Capitolo 24: Terra e sangue
Fuori dalle mura del castello di Sansea, la brezza marina trasportata dal vento insieme alla polvere riempì le narici dei reali con il suo odore pungente. Anche da quella distanza, si riusciva a sentire il terreno vibrare sotto i numerosi soldati nemici che continuavano ad avanzare nella città.
Kamal aveva dato ordine di aprire le porte del palazzo per accogliere i civili e, alla fine, sua sorella Syria l'aveva avuta vinta e si stava rendendo utile nel coordinamento della massa di gente che affluiva incessante presso la loro dimora. Quella ragazzina aveva la forza di un maremoto racchiusa in quel minuto corpo non ancora sviluppato, e il re si ritrovò a pensare che avrebbe davvero voluto essere presente quando sarebbe finalmente sbocciata nella grande donna che era destinata a essere.
Deglutì cercando di scacciare quel pensiero negativo e si volse verso il fratello che, per fortuna, aveva iniziato a parlare, distraendolo.
«Raggiungi il generale Okoni, digli di spostare gli arcieri nelle retrovie e muovere avanti la fanteria: non è prudente scagliare frecce con tutti questi civili ancora riversi sulle strade. Io mi affiancherò a Berut, gli dirò di proseguire trasversalmente per non intralciare quest'esodo di popolani; dovremmo incontrarci, all'incirca, in Piazza del Mare». Gebediah parlò serio e con tono deciso. Di solito, a quelle parole, il sovrano avrebbe risposto in tono alterato che non permetteva a nessuno di dargli ordini, e che spettava a lui decidere le strategie militari da adottare, ma quella non era una situazione normale, per cui fece un impercettibile segno con il capo e si avviò rapido, camminando contro corrente rispetto a tutta quella folla.
La piazza era lo snodo centrale, da cui si dipanavano le quattro strade principali attorno a cui sorgevano abitazioni e vie più piccole: far arrivare il nemico fino a lì, voleva dire permettere all'esercito nero di conquistare almeno metà della capitale. Quella prospettiva lo agghiacciava e lo faceva infuriare, non poteva sopportare che il luogo in cui era cresciuto venisse macchiato dall'ombra di Alec, ma più si addentrava a Sansea, più si rendeva conto del disastro che quei maledetti stavano causando alla sua città.
Con la spada ben in vista raggiunse il plotone guidato dal generale Okoni, un uomo con una stazza incredibile e un occhio in meno, diede i suoi ordini e poi, finalmente, si poté gettare nella mischia e ammazzare tutti quei farabutti di Olok.
Era entrato nell'Accademia Militare a cinque anni, com'era d'uso per principi e nobili, e, da allora, non aveva mai smesso di maneggiare armi. Fu semplice per lui riuscire a infliggere ferite profonde ai soldati che si ritrovava davanti. I nemici, però, sembravano essere almeno il doppio di loro e colpivano con una potenza e velocità che non accennava a diminuire, costringendo l'esercito rosso di Kamal a indietreggiare rapidamente.
Maledizione.
Il re della Terra del Pesce sentì presto pulsare la testa sotto quell'elmo che si trasformava in una fornace man mano che il tempo passava, mentre il sudore gli colava sugli occhi fino al mento, scendendo al di sotto della pesante cotta di maglia. Si fermò un istante per riprendere fiato, la spada insanguinata fino all'elsa e una ferita che gli lacerava la piegatura del ginocchio. Cercò di inspirare quanta più aria potesse, ma l'armatura sembrava d'un tratto diventata troppo stretta per permettere ai suoi polmoni di allargarsi completamente. Gli si appannò la vista e qualcosa lo colpì al torace, facendogli perdere l'equilibrio.
Non aveva nemmeno visto il nemico avvicinarsi, cosa gli stava succedendo.
Si riscosse dal torpore che gli aveva attanagliato i muscoli e si issò velocemente alzando lo scudo all'altezza del petto. Il soldato che aveva di fronte non indossava neppure l'elmo, il viso completamente imbrattato dal sangue di valorosi combattenti di Sansea, la lama impregnata della loro vita.
Lo caricò con foga, menando un fendente che dalla spalla terminò al fianco opposto, ma quello fu rapido a scansarsi di lato parandosi con lo scudo, e Kamal sentì riverberare il colpo fino alla spalla. Indietreggiò, il nemico prese a camminare in tondo e così fece anche lui per studiarsi a vicenda, poi l'uomo in nero gli fu addosso con un solo balzo.
Il re si spostò su un lato poggiando tutto il peso sulla gamba ferita che riprese a sanguinare copiosamente, costringendolo a piegarsi su un ginocchio solo. Da quella posizione, usando il taglio della spada, riuscì incredibilmente a parare il fendente che gli arrivava dritto sul collo, senza però fare in tempo a bloccare quello che il nemico gli piazzò sulla tempia usando lo scudo. Kamal sentì rimbombare il dolore in tutta la testa, davanti agli occhi gli apparvero piccoli puntini bianchi e non riuscì a vedere la lama che saettò veloce verso il suo cuore. Una spada riuscì a deviare quel colpo mortale, facendogli però perdere l'equilibrio e sbattere la schiena sulle strade acciottolate della Capitale.
Gebediah, che era appena giunto da est con il plotone guidato da Berut, si voltò leggermente per accertarsi che il fratello stesse bene e poi rivolse la sua completa attenzione all'uomo che gli stava di fronte, i corti capelli biondi mossi dal vento marino.
«Voi dovete essere il principe» gli disse lo spadaccino di Alec con un ghigno sul volto.
Il fratello del re aveva perso l'elmo poco prima in uno scontro e, adesso, ogni nemico era motivato nel combattere con maggiore ferocia per accaparrarsi la gloria di aver ucciso un nobile. Serrò la mascella e levò la spada all'altezza del viso, la guardia alta per proteggere la testa. Kamal, dietro di lui, gli porse l'elmo che ancora portava calato sul volto e il nemico sgranò gli occhi dallo stupore.
«Vostra Maestà! – esclamò il soldato nero con un sorriso di scherno – Sarà un vero piacere ammazzare i reali di Sansea».
Si scagliò contro Gebediah, che fu costretto a indietreggiare per parare il colpo con il taglio della spada, inciampando però sul fratello che non era ancora riuscito ad alzarsi. Cadde perdendo lo scudo, ritrovandosi presto la lama del soldato piantata tra il cosciale e il busto d'acciaio. Urlò di dolore, e cercò di tamponare il sangue che cominciava a sgorgare a fiotti.
Kamal si rialzò a fatica recuperando l'arma che suo fratello aveva abbandonato, l'afferrò con entrambe le mani e si avventò sul nemico che aveva ancora gli occhi fissi sul principe e un'espressione di pura goduria in viso. Il colpo del re gli arrivò puntuale poco più in alto del polso, ma l'avambraccio d'acciaio nero riuscì ad arrestarne la potenza, portando il nemico solo ad aprire le dita che reggevano lo scudo. Il re si spinse contro di lui approfittando della momentanea vicinanza e, sfruttando la propria corporatura, riuscì ad atterrare quell'uomo che aveva osato versare il sangue della sua famiglia, piantandogli un ginocchio sul torace.
Con un rapido movimento del polso cambiò la presa sull'elsa, facendo sì che la lama assumesse una posizione orizzontale, poi la calò rapido sulla sua gola. Quello, però, non si fece cogliere alla sprovvista e, prima che la spada calasse inesorabile, riuscì a colpire il ginocchio ferito del re, ficcando un dito nella lacerazione ancora aperta.
Kamal gemette di dolore e cadde di lato, liberando così il nemico dal suo peso e permettendogli di alzarsi con estrema agilità. Anche quella volta Gebediah fu provvidenziale nel salvare il fratello, e colpì il soldato con l'elmo che reggeva ancora in mano, non avendo più nessun'arma a difenderlo. L'uomo in nero portò una mano alla ferita che il colpo gli aveva procurato alla testa, incredibilmente in piedi e senza nessuna smorfia di dolore.
Quel colpo avrebbe dovuto ucciderlo.
Guardò alternativamente la mano insanguinata e il principe che gli stava di fronte, poi sorrise selvaggio.
«Portate a vostro padre i saluti del generale Razor» gli disse prima di afferrare l'elsa a due mani e calare su di lui con una forza disumana, tranciandogli il volto senza elmo.
In quello stesso momento, Kamal riuscì a piazzare un piccolo pugnale dietro al ginocchiello del generale, la parte posteriore del ginocchio lasciata scoperta dalle protezioni della gamba, dove lui stesso era stato ferito. Impossibilitato nell'ergersi eretto, si era avvicinato strisciando sul terreno non appena quell'uomo si era mosso verso suo fratello, ma non aveva fatto in tempo a raggiungerlo e adesso Gebediah giaceva immobile e sfregiato di fronte a lui.
Razor grugnì di dolore come una bestia ferita, tolse l'arma dalla parte offesa e si avvicinò al suo assalitore con un passo leggermente claudicante. Il re, però, trasformò il dolore che gli invadeva il corpo in estrema ferocia, e con le poche forze che gli erano rimaste colpì il generale di Olok con la pianta del piede dritto sul ginocchio malconcio.
Razor, riverso a terra su un fianco, vide che Kamal aveva recuperato l'arma che lui stesso si era tolto, e capì che da quella posizione non avrebbe potuto reagire. Guardò in avanti e diede un calcio al corpo di Gebediah che, posto tra lui e il re, gli impediva di raggiungerlo, poi fece ruzzolare il cadavere, così che Kamal dovette fermare la sua avanzata per evitare di calpestare il fratello. Approfittò di quella distrazione, si alzò in piedi piantando l'arma tra i ciottoli della strada e si allontanò velocemente.
Kamal fece per inseguirlo: avrebbe potuto raggiungerlo, ma in quel momento la sofferenza fu più grande del desiderio di vendetta, così si accasciò sul corpo del fratello e gli fece indossare l'elmo ancora pregno del sangue di Razor affinché l'ultima immagine che avesse di lui non fosse quella di un soldato mutilato.
Lo afferrò da sotto le braccia e, con estrema fatica, lo trascinò poco lontano da lì, un po' in disparte rispetto agli scontri che ancora infuriavano attorno a loro, poi, zoppicando, si accinse a combattere ancora per Sansea.
Da quel momento, però, la buona sorte sembrò abbandonare le Armate Rosse, che si ritrovarono presto in poche centinaia a difendere i confini a ridosso del castello, usando archi a lunga gittata e picche.
Parte delle mura erano state abbattute, il re le trovò già distrutte quando raggiunse i suoi generali con una gamba ferita e un braccio sanguinante, e loro lo costrinsero a rientrare per organizzare la resistenza interna.
«Devi medicare quelle ferite!» gli urlò Fergus, uno dei gemelli, da uno dei merli del muro di cinta, mentre sbraitava ordini ai pochi soldati e agli arcieri rimasti: molti avevano disertato e gli altri erano tutti morti. Lui si avvicinò con passo leggermente malfermo, cercando di celare il dolore della ferita che gli impediva di sostenere il passo svelto che avrebbe voluto avere.
«Hanno ammazzato Gebediah, devono morire tutti quanti».
Il gemello rimase immobile solo un istante, poi afferrò l'arco di uno degli uomini che aveva accanto strappandoglielo letteralmente dalle mani, e iniziò a scagliare frecce una dopo l'altra con rabbia e precisione.
Kamal continuò ad avanzare sul tetto della sua dimora, protetto dall'alto parapetto in pietra, spostando gli uomini in modo da tentare di sopperire alla mancanza di quasi metà delle sue guardie. Da lassù, inoltre, poteva chiaramente vedere Sansea completamente distrutta e un'infinità di corpi immobili sul terreno. Tra di loro, poco distante da Piazza del Mare, immaginò quello di suo fratello.
Si guardò intorno: erano molte le Armature Rosse che giacevano inermi per le vie della capitale, mentre i soldati di Alec continuavano ad avanzare come delle furie con una forza inesauribile; quattro delle sette torri che circondavano il castello reale erano state abbattute, i soldati a protezione del perimetro continuavano a indietreggiare, e quelli nella Sala oltre i cancelli del palazzo non erano sufficienti a impedire l'avanzata nemica.
Non avrebbero vinto.
I diciassette giorni di viaggio erano stati lenti e difficili; Ares e Nahil, inoltre, avevano avuto un'accesa discussione quando avevano costatato che al loro arrivo le truppe di re Seamus non erano già lì. I soldati, tuttavia, erano pronti per la battaglia, e non potevano più tirarsi indietro. Avevano deciso, quindi, che gli arcieri avrebbero attaccato per primi per coprire l'assalto della prima linea, così Nayél, il ribelle dai capelli rossi, dovette salutare Enora e Noor per ritrovarsi capitano degli arcieri in avanscoperta.
«Non morire» gli disse Enora abbracciandolo. Nayél la strinse forte per rassicurarla, poi la guardò con il suo solito fare divertito.
«È più difficile di quanto credi, dolcezza». Sorrise strizzandole l'occhio dello stesso colore del cielo, e poi si diresse verso i suoi uomini.
Le mura delle città si stagliarono nella visuale dei ribelli, e il fragore della battaglia li raggiunse fin lì. I soldati si prepararono all'assalto, nei volti la paura di morire e la fame della guerra.
Le imponenti porte di legno, completamente bruciate, lasciavano aperto il passaggio, indicando che Kamal non era riuscito a tenere fuori le armate di Alec; gli stendardi della Terra del Pesce squarciati e riversi per terra come carta straccia, gli enormi stemmi in ferro battuto, con due pesci scolpiti mentre saltavano sull'acqua, ormai totalmente sciolti dal fuoco. I ribelli li oltrepassarono senza nemmeno guardare e si diressero al castello, pronti a combattere.
Lo scenario fu peggiore di ciò che avevano immaginato. Case distrutte, fiamme che divoravano strade e persone, gente che urlava, scappava, piangeva, moriva. Le Armature Nere avevano fatto man bassa di tutto ciò che gli era capitato a tiro senza curarsi di chi avevano davanti, mossi da una crudeltà che non conosceva limiti, riducendo l'enorme esercito di Kamal a difendere poche zone del castello ormai in rovina.
Anche i ribelli subirono in fretta la ferocia dei nemici raggiungendo un numero di feriti spaventoso, di cui molti non riuscivano nemmeno a raggiungere il castello, falciati dagli uomini di Alec come fossero burro.
Grazie al loro arrivo, quantomeno, gli Elyse riuscirono a impedire che i soldati neri distruggessero le porte del Castello Reale, e continuarono a combattere valorosamente fino a quando l'ultimo raggio di sole non svanì del tutto oltre l'orizzonte, in un enorme palla di fuoco arancione.
Non ci fu pace nemmeno durante la notte: gli agguati furono continui e, nonostante fossero riusciti a uccidere diversi gruppi di nemici, questi sembravano moltiplicarsi. E, così, la battaglia continuò per altri tre giorni, senza riuscire a recuperare terreno.
All'alba del quarto giorno, un rumoroso brusìo metallico giunse dalla parte sud dell'avamposto dei ribelli ancora fuori Sansea, portando con sé un numeroso esercito.
L'uomo a cavallo che ne sembrava a capo si fermò dando ordine ai suoi soldati di disporsi per iniziare l'attacco poi, con un affrettato passo claudicante, si diresse verso i generali degli Elyse. I due chinarono il capo per accennare un saluto regale, e Nahil nascose il sorriso spontaneo che gli si era disegnato in viso alla vista delle Armate Verdi della Terra del Leone, poi si unì alla loro avanzata con un accorato grido da battaglia.
«Sono arrivato il prima possibile». Seamus fece cenno al generale rimasto di alzare la testa.
«Siamo qui da tre giorni!» urlò Ares per superare lo stridio delle armi e le urla della guerra, in viso un'espressione furibonda.
«Perché l'esercito è ancora in piedi? È chiuso su due fronti, e dovrebbero essere stremati dall'assedio, ma né voi né Kamal riuscite ad acquistare terreno» chiese il re preoccupato, già immerso in tutte le possibili strategie da poter attuare, ignorando l'obiezione del ribelle.
«Quando siamo arrivati, il castello di Kamal stava per essere preso! Ci sono molti più uomini del previsto e i soldati del nuovo re non gli sono molto fedeli: ne ho visti a decine abbandonare le linee».
Il sovrano si passò una mano sul viso.
«Dobbiamo chiudere questa battaglia in fretta prima che i soldati del Pesce cedano sul versante nord, altrimenti tutto questo sarà inutile. Manderò immediatamente un plotone d'assalto per aiutare le loro fila e per controllare che non diserti più nessuno».
Ares sorrise soddisfatto: evidentemente, non era solo Alec ad aver impiegato molti più uomini del necessario. Era comprensibile: se fosse stata una trappola, avrebbe dovuto difendersi.
Una pioggia di frecce cadde tra i soldati di Seamus e i ribelli, ma solo le Armate Verdi sembravano subirne i colpi: nessuno della Resistenza rimase ferito. Noor prese sua sorella da un braccio e le fece cenno di guardare verso l'alto: alcune frecce cambiavano direzione. Enora guardò il cielo solo per un istante, poi ricordò a entrambi che avevano una battaglia da affrontare.
Non aveva mai visto nulla di simile.
Il castello di Sansea era completamente assediato: le Armate Rosse del Pesce combattevano da sopra le mura mentre quelle del Leone, ai piedi del castello, cercavano di contrastare l'arrivo delle Armate Nere ma, nonostante i ribelli insieme ad altri soldati di Seamus li schiacciassero da dietro verso il palazzo reale, essi sembravano non subire nessuna perdita.
Enora impugnò forte la spada e continuò a combattere, convincendosi che fosse per una giusta causa. Sentì quella furia arderle dentro, non pensava più a niente. Uccise ancora, nonostante si fosse ripromessa di non rifarlo. Uccise per lei e per la sua collana, per Noor, per i suoi genitori, per Holtre.
Il principe Fabian si allontanò in fretta dal suo plotone senza che nessuno se ne accorgesse, nel marasma di quella battaglia che era adesso diventata un vero e proprio assedio, così indossò un elmo e la pettorina bianca che aveva rubato da uno dei caduti e si lanciò all'attacco dei suoi vecchi compagni.
Era come quella battaglia fuori dal villaggio di Toras: sapeva di fare la cosa giusta.
Parò con il piatto della lama l'affondo di un nemico per poi essere colpito sul fianco opposto dallo scudo. Senza armatura né cotta di maglia, quel colpo fu sufficiente a gettarlo a terra. Lui, però, si piegò velocemente evitando un altro colpo, quindi conficcò la spada tra il braccio e la spalla di quel soldato, uccidendolo. Si rialzò per recuperare lo scudo del nemico, e fu pronto a combattere ancora.
Noor si ritrovò a fronteggiare due uomini contemporaneamente. Era passato un mese dalla ferita che gli aveva lacerato il fianco e che lo aveva quasi portato alla morte, costringendolo adesso a lottare con dei movimenti meno ampi e un leggero dolore perpetuo che gli riverberava fin nelle viscere. Allora, era stata Arkara a salvargli la vita, e ancora si vergognava delle parole che le aveva rivolto mentre credeva di morire. Era lieto che lei non avesse mai riaperto quel discorso, limitandosi ogni tanto a informarsi del suo stato di salute e, dal canto suo, lui non aveva fatto nulla per parlarne. Erano successe molte cose durante quel mese, loro due avevano smesso di litigare e lui si era ritrovato diverse notti a pensarla, sorridendo ogni volta che il profumo dei suoi capelli rossi gli ricordava l'odore di casa.
Il provvidenziale intervento di Korinna, la figlia del generale, gli evitò di morire per mano di un terzo uomo che gli si era appena avvicinato alle spalle. Combatterono fianco a fianco contro le Armate Nere, e l'agilità della ragazza le permise di uscire illesa da uno scontro con un uomo molto più grosso di lei. Era la prima volta che la vedeva combattere in uno scontro reale, sembrava così fragile con quel corpo magro e minuto, eppure era tremendamente letale.
La ferita al braccio costrinse Arkara ad abbandonare lo scudo e i suoi movimenti ne risentirono parecchio, così si accostò ad alcuni soldati di Seamus e combatté al loro fianco per cercare una protezione in più. Si guardò attorno e vide solo gente morire: ognuno di loro poteva essere suo fratello. Quel pensiero era pericoloso, la distraeva, così si obbligò a non pensare a nulla e corse in aiuto di Breit che era poco più avanti di lei.
Lui, però, non ebbe bisogno del suo intervento, e fu perfettamente in grado di liberarsi, a suon di gomitate sulla pancia e testate tirate indietro, dalla presa di un soldato che lo aveva afferrato alle spalle. Solo un piccolo rivolo di sangue che gocciolava piano da un braccio e una serie di lividi all'altezza del collo erano la prova del combattimento che il ribelle terminò in breve tempo, voltandosi verso il suo assalitore e piantandogli la spada sotto lo sterno.
Enora scorse un ribelle accerchiato dalle Armate Nere poco più avanti della Piazza del Mare, indossava un elmo e capì subito di chi si trattava. Fabian era ferito al fianco e il sangue si espandeva veloce nel cuoio della pettorina; erano cinque contro uno e lui non avrebbe mai potuto vincere.
Corse in aiuto del principe e, con lo slancio della corsa, riuscì a falciare un uomo all'altezza delle gambe. Alzò la spada e ne colpì un secondo che cadde a terra tramortito, gli mise un piede nel petto per non farlo rialzare e gli piantò la lama nel collo. Fabian ne uccise un altro riportando, però, una lunga ferita sulla coscia.
Erano due contro due.
Un soldato puntò Enora. Lei riuscì a schivarlo ma cadde a terra, lasciando a Fabian lo spazio sufficiente per colpirlo al ginocchio, evitando così che calasse su di lei. L'altro, colpì il principe di taglio sull'elmo, che volò via, provocandogli una ferita sulla tempia e facendogli perdere i sensi. Il soldato rimase immobile per un istante notando il volto del suo principe, ed Enora ne approfittò per colpirlo alla testa.
Si guardò attorno terrorizzata dalla possibilità che qualcuno li avesse visti, così rimise nuovamente l'elmo sui capelli scuri del principe, lo afferrò dalle caviglie e cercò di defilarsi dalla lotta insinuandosi in un vicolo tra due case, liberandolo poi dalla protezione che ne celava l'identità.
Le grida della battaglia si sentivano forti ed Enora cercò di fermare il tremore delle mani mentre puliva le ferite dal sangue e dalla terra con un pezzo di stoffa che aveva strappato dalla casacca che portava sotto la pettorina.
Rimase lì a sentirlo respirare affannosamente: non osava allontanarsi per paura che qualcuno li potesse scorgere, nascosti così a ridosso degli scontri, ma, per fortuna, non passò molto tempo prima che il principe riprendesse conoscenza. Non ebbe modo di realizzare dove si trovasse, che le urla della guerra e il tanfo di morte e sudore gli ricordarono con prepotenza ciò che era successo.
«Sono contenta che siate vivo».
Fabian cercò di mettersi a sedere, reggendosi con la schiena al muro di legno e sabbia che aveva dietro.
«Sono stanco di incontrarci solo quando uno dei due sta per morire» disse con la voce un po' ammaccata. Enora inarcò le labbra all'insù con un piccolo tuffo al cuore.
«È meglio che vada, adesso, volevo solo assicurarmi che steste bene».
«La perla...»
Enora si bloccò all'istante nel sentire quel leggero pizzicore a cui ormai si era maledettamente abituata.
Un'altra perla stava cambiando colore, un altro mese era passato, un'altra persona era diventata cieca a causa sua. Erano otto ormai. Otto mesi di resistenza, di battaglie, di morti, e si sentì sopraffatta dal senso di colpa. Avrebbe voluto correre via e controllare se suo fratello, o Arkara, o qualunque altra persona a cui si era legata avesse perso la vista. Nessuno di loro, fino a quel momento, era stato vittima di quella che ormai viveva come una maledizione, e ogni mese la sua angoscia cresceva sempre di più.
Si sedette vicino a Fabian, le braccia che quasi si sfioravano, e nascose il viso tra le mani. Lui non capiva cosa stesse accadendo, ma con enorme fatica le mise un braccio attorno alle spalle e cercò di stringerla nel tentativo di esserle in qualche modo utile, per farle sapere che di qualunque cosa si trattasse, lui era lì.
Enora sapeva che il principe voleva conoscere la verità, come biasimarlo di fronte a una collana che cambia colore e una persona che si dispera per questo, ma come avrebbe potuto dirgli che la sua vista dipendeva da quella collana, che la sua missione era di uccidere il re suo padre o lei sarebbe tornata cieca insieme ad altre ventiquattro persone? Come avrebbe potuto parlargli dell'angoscia che la attanagliava ogni singolo giorno e del dolore che provava dentro?
«Io le persone voglio curarle, non ucciderle» riuscì a dire, banalmente, tra le lacrime.
Il ragazzo che adesso cercava di consolarla aveva ben poco del principe addestrato a lottare che aveva imparato a essere. Era tutto nuovo. Era nuovo quel tamburellare continuo che sentiva in petto, era nuova la sofferenza riflessa che provava nel vedere gli occhi così intensi di lei rovinati dalle lacrime, era nuovo il desiderio che gli cresceva dentro, non solo per soddisfare un istinto ma come se fosse di vitale importanza per rimanere vivo. Quasi sopraffatto, e senza sapere bene cos'altro fare per mettere a tacere la mente e il cuore, le alzò il viso con la punta delle dita e la baciò sulle labbra.
Enora rimase ferma un istante, poi chiuse gli occhi e si abbandonò al bacio del principe, sentendo piano ricongiungersi tutti i pezzi della sua anima affranta. Riuscì a staccarsi a malincuore da quella stretta quasi disperata, sembrava essere passato un tempo infinito e, nel frattempo, il mondo avrebbe potuto, per quanto le riguardava, essere stato completamente distrutto.
Lo guardò negli occhi scuri che avevano adesso un colore diverso e, da quella vicinanza, riuscì a scorgere nelle iridi delle sottilissime linee viola che non aveva mai notato prima, richiamando gli occhi di sua madre, la regina Isidora.
Si sentì bruciare dall'intensità con la quale il principe la stava guardando, poi il fragore della guerra tornò prepotente a rimbombarle nelle orecchie, insieme alle grida dei soldati poco lontani da lì. Non era quello il momento per crogiolarsi nel sentimento che le attorcigliava le viscere.
«Un giorno sarà meglio di così» gli disse sfiorandogli le labbra. Poi si alzò, raccolse la spada e si gettò rapida nella mischia.
Quando tornò all'accampamento fuori le mura di Sansea, il giorno aveva completamente ceduto spazio alla notte, presentando un cielo senza luna. Non erano ancora riusciti ad avanzare, le Armate Nere avevano incredibilmente continuato a resistere in una battaglia su due fronti, subendo perdite esigue.
La ribelle dalla collana di perle si aggirava adesso tra i soldati stremati mentre si dirigeva verso la tenda che non condivideva con nessuno, stringendo a sé gli ingredienti che Mylene le aveva chiesto di trasformare in pasture entro l'indomani. Erano principalmente erbe per trattare contusioni e ustioni, quindi soprattutto menta, altea, iperico, papavero e laudano. Molto laudano.
Il sangue e la terra che aveva addosso le scivolarono via al tocco dell'acqua, poi si sedette e si stupì di quanto potesse essere comoda la terra nuda.
«Come stai? Non ci siamo visti dalla fine della battaglia».
«Bene... credo. Nessuna ferita mortale, comunque» rispose lei continuando a pestare le erbe mediche, senza bisogno di girarsi per riconoscere il fratello.
«Ti ho visto trascinare qualcuno fuori dal campo» disse una voce diversa. Il cuore di Enora mancò un battito e si voltò più velocemente di quanto avrebbe voluto, incontrando gli occhi azzurri di Nayél che la guardavano dalla stessa altezza di quelli di Noor.
Il ribelle aveva tutto il peso del corpo su una gamba sola per evitare di gravare su quella che si era ferito in battaglia quel giorno: nulla di serio, per fortuna, ma, sommato ai lividi e alle abrasioni che gli costellavano tutto il corpo, aveva un'aria decisamente sofferente.
Per un lungo istante, l'unico rumore fu solo quello del fuoco che ardeva poco lontano da loro, e la ragazza si fermò a guardare le fiamme e le volute del fumo che si perdevano nell'aria.
«Era uno di noi. – riuscì a dire alla fine, nonostante la bocca asciutta – Ho visto che era svenuto e l'ho portato via».
Nayél inclinò lo sguardo alzando un solo sopracciglio rosso.
«L'ho visto, Enora. Era il principe Fabian».
Lei si lasciò sfuggire una risatina isterica.
«Non essere stupido, perché mai il principe dovrebbe aiutarci?!». Quella discussione stava prendendo una piega che non le piaceva affatto.
«Stai tranquilla: tu non lo avevi mai visto, e lui non ti ha rivelato la sua identità. Non è colpa tua, ma sei molto fortunata a essere ancora viva».
La ragazza si voltò verso il fratello, ma non ebbe il tempo di dire nulla che Noor parlò di nuovo.
«Dicci dov'è adesso: può esserci molto utile sia da morto che da vivo, e magari ci spiega anche come ha fatto a prendere una nostra pettorina e, soprattutto, perché».
Enora sentì le labbra bruciarle al ricordo del bacio, mentre mille pensieri confusi le affollavano la mente. Riuscì a cogliere solo una necessità da quell'accozzaglia di parole che le rendeva la testa pesante: nascondere la verità.
«Non so dove sia adesso, si è svegliato ed è andato subito via».
«Non importa, conta solo che tu stia bene» le disse Noor stringendola delicatamente, poi uscì dalla tenda.
Nayél serrò la mascella e strinse i pugni, allontanandosi da lì prima che qualcuno notasse il viso che gli era improvvisamente divenuto paonazzo. Procedeva in fretta senza nessuna meta precisa, e senza riuscire a cancellare dalla mente la scena vista poco prima tra le case di Sansea, tra lei e il principe Fabian.
Era lì quando si erano baciati. Il soldato contro cui stava lottando lo aveva costretto a indietreggiare fino al punto in cui si trovavano i due, ed erano rimasti entrambi di sasso di fronte a quella scena. Aveva a forza distolto lo sguardo da loro per concentrarsi sul suo nemico, ma quello sembrava essere scomparso nel nulla; lui, quindi, era tornato indietro per gettarsi nella mischia e sfogare così tutta la sua gelosia.
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