Capitolo 14: Parte I - Fuori dall'ombra
"Con il buio si sviluppa il sesto senso e si sente arrivare il nemico", diceva sempre Nahil e così, mentre la notte volgeva al termine, alcune delle reclute si alzavano prima delle altre per cominciare ad allenarsi.
I primi raggi di sole avevano appena cominciato a lambire il terreno, la pioggia lieve di fine estate aveva cessato di cadere e si erano formate delle pozzanghere rendendo la zona quasi impraticabile per allenarsi, ma la resistenza non poteva fermarsi: erano arrivate nuove reclute e per quel giorno gli allenamenti erano stati anticipati di qualche ora.
Lo stridio delle vecchie lame che colpivano gli scudi di metallo era impossibile da ignorare, così anche Enora si decise ad alzarsi. Indossò il solito corpetto azzurro sulla casacca che aveva usato per dormire, lo allacciò sotto al seno e infilò distrattamente gli stivali sui piedi martoriati dall'umidità, prese spada e scudo e uscì fuori. Era pronta a imparare.
«Ben svegliata, ragazzina. Il sole è sorto già da un pezzo». Nahil parlò senza rabbia e lei sorrise.
Allenarsi di notte non le aveva recato alcun vantaggio, nessun cambiamento se non quello di non riuscire a restare sveglia il giorno seguente. Lei era abituata all'oscurità, ci si era mossa all'interno per tutta la vita: aveva imparato a sentire i movimenti attorno a lei anziché vederli, conosceva l'esatta collocazione di ogni sua parte del corpo anche nel buio più totale e non aveva bisogno di qualcuno che le insegnasse a vedere con altri sensi che non fossero gli occhi.
Scavalcò in fretta la staccionata che la divideva dal suo maestro e dagli altri allievi, e cominciò anche lei a provare qualche affondo contro un nemico invisibile.
La difficoltà della spada a due mani e la sua testardaggine nel volerla provare le avevano procurato le vesciche tra le dita. Era meno pesante di ciò che credeva, ma questo non la rendeva meno complessa da maneggiare. Questa insistenza, però, le aveva procurato non pochi lividi, tanto da renderle difficoltoso anche impugnare una normale spada corta. I muscoli le dolevano dappertutto e il riposo di qualche ora non le bastava per riprendersi dagli sforzi giornalieri, ma si era ripromessa di non arrendersi, aveva giurato a sé stessa che si sarebbe impegnata più degli altri, e così passava le giornate ad allenarsi e la sera a medicarsi le ferite che si procurava.
Il sole non era ancora nel suo punto più alto quando Nahil decise di concedere una pausa ai nuovi arrivati. Lui non aveva un accenno di fiato grosso sebbene avesse lavorato più degli altri: non si stancava mai ed Enora lo guardava con ammirazione aspirando a essere forte come lui, un giorno.
Consumò in fretta il solito pasto frugale e addentò dei pezzi di carne secca, come da una settimana fino ad allora e come sarebbe stato per le settimane a venire. La ragazza pensò se fosse davvero quella la strada che voleva seguire, se era il destino e la gloria di un guerriero che desiderava, se sarebbe stata capace di uccidere ancora. Le ritornò alla mente la sensazione che aveva provato quando era scesa per la prima volta in battaglia e si sentì pervadere da un brivido lungo tutta la schiena.
"Non sarei riuscita a sopravvivere se non avessi reagito d'impulso. Il carro dove mi trovavo sarebbe stato distrutto da lì a breve e io sarei stata sepolta dalle macerie".
Quelle parole l'avevano aiutata nei giorni precedenti a sopravvivere al senso di colpa e a mettere a tacere tutti i pensieri intrusivi che continuavano ad affiorarle quando meno se lo aspettava, se le ripeteva anche quando si svegliava nel mezzo della notte e vedeva di fronte a lei gli occhi vuoti dell'uomo che aveva ucciso e, persino, quando la codardia che l'aveva spinta a scappare le tornava invadente nella testa. Quel senso di inutilità la schiacciava come un masso.
Strinse la collana con forza e si alzò di scatto dal terreno fangoso sul quale stava mangiando con gli altri e, senza dar conto agli sguardi interrogativi dei suoi compagni, tornò in campo ad allenarsi, decisa a imparare di più su quell'arte per rendersi utile in battaglia.
Erano state settimane davvero intense per le nuove reclute, soprattutto per Enora che dopo gli allenamenti andava ad aiutare Mylene, la sacerdotessa dagli occhi scuri, per imparare a pulire, medicare e ricucire ferite di vario genere. Aveva appreso molto nonostante fosse passato poco tempo, ma gli allenamenti duravano quasi tutto il giorno e con i feriti c'era sempre tanto da fare, così capitava che a volte si addormentasse mentre preparava delle pasture con le erbe curative.
Quel pomeriggio la ragazza con la collana di perle entrò sicura nella propria tenda, prese delle boccette dal suo tascapane e mischiò in una ciotola il loro contenuto. Calò la casacca per esporre la spalla insanguinata, la stessa che non era ancora guarita dall'ultima volta, e vi si passò il preparato curativo. Bruciava ed era difficile continuare, ma sapeva che avrebbe fatto infezione se non avesse agito subito, così strinse i denti e continuò.
Nayél aprì la tenda con un colpo secco e si diresse velocemente verso di lei, Enora capì e l'anticipò.
«Sta' calmo, so che non lo hai fatto apposta».
«Mi dispiace, non pensavo che ti saresti rialzata così presto».
"Beh, questo vuol dire che sto migliorando" pensò lei.
«Non è nulla, passerà in fretta. – disse invece – Forse però è meglio andarci piano durante gli allenamenti: la ferita si è riaperta troppo facilmente e non posso permettermi di entrare in battaglia già debole, non credi?». Scoprì abilmente la parte offesa, poi gli porse le bende e si fece aiutare a fasciarla.
«Questo puoi considerarlo come un regalo per il tuo diciottesimo compleanno» le disse facendole voltare il viso quel tanto che bastava per farle l'occhiolino, poi sistemò i corti capelli rossi con una mano e la guardò come nessun altro aveva mai fatto.
«Vuoi riposarti?» le chiese, alzandole la stoffa del corpetto sulle bende umide di erbe mediche.
«No, continuiamo».
Enora si allenava senza sosta da quando era arrivata. Aveva trovato in Nayél un amico e un compagno instancabile nel combattimento, sebbene la ferita alla coscia ne rallentasse notevolmente i movimenti, ma nonostante fosse riuscita ad affinare alcune tecniche il suo corpo cominciava a risentire pesantemente della stanchezza.
«Non preoccuparti, ce la faccio» rispose all'ennesimo richiamo del fratello che, da quando erano arrivati, non aveva fatto altro che migliorare a vista d'occhio facendole provare invidia per la prima volta in vita sua.
Perché per gli altri sembrava tutto così semplice? Persino Arkara riusciva a stenderla facilmente dopo qualche affondo, e lei ogni volta si rialzava sempre più frustrata fino a quando non gettava la spada e andava via. Era sempre Nayél a convincerla a non mollare, più di suo fratello che, invece, si rasserenava solo quando la vedeva senza un'arma in mano.
«Potrebbero attaccarci anche adesso, e tu saresti troppo debole anche solo per tenere alto lo scudo!». Era da un po' che Noor non la rimproverava, era difficile persino trovare del tempo per parlare nella frenesia di quei giorni, ed Enora si rese conto di quanto le mancassero i momenti in cui potersi rilassare almeno per pochi minuti.
Lasciò cadere la spada che sprofondò con un lieve tonfo sul terreno fangoso, poi anche lei si stese e chiuse gli occhi respirando profondamente. Suo fratello sorrise e le si mise accanto al centro dell'arena, mentre gli altri intorno a loro continuavano ad allenarsi.
«Nostra madre si spaventerebbe a morte solo al pensiero che siamo così vicini a delle spade» rifletté con amarezza.
«Mi manca tanto, e pensare a nostro padre da solo mi fa sentire così in colpa».
«No, Enora. – si voltò verso di lei e la guardò reggendosi su un braccio – Noi lo abbiamo fatto anche per proteggere lui».
«Non so se potrò farcela» gli confessò senza guardarlo.
I corni emisero due brevi suoni: era il segnale che l'indomani sarebbero dovuti partire per andare chissà dove, così tutti smisero le loro faccende e cominciarono a smontare l'accampamento.
«E neanche stanotte si potrà dormire» disse Noor alzandosi con uno scatto di reni, poi tese le mani per aiutare la sorella ma lei si stava già scrollando la terra di dosso.
Mentre lui accorreva in aiuto degli altri rendendosi utile in ogni modo possibile, Enora decise di vagare ancora un po' per le tende e i carri vecchi e rigonfi di umidità che erano ormai diventati la sua casa. Arrivò nella parte più a est dalla quale, con un po' di fatica, si riuscivano a scorgere gli edifici più alti di Taolosa, nella Terra dello Scorpione, e si imbatté in una piccola tenda rossa che non aveva mai visto prima, notando che era molto più piccola delle altre. Stava per entrare e scoprirne l'interno quando da lì uscirono uno, due, cinque uomini con una tunica viola e uno strano stemma dorato ricamato all'altezza del ventre.
Enora si chiese chi fossero e come facessero anche solo a respirare in quello spazio che sarebbe risultato insufficiente persino per due sole persone. Decise di sbirciarvi dentro e la sua sorpresa fu così grande da somigliare a paura: l'interno della tenda era almeno dieci volte più grande di ciò che sembrava all'esterno, ed era esageratamente arredato persino per la reggia di un re. Ebbe l'impulso di guardare ogni libro che si trovava in tutti quegli scaffali e di stare ore intere a fissare ogni quadro appeso; camminò sfiorando le pareti con la punta delle dita per poi rendersi conto che non solo quelle ma anche il tetto era fatto di legno e pietra: era come una stanza reale poggiata sulla terra nuda!
"Tutto questo non ha senso", pensò impaurita. Uscì di corsa da quella tenda o qualunque cosa fosse, e decise che avrebbe chiesto presto delle spiegazioni.
Ripercorse a ritroso la strada molto più guardinga di poco prima, e raggiunse il resto dei ribelli quando i cavalli erano già pronti e le tende e le armi erano state caricate sui carri. Mancavano solo i soldati.
La vista di quelle enormi bestie instillò nella giovane una paura completamente diversa da quella provata nella parte più a est dell'accampamento e le fece quasi dimenticare le stranezze che aveva appena visto. Enora li guardava terrorizzata nitrire e sbuffare e non osava muovere un passo.
Da quando aveva avuto la possibilità di vedere grazie alla magia del gioiello che portava al collo, quegli animali erano stati l'unica cosa che le avesse mai fatto paura; non era mai stata una particolare amante di quelle bestie dal pelo lucido, e vederli così maestosi e possenti le aveva sempre fatto venire i brividi dietro la nuca.
Nahil le si avvicinò con una puledra grigia.
«Lei sarà il tuo cavallo. Si chiama Fayra, trattala bene».
La ragazza rimase immobile qualche istante per processare bene le parole che le aveva appena detto il suo generale, poi allungò rigida le braccia in avanti, prese le redini con finta sicurezza e piantò i piedi sul terreno con la paura che la bestia potesse scappare via.
«Siamo tutti pronti, perché non le sali in groppa?» le chiese Noor, ed Enora gli si avvicinò circospetta.
«Fino a qualche tempo fa non sapevo nemmeno cosa fosse un cavallo, come credi che sia capace di salirci sopra e cavalcarlo?»
Noor represse una risata e la sorella lo guardò accigliata.
«Vuoi che ti aiuti io a salire?».
Enora accettò con riluttanza la mano che Noor le porse, esibendosi poi in una goffa e maldestra andatura al piccolo trotto. Aveva tutti gli arti irrigiditi, le nocche quasi bianche per lo sforzo di tenere la presa salda e la schiena esageratamente piegata indietro.
«Devi essere più morbida, l'animale lo capisce che sei tesa» le bisbigliò il fratello trattenendo un'altra risata.
«È scomodo per ogni muscolo del mio corpo».
Fayra sbuffò ed Enora sussultò così forte che rischiò di perdere l'equilibrio. Stavolta Noor rise di gusto e spronò il proprio cavallo superandola.
«Maledizione» disse lei esasperata, cercando di mantenere la concentrazione e il passo con gli altri soldati.
Continuò ad avanzare malferma in quello stato per poche ore, poi decise di averne abbastanza di quel contatto così stretto e forzato con la giumenta. Alla prima occasione si sistemò all'interno di un carro scoperto insieme a qualche sacco di avena e delle cassette di frutta, e suo fratello, Arkara e Nayél, presero posto al suo fianco.
Il gruppo di resistenza aveva deciso di non rimanere ai confini del Regno: Alec continuava a mandare l'Esercito Nero contro la povera gente dei villaggi a ridosso delle Terre Escluse ed era diventato pericoloso viaggiare per quelle strade, così si erano addentrati nella Terra del Leone per dirigersi a Toras, una cittadina al confine con la Terra del Sommo Sovrano.
«In più di una settimana non abbiamo visto nemmeno un villaggio» si lamentò Noor.
«Senza contare che stare così a ridosso della Terra Centrale non porterà a niente di buono. La copertura delle carovane di merci potrebbe saltare in qualsiasi momento». Arkara aveva ragione: il rischio di un'aggressione era sempre in agguato. Solo Enora sembrava non rendersi conto del pericolo, totalmente assorta dal perenne ripetersi del verde paesaggio che si perdeva all'orizzonte.
Poche ore più tardi giunsero a destinazione, fermandosi a diverse centinaia di iarde da Toras. I carri finalmente smisero di sussultare sulle strade acciottolate e solo quello di Ares e Nahil proseguì la corsa, mentre tutti gli altri cominciarono a organizzare l'accampamento in un avvallamento roccioso poco lontano da lì.
Enora si guardò intorno in cerca della strana tenda rossa e di coloro che vi stavano all'interno, ma non aveva visto nessuna di quelle persone alla partenza da Taolosa e nutriva poche speranze di trovarle adesso, soprattutto con la foschia portata dalla pioggia che aveva iniziato a cadere già da qualche ora. Durante tutto il tragitto aveva pensato molto a come scoprire la verità e aveva deciso che né suo fratello né la sua migliore amica avrebbero potuto sapere nulla più di lei, andare a parlare con i generali era fuori discussione ed Etios e il suo aiutante Breit erano ormai andati via da un pezzo, così le era rimasto solo Nayél a cui chiedere.
Lo raggiunse mentre stava assicurando la sua faretra di frecce al busto, con una cinghia di sua invenzione che aveva ricavato dal cuoio e dallo stomaco di pecora con cui erano fatti i tascapane: grazie alla sua inventiva era riuscito a ottenere sia una maggiore aderenza alla pelle, dovuta alla particolare lavorazione dei materiali, sia uno spessore minore per consentire una più ampia libertà di movimento. Quando la vide avvicinarsi il ragazzo smise di armeggiare con la chiusura che gli poggiava sul petto e le rivolse uno dei suoi soliti ampi sorrisi sfacciati, senza però affrettarsi ad abbassare la casacca verde slavato che toglieva solo per dormire. Poi il carro di Ares e Nahil tornò dal sopralluogo.
«Armatevi! Le guardie reali ci hanno trovati!». Il primo generale soffiò sul corno che portava appeso al collo emettendo un lungo suono gutturale, così anche i soldati più lontani seppero che bisognava prepararsi a combattere.
Mentre gli altri si affrettavano a indossare una protezione per il corpo e impugnare spada e scudo, Enora rimase immobile, incapace di prendere una decisione: la spalla era ancora indolenzita e sentì in bocca il sapore del sangue dell'uomo che aveva ucciso poco tempo prima. Guardò l'arma che stringeva alla mano destra e le sembrò la cosa più stupida che avesse mai fatto nella sua vita, eppure sentiva qualcosa dentro di sé che la spingeva a correre verso tutti i suoi amici.
Nahil, che nel frattempo era sceso dal carro, si avvicinò a lei per posare la semplice lama da fanteria che aveva portato con sé e scambiarla con uno spadone a due mani.
«Sei migliorata molto nell'ultimo mese e hai fatto più progressi di chiunque altro» le disse quasi distrattamente mentre assicurava i lembi della pettorina ai lati del fianco.
Queste parole bastarono a dare forza all'animo di Enora e cancellare ogni pensiero negativo così, dopo una manciata di secondi, anche lei fu pronta per scendere in campo. Una fugace occhiata al fratello e ad Arkara, e anche lei fece mulinare in aria la spada cominciando a riprodurre tutte le figure che il suo maestro le aveva insegnato. Cercava di non pensare alle vite che stava spezzando, ma a tutte quelle che loro avevano già smorzato senza pietà, e questo pensiero le diede la forza di uccidere e uccidere ancora.
Noor combatteva come se nella vita non avesse fatto altro, sfogando una rabbia che a lungo aveva tenuto segregata nelle profondità del proprio animo, lasciando fluire tutte le energie che erano rimaste sopite e che lo avevano costretto a una vita pacata ed equilibrata. Fino a quel momento.
Caricava con potenza ogni nemico colpendolo con tutta la forza che i suoi muscoli gli permettevano, incurante delle ferite che gli infliggevano. I movimenti così ampi e senza logica, però, resero i suoi affondi sempre più deboli e imprecisi, e si ritrovò presto con la pettorina zuppa di sangue quando un soldato gli trafisse il fianco, costringendolo a terra.
Il ragazzo, seguendo l'impeto della furia che non si era ancora esaurita, si dimenò cercando di scrollarsi di dosso quell'uomo che lo teneva sotto di lui con il peso del corpo e una spada puntata alla gola, ma il terreno era ormai diventato fanghiglia e la sua presa scivolò in fretta dalle braccia del nemico. Si fermò di colpo con gli occhi fissi sulla lama che inesorabilmente calava su di lui, quando con suo disgusto e sorpresa la testa del soldato dall'armatura nera gli rotolò addosso, imbrattandolo completamente. L'odore acre del sangue gli diede alla testa, ma riuscì chiaramente a vedere il viso di Arkara e la sua mano che lo aiutava a rialzarsi.
«Ti devo la vita».
Arkara spostò dal viso alcune ciocche della folta chioma rossa che, sfuggendo dalla sua abituale coda bassa, la pioggia le aveva appiccicato sul collo. Guardò l'amico di traverso mentre cercava inutilmente di fermare il sangue che continuava a sgorgare dal fianco squarciato e si rese conto della gravità della ferita.
«Così ti farai ammazzare, Noor!»
Il volto del ribelle assunse un colorito talmente pallido da sembrare già morto, nonostante il petto continuasse a muoversi irregolare sotto la protezione ormai lacerata, e le gambe cedettero sotto il peso del suo stesso corpo, così che si accasciò cercando di reggersi sulle ginocchia con l'aiuto della spada.
Arkara rinfoderò la propria e passò il braccio di lui attorno al collo cercando di sollevarlo, nella speranza di riuscire a raggiungere la tenda dei guaritori.
«Diamine, Noor, non sei nemmeno capace di badare a te stesso!». Quel flebile tentativo di minimizzare la paura che sentiva in ogni fibra del corpo fallì miseramente, e cominciò a camminare con sempre più difficoltà sotto il peso di lui.
«Non andare via, per favore. Se devo morire voglio che ci sia tu al mio fianco» sussurrò il ragazzo con la bocca impastata di sangue e vomito, gli occhi ormai chiusi e la fronte imperlata di sudore. Arkara lo guardò, disteso su un mucchio di paglia ficcata frettolosamente dentro un lenzuolo con la pretesa di somigliare a un letto. Stava delirando.
«Prendetevi cura di lui» disse agli uomini dalla tunica bianca che l'avevano aiutata ad adagiare il suo amico insieme agli altri feriti, gli sfiorò i capelli con una mano e poi corse di nuovo nella mischia.
Enora non riusciva quasi più ad alzare il braccio: sapeva che la ferita si era riaperta e sentiva la spalla così pesante da pensare che le stesse per cadere. Non voleva scappare come l'ultima volta, così si morse la lingua e si fece forza, partendo all'attacco di un soldato che stava estraendo l'arma dallo stomaco di uno dei tanti ribelli che non ce l'avevano fatta. Il movimento del braccio, però, le provocò un dolore sordo che le fece quasi annebbiare la vista, così il nemico ebbe tutto il tempo di accorgersi di lei e colpirla in pieno viso con l'elsa della spada, facendole sputare sangue.
Con una lucidità che non pensava di avere ricordò le parole di Nahil: piantò bene i piedi sul terreno e abbassò il bacino per evitare di cadere, poi gettò lo scudo per sentirsi più leggera e con la forza della disperazione impugnò l'elsa a due mani. Roteò i polsi e fece mulinare la lama a mezz'altezza, costringendo il soldato a indietreggiare. Si studiarono girando in tondo qualche secondo, poi Enora notò un solo attimo di esitazione negli occhi scuri del nemico che gli stava di fronte e caricò con la spada alzata. Il colpo fu talmente rapido che quell'uomo non ebbe il tempo di levare lo scudo per proteggersi, ritrovandosi con una mano in meno e ricoperto dal suo stesso sangue. La ragazza fissò con una punta di orgoglio l'arto che orribilmente giaceva di fronte a lei e il terreno che assorbiva il sangue diluito nell'acqua piovana, poi sentì qualcosa colpirle violentemente la nuca e il buio l'avvolse.
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