Capitolo 12: E guerra sia
Gebediah, il secondogenito di Teodor, corse nelle stanze di Kamal e lo svegliò ancora prima che il sole sorgesse.
«Svegliati, dannazione!» iniziò, scuotendolo. L'erede al trono strofinò gli occhi intorpiditi dal sonno con una mano sola mentre con l'altra cercava di allontanare da sé il viso biondo e barbuto del fratello.
«Nostro padre è morto» gli comunicò con un filo di voce. L'erede al trono si mise a sedere, ormai completamente sveglio.
«Chi è stato?» gli chiese, ma non era sorpreso. Conosceva piuttosto bene il carattere del padre e non lo sfiorò neppure l'idea che si trattasse di un incidente. Gebediah gli consegnò la lettera che gli era stata recapitata solo qualche minuto prima da uno dei servitori e si avviò verso la porta.
«Vestiti in fretta, – disse prima di uscire – avviserò io gli altri».
Kamal rimase a letto a leggere quel foglio per qualche minuto, soffermandosi più volte su ogni singola parola che il re in persona si era premurato di scrivere con grafia stretta e ordinata, senza riuscire a capacitarsi del significato di quelle poche righe impresse nero su bianco.
Gettò via dal letto con un unico gesto le coperte leggere che lo avevano avvolto durante la notte e sferrò un calcio al mobile accanto al baldacchino. Il pugnale che vi era poggiato sopra venne scaraventato poco lontano da lì, sotto la grande finestra che si affacciava sul piccolo lago che avevano costruito all'interno del loro giardino, tanti anni addietro; si chinò a raccoglierlo e gli affiorarono vividi i ricordi del momento esatto in cui suo padre glielo aveva regalato il suo primo giorno di Accademia Militare. Indossò i vestiti della sera prima e uscì sbattendosi l'uscio alle spalle.
I suoi fratelli erano seduti negli ultimi scalini che dal piano dei loro alloggi portava alle stanze adibite ai pasti e alle danze, dalle pareti ricoperte di arazzi raffiguranti tutti i loro viaggi in nave e il pavimento dipinto come se fosse un mare in tempesta.
Syria, l'unica femmina di cinque figli, sedeva mollemente con la schiena poggiata alla ringhiera in ferro con i corti ricci biondi che oscillavano tra le sbarre. Aveva quindici anni, era la più piccola tra loro e la più somigliante a Leonore, sebbene non ricordasse nulla della madre, morta di febbre nera quando lei aveva solo pochi mesi.
«Io non credo a una sola parola» annunciò non appena lo vide apparire dalla cima delle scale.
Aveva gli occhi arrossati di pianto, ma la sua voce non tradiva nessuno dei sentimenti che le scuotevano il petto. Kamal annuì scuro in viso e raggiunse il resto dei suoi fratelli, lasciando che i lisci capelli biondi gli ondeggiassero davanti al viso. Era estremamente regale, come sempre, persino con la casacca lasciata aperta e i pantaloni blu disordinatamente fuori dagli stivali, eppure solo poche famiglie del regno avevano avuto il coraggio di proporgli le loro figlie in sposa, sebbene lui di certo non se ne facesse un cruccio.
«Non dobbiamo avere fretta nel trarre conclusioni, non credo che Alec sia stato così avventato da uccidere uno dei sovrani di Holtre».
«Io credo invece che un incidente con la carrozza non lasci il corpo di un uomo in quelle condizioni». Era stato Fergus a parlare andando contro al suo gemello, Derlyn.
Aveva tirato giù con foga dalla carrozza la bara di legno pregiato che conteneva la salma del padre non appena Gebediah gli aveva comunicato la notizia, ed era stato l'unico a fare in tempo a guardarci dentro prima che lo stesso fratello lo strappasse da lì e ordinasse ai domestici di assicurarla in modo che non potesse più essere aperta.
Gebediah era poco più piccolo di Kamal e aveva conosciuto la madre per abbastanza tempo da ereditarne la bontà d'animo, e non voleva rischiare per nulla al mondo che Syria vedesse il cadavere, sebbene quest'ultima non avesse mai fatto o detto nulla che avrebbe potuto far pensare che lei avesse timore di qualcosa.
Kamal, che di fatto era il nuovo re della Terra del Pesce, si avvicinò a Derlyn e gli poggiò fastidiosamente una mano tra i ricci scuri, com'era solito fare ogni volta che pensava avesse detto qualcosa di stupido, e lo guardò sprezzante negli occhi azzurri come i suoi.
«Io credo, invece, che quel farabutto di un re ci dovrà dare delle spiegazioni. Pensa di accontentarci con quelle poche righe in un misero pezzo di carta? Mi dovrà dire molto più di questo!» disse poi, allontanandosi dal fratello e dirigendosi verso la grande finestra che dava all'esterno, in cui dei servitori impauriti si stavano ancora affaccendando con tutti gli averi del defunto re. Gettò via la lettera che teneva tra le mani e che aveva ormai completamente accartocciato, e si voltò verso Fergus, il gemello con cui era invece sempre andato d'accordo nonostante i quasi dieci anni di differenza, o per lo meno andavano molto d'accordo quando faceva quello che gli chiedeva.
«Fa' chiamare il generale, vediamo cosa ci racconterà lui».
Fergus stava per ribattere che non era un servitore e che non avrebbe portato un messaggio proprio a nessuno, ma Syria, intuendolo, lo fermò tirandogli l'orlo della vestaglia smeraldo che utilizzava per dormire.
«Fai quello che ti dice senza lamentarti, per una volta, e vai da quel maledetto generale e dalle sue spie».
Il principe ingoiò il rospo e si incamminò nella fresca aria mattutina verso una struttura poco lontana dal castello, troppo di malumore persino per litigare.
«Diramiamo un comunicato per tutto il regno e assicuriamoci che ogni cittadino ne venga a conoscenza, in modo che potrà porgere rispettosamente i saluti a nostro padre». Con questa frase Kamal risalì le scale che lo separavano dai suoi alloggi e non uscì fino a quando il generale Berut non bussò alla sua porta.
«Questa storia finirà malissimo» asserì Gebediah osservando il fratello salire i gradini di pietra e marmo. Derlyn gli poggiò una mano sul braccio che teneva appeso al passamano e si strinse nelle spalle.
«È lui adesso il re» gli rispose con una strana espressione in viso, un misto tra preoccupazione, orgoglio e malinconia. Il nuovo erede al trono annuì e abbassò gli occhi scuri su quelli della sorella.
«Fidatevi di Kamal, sa quello che fa» disse Syria come a leggergli nel pensiero, poi si alzò e sistemò la camicia da notte che non aveva fatto in tempo a togliere, ravvivò i corti ricci con una mano e sorrise a entrambi i suoi fratelli.
«Sa quello che fa» ripeté prima di andare via.
Dopo una sontuosa cerimonia funebre e una sfarzosa di incoronazione, il nuovo Re della Terra del Pesce decise di partire alla volta di Olok con al seguito un piccolo pugno di soldati.
Arrivò al Real Castello dopo poco più di una settimana di viaggio senza ancora un piano preciso in mente, ma deciso a conoscere la verità anche a costo di estorcerla ad Alec in persona.
Ovviamente, il sovrano di Holtre era già stato avvisato qualche giorno prima del suo arrivo e capì subito lo scopo della visita.
«Ho saputo della vostra incoronazione. Mi duole non esservi stato accanto in questi momenti di lutto e felicità». Alec esordì con quanta più modestia potesse, ma non era semplice dissimulare l'antipatia che provava a pelle per quel ragazzo così simile a suo padre.
Dopo i normali convenevoli lo fece accomodare, senza scorta, nella stessa sala in cui aveva ricevuto i re qualche tempo prima e nella stessa sedia in cui era stato seduto Teodor.
«Sono qui per chiarire meglio le circostanze di morte di mio padre. I nostri servitori non hanno saputo dare altre notizie se non quelle riportate nella lettera, e sono anzi stati piuttosto evasivi su quanto successo». Kamal si spostò i biondi capelli dagli occhi così da poter vedere meglio la reazione di quello che gli sembrava solo un vecchio assetato di potere.
«È stato uno spiacevole evento, ma non sarei in grado di dirvi di più di ciò che vi è stato riportato: i re erano tutti andati via e vostro padre li seguiva nella propria carrozza. Io mi ero appena voltato per rientrare quando sentii un cavallo nitrire, un uomo urlare e un potente boato. Mi voltai immediatamente e vidi la carrozza di vostro padre schiantata contro il secondo pilastro del cancello di uscita. Accorsero molte persone, tra cui i miei guaritori personali, ma per vostro padre non c'era, ahimè, più niente da fare, poiché una scheggia gli si era tragicamente conficcata nel collo. Potete chiedere conferma allo stesso cocchiere che saltò giù dalla carrozza, se la mia testimonianza non vi è sufficiente».
Kamal cominciò a picchiettare nervosamente le dita sul tavolo di legno. Passarono parecchi secondi prima che cominciasse a parlare, imponendosi la calma.
«Ho promesso ai miei fratelli che non mi sarei fatto prendere dall'ira e che sarei tornato con un colpevole».
Alec parve stupito ma, se Kamal somigliava al padre come dicevano tutti, aveva già capito.
«Un colpevole? Fate attenzione a ciò che dite, potrebbe essere frainteso».
«Oh, no. Sono certo che voi abbiate capito benissimo». Il giovane re si era alzato e si era avvicinato ad Alec sedendosi sulle assi del tavolo e soppesando le parole che avrebbe dovuto dire, conscio che avrebbero avuto delle enormi conseguenze.
«Anche io ho le mie fonti: mio padre ha sviluppato una folta ed efficiente rete di spionaggio. Da un po' di tempo aveva delle fissazioni: sapete, quelle di un potente vecchio terrorizzato di vedersi portar via tutto ciò per cui ha lottato. Io e i miei fratelli gli dicevamo che erano delle convinzioni inutili, che non ce n'era motivo. Beh, per fortuna non ci ha ascoltati». Kamal fece un mezzo sorriso furbo, sapeva di aver colpito nel segno.
Stavolta Alec era realmente stupito, e gli parve di provare una punta di terrore. Si alzò dalla sedia e, per la prima volta, lo guardò negli occhi che avevano lo stesso colore del mare in tempesta.
«Mi sorprendete, ma non credo che possiate fare molto. Se siete a conoscenza di tutto, allora sapete che io, ufficialmente, detengo il controllo delle Terre di Holtre».
«Mio padre non ha firmato, io nemmeno. Se volete la mia Terra dovete conquistarla». Kamal gli si avvicinò ancora, con un gomito poggiato alla gamba e il naso a un palmo da lui.
«Dove volete arrivare?» gli chiese in tono di sfida.
«Vi dichiaro guerra». Kamal gli sferrò un pugno in viso e il Sommo Re cadde indietro rovesciando la sedia per terra. Stava per chiamare le guardie che lo attendevano come sempre fuori dalla porta, ma il giovane re della Terra del Pesce sguainò la spada e con unico sibilo metallico gliela puntò in gola. Alec sorrise e lo guardò: lui aveva altre tre Terre a disposizione, e Kamal non avrebbe avuto il coraggio di colpirlo nel cuore del Real Castello.
«E guerra sia».
Con la mano libera Kamal spostò nuovamente i capelli dal volto e lo fissò compiaciuto, poi rinfoderò la lama e uscì soddisfatto: aveva mantenuto tutte le promesse.
Non appena rientrato a Lasion, la capitale della Terra dello Scorpione, re Marvin aveva ininterrottamente ripetuto a mente ogni parola del contratto che aveva firmato, alla ricerca di un appiglio a cui potersi aggrappare per riuscire a esulare il pagamento delle tasse, o almeno per ottenere più libertà di quanta gliene fosse concessa, ma non era riuscito a trovare nulla. Si era quindi limitato a dare feste quasi tutti i giorni e a chiamare sempre più spesso Flossie, la matrona del suo bordello preferito, per continuare a godere dei privilegi del suo ruolo di re.
Si rese conto di non aver mai tenuto a quella Terra in quanto tale ma più al potere che derivava dal suo possesso, così pensò che non gli importava chi realmente detenesse il controllo di quella gente: l'importante era che lui, per tutto il suo popolo, ne rimanesse il padrone e che il suo tenore di vita rimanesse invariato. Chi decidesse realmente le sorti di quelle persone, era solo un cavillo facilmente trascurabile.
I primi giorni quasi faticava a credere che quell'assurda situazione non fosse stata solo un orribile sogno, e ogni volta si meravigliava di vedere alcuni soldati dall'armatura nera in mezzo al popolo.
"È molto furbo" si ritrovò a pensare, osservando dalla finestra della sua camera da letto reale i soldati di Alec disperdersi tra le vie della sua città, poi si voltò verso il letto dove un'avvenente fanciulla gli faceva gli occhi dolci, e si diresse verso alcune ore di piacere.
Non passava attimo in cui Seamus non pensasse a come venir fuori da quel problema e teneva lunghi colloqui con il suo consigliere, l'unico a cui aveva rivelato l'esatto svolgersi di quella riunione. Era capace di camminare per intere ore lungo tutto il castello in cerca di una soluzione, e si fermava solo quando la gamba di legno glielo imponeva.
«È una cosa terribile, Maestà. Non avrei mai pensato che il sovrano Alec sarebbe arrivato a tanto».
«Non agitarti, Klethus, io purtroppo lo sospettavo. Ho sempre guardato con diffidenza al modo in cui è salito al trono, anche se ai tempi ero poco più che un bambino. La povera Isidora non sapeva a cosa andava incontro quando, sposandolo, lo proclamava re».
«Maestà, come fate a restare così calmo! Quell'uomo è solo l'ombra di un buon sovrano, come ha osato...».
«Ora basta. Nonostante ciò che dici Alec è scaltro e sa quello che fa, ma ne verremo fuori comunque; devo solo trovare la strategia vincente».
Klethus era un uomo nel pieno delle forze e serviva la Terra del Leone da parecchi anni. Aveva iniziato come guerriero e durante una battaglia di cinque anni prima gli aveva anche salvato la vita; il re aveva presto cominciato a cercare sempre di più il suo appoggio, a voler conoscere la sua opinione, e la sua istruzione gli aveva permesso di distinguersi presto e facilmente tra tutti gli altri.
Seamus aveva però scorto in lui delle capacità intuitive che andavano ben oltre le mere nozioni dei libri, così lo aveva promosso nella sua ristretta cerchia di consiglieri. In poco tempo si distinse anche tra essi per le sue doti da stratega, doti che il sovrano apprezzava molto tra i propri collaboratori, così presto lo aveva eletto a suo consigliere personale diventando anche il suo amico più fidato.
«Certo, Maestà: lasciando le Terre nelle vostre mani ha evitato una guerra sicura. Non capisco però perché uccidere il re della Terra del Pesce; è stata una mossa azzardata e Kamal potrebbe sospettare qualcosa».
«È vero. Credo però sia stato un incidente: nessuno si aspettava un comportamento simile da Teodor. Non capisco se abbia agito per orgoglio o per senso di giustizia, ma a volte penso che almeno lui sia stato coraggioso...». Seamus si sedette sul trono completamente dorato con il mento poggiato sul pugno chiuso, e guardò Klethus intensamente trasmettendogli più di mille parole. Il fedele consigliere gli si mise al fianco ricambiando quello sguardo e i significati che si portava dietro.
«Avete fatto la scelta migliore; già una volta avete pagato caro un vostro sbaglio».
Il sovrano portò istintivamente la mano alla fibbia che teneva unito al busto il pezzo di legno che gli sostituiva la gamba fino all'altezza del bacino, e per un attimo sentì il bruciore della lama che tranciava la carne, un bruciore terribile che apriva ben altre ferite oltre a quelle strettamente fisiche.
I ricordi gli riempirono la mente come fumo, impalpabili e pregnanti, catapultandolo nuovamente a quei giorni in cui sentiva l'arto assente avvolgerlo in un dolore implacabile, inconsolabile, un dolore da cui solo Klethus era stato in grado di risvegliarlo. La sua vicinanza lo aveva salvato ben più di una volta. Si riscosse scuotendo la testa, come a voler scacciare quel fumo che gliela rendeva pericolosamente leggera, si mise in piedi e si avvicinò al tavolo in ferro che era stato commissionato per la sua famiglia moltissimo tempo addietro dal re dei Territori del Sud, il padre della defunta regina Isidora, poco prima che iniziasse la lotta che avrebbe portato all'unificazione con i Territori del Nord dando vita alla Terra Centrale.
«Quello che mi preme adesso più di ogni altra cosa è trovare il denaro per le tasse imposte da Alec. So che tutto quello che riuscirà a prendere dalle Terre in suo possesso verrà utilizzato nella sua vanesia guerra contro la Resistenza, ma fino a quando non troverò un modo sicuro per il mio popolo, sarò costretto a sottostare ai suoi vili ricatti» ammise con riluttanza, muovendo distrattamente le carte contabili del regno che si era fatto recapitare immediatamente dopo il suo ritorno.
In tutti quegli anni di sovranità aveva orgogliosamente portato avanti l'opera del padre, re Khan, e vedersi portar via ogni cosa in quel modo gli faceva ribollire il sangue nelle vene.
«Credo che dovreste pensare subito a come far tornare Alec al suo posto, Sire». Klethus era l'unico cui permetteva di essere così diretto con lui.
«La morte di Teodor mi ha costretto a cambiare i miei piani. Dovrò aspettare e vedere se posso fidarmi di Kamal prima di poter agire in qualunque modo».
«Non abbiamo molto tempo, Maestà, il Sommo Sovrano non si fermerà certo alla riscossione di misere tasse».
«Lo so, Klethus, ne sono perfettamente consapevole, ma cosa posso fare adesso?». Il re batté i palmi sul duro tavolo sotto di lui facendo volare i fogli che vi aveva poggiato sopra e scompigliando i capelli chiari che gli ricaddero davanti al viso. Li risistemò in un attimo portandoli all'indietro con un rapido gesto della mano e riassunse la sua consueta aria dignitosa.
«Ho bisogno di rimanere da solo» disse poi. Il consigliere si inchinò leggermente sebbene Seamus gli desse le spalle e non potesse vederlo, poi si voltò anche lui e uscì dalla Sala del Trono.
Era già passata una settimana da quando Rotghar aveva fatto il suo ingresso trionfale a Burok, la capitale della Terra del Toro. Era ancora il crepuscolo, ma quasi tutta la città si era diretta alle porte principali per accogliere il suo sovrano, e lui aveva sorriso cercando di non pensare a ciò che aveva fatto.
Era giunto al castello mentre l'ultima stella spariva dal cielo cedendo totalmente il posto al giorno, aveva detto di non aver voglia di incontri galanti e continui convenevoli, si era diretto nelle sue stanze, aveva chiuso le tende e si era steso a letto. Nella settimana che seguì il re non si mosse da lì, e neanche i suoi servi più fidati osarono chiedergli cosa lo affliggesse, tanto sembrava cambiato.
Dei tuoni in lontananza risuonarono nella mattina silenziosa che aveva ormai ripreso il suo corso naturale. Le nuvole si avvicinavano rapide tra loro e il vento più fresco cominciava a dare sollievo alla gente dopo un'estate di caldo. Il sole era sorto da un pezzo e dei raggi riuscivano a trapelare nella stanza da letto reale.
Rotghar non era riuscito a prendere sonno e guardava dalla finestra oltre i cancelli del proprio palazzo. Erano giorni ormai che non dormiva, tormentato dal senso di colpa per aver consegnato la sua gente in cambio della vita. In fondo che cosa sarebbe accaduto se avesse rifiutato? Alec avrebbe ugualmente preso il possesso della sua Terra, ma almeno lui non avrebbe dovuto convivere con quell'opprimente peso sullo stomaco e sarebbe morto da vero re, come Teodor.
Chissà cosa avrebbe pensato suo padre di lui, di Rotghar il Giusto vendutosi per paura della morte.
Sentì come se quella stanza gli togliesse il fiato, così uscì fuori per la prima volta dopo il suo arrivo e si diresse nelle stanze del padre.
Tutto era come allora: le boccette di medicine sullo scaffale, un libro di storia sul mobile accanto al letto, le coperte in disordine e la sedia rovesciata da lui alla sua morte. Avrebbe dovuto trasferirsi lì dopo la sua successione, gli alloggi di re Joanne erano più grandi, più lussuosi, più appropriati, ma lui non aveva voluto sentire ragione e aveva ordinato che nulla venisse toccato per nessun motivo al mondo.
Si sedette di fronte l'enorme ritratto di Joanne e cominciò a parlargli.
«Scusatemi, padre. – disse senza riuscire a guardare il dipinto – Ho rovinato tutto ciò che voi avete creato con fatica, ho disonorato tutti i miei antenati e, soprattutto, ho deluso voi». Il re cominciò a piangere davanti a quel ritratto che raffigurava così bene tutta la potenza e la bontà di suo padre.
Rotghar lo aveva sempre ammirato: la madre era morta poco dopo la sua nascita, uccisa da alcuni criminali in uno dei suoi viaggi per il regno, e il principe era sempre rimasto con lui finché un'infezione causata da una ferita di guerra se l'era portato via, consegnandogli la corona e un enorme potere da gestire; un potere per cui non si era mai sentito pronto.
Gli aveva insegnato tutto ciò che sapeva sia nel campo di battaglia che in quello della vita, gli aveva sempre dimostrato un grande affetto e godeva di una grande stima tra il popolo. Sognava di diventare come lui, e credeva di esserci riuscito fino a qualche settimana prima.
Il ricordo così doloroso del padre, eppure così piacevole, fece scattare in lui il bisogno e la voglia di non far vincere Alec, di ostacolarlo in qualsiasi modo, anche se voleva dire distruggersi. Si sentì così piccolo di fronte a tutta la grandezza di re Joanne da sentire il bisogno di riscattarsi in qualsiasi modo, a qualunque costo.
Corse rapidamente verso le sue stanze, si sedette davanti alla scrivania, prese un foglio di pergamena, intinse la penna nel calamaio e alla luce di una piccola candela cominciò a scrivere con mano tremante. Sigillò velocemente la busta e scrisse il destinatario, poi ritornò nelle stanze del padre, deciso e impaurito come mai. Osservò quella stanza con orgoglio e riverenza, poi con passo fermo si diresse verso un piccolo mobile a vetri sotto la finestra e lo aprì.
Estrasse una spada, la più preziosa, quella che suo padre utilizzava nelle parate ufficiali poiché l'elsa d'oro incastonata di pietre preziose la rendeva troppo pesante per una vera battaglia, e ne accarezzò piano il profilo con un dito lasciando che un rivolo di sangue gli scendesse lungo il braccio. Guardò il volto del padre e sorrise amaro.
«Scusatemi, padre».
Con un gesto fulmineo del polso fece ruotare l'arma fino ad averne la punta all'altezza del cuore, chiuse gli occhi lasciando cadere le sue ultime lacrime e premette forte con la mano ferma di un soldato facendo penetrare la lama più a fondo possibile.
Cadde immediatamente riverso sul pavimento e cominciò a sputare sangue senza riuscire a smettere, mentre un dolore lancinante gli invadeva il corpo costringendolo a piegarsi su sé stesso.
Così, dopo pochi istanti anche il sovrano della Terra del Toro, Rotghar il Giusto, moriva piangendo, rannicchiato ai piedi del ritratto di suo padre.
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