e tutti si lanciarono all'attacco.
Il re della Terra del Leone aveva delle carte poggiate sul tavolo della sua tenda, al sicuro dai pericoli dello scontro: piani d'azione, pedine sparse per la mappa della città e mille teorie su cosa sarebbe potuto accadere. Eppure, niente di tutto quello preparava realmente alla guerra: a poco servivano le strategie quando si era nella mischia, e lui lo sapeva molto bene. Riusciva ancora a ricordare la libertà di perdersi tra la folla e dare sfogo a tutta la rabbia, anziché osservare quello scempio dall'esterno. Ancora una volta passò una mano sulla gamba, senza sentirne il tocco, senza sentire pelle.
Quel legno stava diventando la sua tomba.
Scaraventò la sedia che i suoi servitori si premuravano di fargli sempre avere vicino, e prese a fissare con furia le maledette carte che aveva davanti. Odiava tutte quelle accortezze, lo facevano sentire malato, lo facevano sentire inutile. Respirò profondamente cercando di far defluire la collera e si impose di analizzare la battaglia: erano tre eserciti contro uno solo, eppure non riuscivano a sfondare le loro linee. Così non poteva funzionare, non potevano vincere. Si allontanò da quel rudimentale tavolo e si sforzò di pensare a una strategia alternativa.
Una pettorina bianca fece irruzione nella sua tenda facendolo leggermente sobbalzare, tanto era immerso nei suoi pensieri: un ragazzo aveva la protezione sporca di sangue e si teneva un fianco. Il re lo aiutò a sistemarsi nel terreno e cercò di calmare i potenti spasmi che gli scuotevano il corpo.
«Io non credo di... non credo di riuscire a sopravvivere».
Seamus scostò la mano del ribelle dalla ferita, e capì che aveva ragione.
«Vado a chiamare la vostra guaritrice, io non sono molto bravo. Se aspettate qui, vado a...».
Il soldato lo prese per un braccio e lo avvicinò a sé. Non aveva più molto tempo, lo sapeva, ma doveva dargli un messaggio. Accostò le labbra al suo orecchio e raccolse le ultime forze che gli restavano.
«Non mi serve una guaritrice, Sire. - riuscì a sussurrare con estrema fatica - Sono venuto per... per avvisarvi di ciò che sta accadendo. Lì fuori non sono tutti soldati, Sire... accadono cose strane, è come se non riuscissimo a colpirli. Non sono tutti soldati, Sire... non solo soldati...». La presa sul braccio del re si indebolì e Seamus abbassò gli occhi chiari su quelli del giovane morente.
«Come vi chiamate, ragazzo, da dove venite?»
«Joshua, Sire, sono della Capitale». Il ribelle accostò con estrema fatica il suo pugnale alle gambe del sovrano: aveva il volto pulito stravolto dal dolore, ma nessuna ombra di rammarico.
«Faremo sapere alla vostra famiglia del coraggio che avete dimostrato. Avete combattuto per una causa nobile». Sapeva che non avrebbe potuto fare altro se non acconsentire a una morte rapida e indolore, così raccolse l'arma dal terreno e con un'unica mossa pose fine alla sofferenza di Joshua, il ribelle della Capitale.
Rimase lì, immobile, per un tempo lungo come l'eternità, a fissare il sorriso di quel ragazzo. Si passò una mano tremante tra i capelli, poi si diresse verso il tavolo con gli occhi sgranati e una furia nel petto. Respirò.
«MALEDIZIONE!». Gettò a terra tutte le carte e le pedine che erano sul tavolo, prese una cotta di maglia e la spada e uscì da quella gabbia; zoppicando, si diresse verso il nucleo della battaglia, facendosi largo tra le Armature Nere.
Era libero.
Seamus ritrovò il piacere dell'annullamento, risentì il sangue scorrere più veloce, l'adrenalina, la foga, la vita. Perché la guerra era l'unico posto in cui si era mai sentito vivo per davvero. Eppure non riusciva a ferirli, a scansare i loro colpi, a pararsi in tempo. Sembrava che le loro spade fossero più taglienti, le loro frecce più precise e le armature più robuste. Ora riusciva a capire le parole di quel ragazzo: c'era qualcosa di strano in quei soldati, qualcosa che non aveva mai visto prima.
La gamba cominciò presto a fargli male, i movimenti divennero più rigidi, i suoi riflessi più lenti a causa del dolore, ma il re proseguì a combattere nonostante le ferite sul suo corpo continuassero ad aumentare: aveva riscoperto in sé una forza che credeva di aver perso, e non voleva più rinunciarci.
Con la spada levata in alto e un'espressione folle prese a guardarsi intorno in cerca della strada verso il castello, ma una mano lo afferrò da una spalla facendogli quasi perdere l'equilibrio. Era pronto ad affondare la lama, ma si fermò in tempo prima di trafiggere il fianco di Klethus.
«Che cosa diamine ci fate qui, Sire?». Aveva sangue sul viso e sull'armatura, e il suo sguardo era terrificante.
«Avrei potuto uccidervi!». Seamus calò l'arma e si voltò per cercare un altro nemico. Il consigliere, però, non accennava a mollare la presa.
«Questo non è il vostro posto! Tornate subito indietro!» gli urlò. Non si era mai rivolto al sovrano in quel modo.
«Non parlatemi come se fossi un bambino, sono il vostro re!»
Klethus gettò la spada di lato e lo afferrò per la cotta di maglia con entrambe le mani.
«Io vi sto proteggendo, se non tornate indietro non avrò più nessun re!»
Erano così vicini che Seamus poté sentire il suo respiro affannato sul viso, e negli occhi verdi del consigliere riuscì a scorgere il suo volto riflesso. Era l'immagine di un uomo deforme che stava giocando a fare il soldato, era l'immagine di un uomo a metà.
Abbassò lo sguardo e Klethus lo lasciò andare, sembrava sfinito. Riuscirono a tirarsi fuori dalla mischia a fatica, avevano l'impressione che più passasse il tempo e più i nemici acquistassero energie, tuttavia dalla Piazza del Mare fino alle porte della città non c'era quasi più nessuno, gli eserciti erano totalmente concentrati attorno al perimetro del palazzo, quindi giunsero all'accampamento pressoché illesi.
Doveva parlare con Ares.
«Non è possibile...». Il sovrano si voltò verso il consigliere come per avere conferma di ciò che aveva visto, poi si allontanò velocemente; claudicante, raggiunse la tenda dei ribelli e si accostò all'ultimo ferito che era entrato.
«Che cosa è successo?» chiese alla ragazza bionda che piangeva accanto al corpo disteso su un ammasso di paglia e lana. Korinna cercò di asciugarsi le lacrime e alzò lo sguardo verso di lui, mostrandogli occhi rossi e un labbro spaccato.
«Voleva solo proteggermi...» gemette. Ares era privo di sensi, con una ferita che gli lacerava il collo e parte del petto, tranciandogli la pettorina di netto. Il respiro era lento e profondo come quando si dorme, ma Seamus sapeva che quello non era un buon segno.
Mylene, a capo dei guaritori degli Elyse, pulì la ferita e la ricoprì con una crema che odorava di fiori, poi la fasciò.
«Non posso fare molto: il taglio è profondo. Possiamo solo sperare». Era piuttosto nervosa, il suo generale le aveva impedito di aiutarlo come lei sapeva fare: le aveva detto che non voleva riservato nessun trattamento speciale, e che se il destino avesse voluto che la sua vita terminasse in quel luogo, lui sarebbe morto orgogliosamente al fianco dei suoi uomini. La donna poggiò delicatamente una mano sulla spalla di Korinna in un gesto che, oltre a una blanda consolazione, voleva anche chiedere scusa per quello che non stava facendo, e poi si diresse verso gli altri infermi ignorando il sovrano.
«Un vigliacco mi ha colpita alla schiena e sono caduta. – spiegò la ragazza indicando la spalla fasciata – Mio padre è intervenuto per proteggermi, e invece...». Non riuscì più a continuare, se avesse pronunciato un'altra parola sarebbe scoppiata in lacrime.
Seamus abbassò lo sguardo senza sapere bene cosa dire, si sedette faticosamente a terra accettando l'aiuto di Klethus, e tenne chiuse le palpebre con la testa poggiata alla parete di stoffa che aveva dietro, mentre accanto a lui la ragazza dagli occhi di ghiaccio continuava a tirare su col naso.
Passarono interminabili ore prima che Ares si svegliasse. Era pallido e debole, ma era sveglio, e questo faceva ben sperare.
«Come va la battaglia?» furono le sue prime, flebili parole, non appena incontrò l'espressione preoccupata del re.
«Sono qui proprio per parlarvi di questo, Ares. Lì fuori c'è qualcosa di strano e io credo...».
«So perfettamente cosa sta accadendo, Sire. Korinna, – disse poi rivolto alla figlia – voglio che tu adesso esca e ti asciughi le lacrime. Al tuo ritorno, sarò ancora qui».
«Quelli non sono soldati» cominciò subito il re, non appena la giovane fu lontana. Si era chinato quanto più possibile, e aveva parlato piano per evitare che qualcuno potesse sentirlo.
«Lo so: sono stregoni».
Seamus rimase impietrito per un istante.
«Non dite sciocchezze, la magia non è per gli uomini» rispose quasi in un sussurro. Ares sorrise con estrema fatica. Non aveva senso continuare a mentire.
«Perché non riusciamo a sconfiggere le Armature Nere? – ansimò con il fiato corto, notando chiaramente la diffidenza nel volto del suo interlocutore – Sono praticamente circondate, eppure sembrano sempre in vantaggio. La magia non è esaurita, Sire. Scorre attorno a noi senza che ce ne rendiamo conto».
«La ferita deve avervi annebbiato la mente: state vaneggiando». Seamus si sollevò leggermente, quasi come a volersi dissociare da quelle parole.
«Anche noi li abbiamo, Sire. - riprese il generale, quasi divertito dall'espressione attonita del re - Perché non siamo ancora tutti morti sotto i loro attacchi? Ci sono stregoni che in questo momento stanno proteggendo gli eserciti e questa tenda, stregoni che hanno potenziato armi e scudi, e stregoni che aiutano i soldati a guarire più in fretta. Agiscono nel totale anonimato, muovendosi nei limiti affinché il loro operato passi inosservato ma, se non ci fossero, sarebbe un massacro». Ares chiuse gli occhi, visibilmente provato dalla fatica che gli era costata pronunciare ogni singola parola, il petto che gli pulsava come se avesse qualcosa dentro che premesse per uscire.
«Ma com'è possibile...». Il sovrano si sentì improvvisamente vulnerabile, in balìa di poteri che non riusciva a comprendere né poteva controllare.
«Mio fratello vi spiegherà meglio, io non ne ho la forza. Chiamate mia figlia adesso, voglio salutarla prima di morire. E, vi prego, non ditemi che riuscirò a cavarmela: sarebbe fiato sprecato».
«Non ve lo avrei detto».
Un piccolo cenno a Korinna bastò per farle capire che poteva entrare, e la ragazza si catapultò al fianco del padre. Ora che poteva guardarlo da un po' più lontano, la verità la colpì come un pugno allo stomaco. Suo padre era pallido come la neve, il petto scosso in maniera irregolare da respiri che somigliavano sempre più a rantoli, il volto stremato e i sudori freddi. Quella ferita non sarebbe guarita e lei lo avrebbe perso per sempre.
Aveva atteso una vita intera per poterlo finalmente conoscere davvero, per condividere con lui l'obiettivo che lo aveva tenuto lontano da lei per quasi vent'anni. Non aveva ricordi del tempo passato insieme durante la sua infanzia, non le era stato accanto nelle sue tappe importanti, eppure lo aveva sempre ammirato come si fa con gli eroi. Suo padre lottava per salvare il Regno, e lei sarebbe stata tremendamente fiera di poter dire di essere sua figlia, se solo le fosse stato permesso. Adesso avrebbe potuto avere l'occasione di fargli vedere quanto si era allenata duramente per essere alla sua altezza, dimostrargli di essere degna di poterlo chiamare padre e, invece, non avrebbero avuto il tempo neppure di conoscersi veramente.
Si fece forza e ricacciò indietro le lacrime quando si sedette accanto a lui: non avrebbe permesso che l'ultima immagine che suo padre avrebbe portato con sé, fosse quella di una figlia debole.
«Padre... perdonami. Sarei dovuta rimanere al mio posto, è solo colpa mia». Era difficile riuscire a trattenere le lacrime che lottavano per uscire, e il nodo che aveva in gola le impediva persino di respirare. Ares cercò di sorriderle, ma il dolore trasformò quel tentativo in una smorfia.
«Non ti rimprovererò per questo, non potrei: sei proprio uguale a me! Promettimi soltanto che non perderai mai la tua voglia di lottare». Il generale toccò la fasciatura sul fianco e sentì che la ferita aveva ripreso a sanguinare. Korinna non riuscì più a trattenersi e cominciò a piangere.
«Non voglio restare sola» confessò tra i singhiozzi, forse più a sé stessa che al padre. Gli era rimasto solo lui e, dalla morte della madre Gevieve, non aveva più un posto in cui tornare né dove sentirsi a casa.
«No, figlia mia. Tu hai degli ideali e degli obiettivi che sopravviveranno alla mia morte e a quella di tanti altri. Combatti per loro, sempre, con la forza e la caparbietà che stavo imparando a conoscere, e vedrai che non ci vorrà molto prima che gli altri si rendano conto di chi sei. Affiancati a persone che condividono i tuoi propositi, che si battono per le stesse cose in cui credi tu, e non sarai mai sola».
La ragazza lasciò che il padre le accarezzasse il viso e poi si chinò sul suo petto, lasciando che i lunghi capelli sciolti coprissero l'orribile ferita che lo sfregiava. Si sentì toccare la spalla da un tocco fermo e delicato: Nahil, suo zio, li aveva appena raggiunti.
Era già calato un altro sole su quella battaglia, erano cinque giorni che combatteva senza sosta, e il corpo martoriato da lividi e ferite aperte ne erano la prova. Cercò di pulire quanto più possibile il viso dalla sporcizia della guerra e si avvicinò al fratello che aveva ormai perso tutta la sua imponenza.
«Adesso toccherà a te guidare quei ragazzi».
Korinna si alzò di scatto come se quelle parole l'avessero ustionata, e si allontanò da lì con le mani sulla bocca, incapace di sentirlo parlare in quei termini.
«Non voglio sentirti dire che...».
«Su, avanti. Lascio tutto in ottime mani, lascio mia figlia in ottime mani». Il primo generale abbozzò un sorriso sofferente, troppo stanco persino per aprire gli occhi. Nahil annuì, sebbene sapesse che non poteva vederlo, e calò lo sguardo per la prima volta sulla ferita che lacerava orribilmente suo fratello e il suo più caro amico. Non riuscì a reggere a lungo il macigno che sentiva gravargli sulle spalle e anche lui dovette lottare per non cedere alle lacrime. Lui, però, non era stupidamente orgoglioso come quella testa dura che gli stava disteso dinanzi, e si concesse di piangere.
Il respiro di Ares si fece sempre più lieve, sempre più rado, fino a quando non cessò del tutto.
Nahil fissò inerme il petto immobile di suo fratello, con i singhiozzi a scuotergli le spalle e una voglia incredibile di urlare.
Korinna si gettò sul corpo del padre e pianse, pianse fino a esaurire tutte le sue energie.
Quella notte nell'accampamento si respirò un'aria satura, pesante. Adesso bisognava finire in fretta quella battaglia per dare al generale, e agli altri soldati caduti, una degna fine.
Il re Kamal rientrò furibondo tra le mura del castello in rovina; anche per quel giorno era riuscito a proteggere le ultime quattro torri rimaste, grazie all'aiuto delle truppe di Seamus e dei ribelli. Gran parte degli abitanti della città, però, si trovava adesso nel palazzo e la loro gestione era pressoché impossibile. Aveva passato quasi tutta la giornata a organizzare i pasti e a smistare feriti e uomini che volevano combattere, mentre le donne erano state mandate in cucina per cercare di provvedere in qualche modo ai pasti di quelle migliaia di persone, attingendo a piene mani dalle scorte reali e dai sacchi di avena e grano che qualche anima tra i suoi sudditi era riuscito a trasportare con sé nella fuga, e che ora metteva a disposizione di tutti gli altri.
L'umore era, però, molto basso tra i cittadini; aveva dovuto sedare qualche rissa e si era persino beccato un cazzotto dritto sul mento che, ovviamente, non aveva lasciato impunito. Solo a fine giornata era riuscito a raggiungere i merli della cinta muraria all'ultimo piano della sua dimora, soltanto per constatare che la situazione era maledettamente identica a quella del giorno precedente.
«Mio Re, – si sentì chiamare da un punto indistinto poco distante da lui – sono così felice di vedervi sano e salvo!». Aileen lo raggiunse con il suo solito passo saltellante, reggendo alta la gonna con le due mani, e lanciando occhiate torve ai cittadini laceri e sporchi che le si accalcavano attorno.
«Non ho tempo per i vostri cinguettii» la fermò, non appena fu abbastanza vicina da poterlo udire. Era proprio l'ultima persona che avrebbe mai voluto vedere.
«Non capite? Questa terribile guerra mi tiene imprigionata nel castello! La sua distruzione, però, sarà la base da cui ripartiremo assieme dopo il nostro matrimonio».
Kamal terminò tutta la pazienza che aveva in corpo per evitare di urlarle contro. Quelle parole erano fuori da ogni logica.
«Quando sarò regina, potremmo ricostruire ogni cosa nel modo che più ci aggrada, mio adorato» continuò quella afferrandogli le dita, guardandolo con quei suoi occhi screziati di verde e pregni di follia. Il re non riuscì a dissimulare l'espressione di sdegno che il solo contatto gli aveva provocato.
«Andate via dalla mia città non appena sarà possibile. Non tollererò la vostra presenza un giorno di più». Si scrollò malamente di dosso le mani civettuole e le indirizzò un'ultima occhiata di disgusto prima di andare via.
«È solo piuttosto agitato per via della guerra. – la rassicurò all'orecchio una delle dame che l'accompagnava – Non lo pensa sul serio. La vostra sarà un'unione felice».
La contessa di Gergovia annuì agitata mentre osservava la schiena del suo sposo sparire oltre i cittadini sudati, sporchi e ammassati nell'elegante sala da ballo di Sansea, e poi cercò di raggiungere da lì un luogo un po' più riservato.
Kamal si avviò rapido per interporre il maggior spazio possibile tra lui e quella vanesia e frivola donna, con i nervi a fior di pelle. La battaglia sembrava essere in stallo, non sapeva come reagire, non avevano cibo e suo fratello era morto.
Già, Gebediah era morto e lui non aveva nemmeno avuto il coraggio di riferirlo a Syria.
Camminò a passo svelto lungo le stanze invase da gente, cercando di evitare chi cercava di fermarlo e scacciando malamente chi riusciva a farlo. A metà strada di uno dei saloni da ballo, nel piano più basso del castello, si rese conto di non aver neppure una meta da raggiungere: le sue stanze, infatti, così come tutte quelle dei suoi fratelli e persino quelle della servitù, erano state messe a disposizione delle migliaia di persone che non avevano più una casa.
Masticò un'imprecazione a denti stretti e sgomitò tra la folla per raggiungere il terrazzo che dava sul giardino. Lì, dove fino a qualche giorno prima sorgeva un piccolo lago artificiale, adesso c'erano solo macerie a ricoprirne interamente la superficie e, seduta su quel desolante bordo in pietra, c'era Syria che parlava con Derlyn e Fergus.
Si avvicinò mesto, il capo chino e gli occhi chiari offuscati dalla stanchezza. Notò le lacrime della sorella e le facce contrite dei gemelli, e intuì immediatamente quale fosse il centro del loro discorso. Non appena si avvicinò, Syria si issò in tutta la sua minuta statura, e quando se lo ritrovò di fronte lo schiaffeggiò.
«Non sei nemmeno venuto a dirmelo di persona, vigliacco» gli sibilò con la voce dura e gli occhi rossi di pianto. Derlyn si mosse per intervenire, ma Kamal lo fermò allungando un braccio nella sua direzione.
«È una guerra, nel caso in cui non te ne fossi accorta. La gente muore». Non erano quelle le parole che avrebbe voluto indirizzarle, eppure le sue labbra non erano riuscite ad articolarne altre. Fergus raggiunse la sorella, visibilmente scossa dalla risposta inaspettata, e l'allontanò da lì.
«Devi solo rimproverare te stesso per la sua morte, Kamal, è inutile che cerchi di sfogare la tua rabbia su di lei».
Fergus aveva colto nel segno. Si era tenuto impegnato per tutto il giorno in quegli assurdi compiti di gestione che non gli competevano, continuando a ripetersi che lo faceva perché nessuno meglio di lui avrebbe potuto, ma la verità era che non voleva pensare a quanto era stato debole.
«Al sicuro tra le mura di casa è facile additare gli altri, eh, Fergus?» lo accusò piantando gli occhi di mare in quelli del fratello. Lui gli si scaraventò addosso nel tentativo di colpirlo allo stomaco con la mano chiusa, ma Kamal fu veloce a scansarsi, gli torse il polso e lo gettò a terra come se fosse l'ultimo dei criminali.
«Non sei solo tu ad aver perso un fratello! – iniziò Derlyn, intervenendo in aiuto del gemello con il labbro sanguinante – Non ruota tutto attorno a te, prova a pensare a come si possano sentire gli altri per una maledettissima volta in tutta la tua vita!»
«Andate via» mormorò il re, sistemando la lacera casacca bianca che gli si era scompigliata nel breve scontro, i capelli completamente sciolti ricadevano lunghi sul viso.
«Mentre voi state qui a litigare come bambini, là fuori l'assassino di Gebediah è rimasto impunito. Se nessuno di voi ha abbastanza coraggio per andargli a tagliare la gola, lo farò io». Syria si allontanò a grandi passi da quel giardino ricolmo di macerie che continuava a ricordarle quanto la sua vita fosse cambiata in pochi giorni, ma venne presto raggiunta da Kamal.
«Dove credi di andare, ragazzina! Non hai la minima idea di cosa c'è là fuori».
Lei strattonò il braccio per liberarsi dalla solida presa del fratello maggiore e, quando non ci riuscì, prese a colpirgli il torace con la mano chiusa. Doveva andare a vendicare suo fratello.
«Non ho bisogno della protezione di nessuno» disse digrignando i denti, scandendo le parole a ritmo dei pugni che gli indirizzava.
«Smettila, adesso» le bisbigliò Kamal con il tono delicato che sapeva assumere solo con lei, gli occhi improvvisamente lucidi. I colpi persero velocemente di forza e intensità, e Syria si ritrovò presto a bagnare di lacrime il petto del fratello, mentre lui le stringeva le spalle. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per risparmiarle quella sofferenza, aveva visto in poco tempo suo fratello e suo padre venir portati via dalla morte.
«La sua morte non sarà vana. Lo vendicheremo, qualunque cosa accada».
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