XXIX.
1900
Si sentiva affondare nell'oceano di quelle informazioni che erano schegge di vetro. Gli vorticavano nella testa e si infilavano dentro per poi restarci incastrate. Il cuore iniziò a pompare nevrotico. Chiuse gli occhi; puntini bianchi gli danzavano dietro le palpebre. Nelle narici l'odore onnipresente che c'era in casa sua e la voglia di scappare dal mondo che ormai si era fatto tetro, tutto colori scuri e niente luce.
«Signor Elmstone» lo chiamò Anderson. «Vi sentite bene?»
Si appoggiò contro il muro, le urla dei detenuti in lontananza. Il guardiano li aveva scortati fuori senza fare domande su ciò che si erano detti con Lennox ed era stato un bene.
«Dobbiamo tornare alla dimora di Lancaster» gli occhi di Horace erano puntati sulle due pergamene. «E andare nel sotterraneo. In base a quanto ha detto Lennox è un luogo simbolico. Forse possiamo trovare altri elementi che finora ci sono sfuggiti.»
«Intendete altri simboli?»
«Non lo so» disse Horace. «Ma, per quanto si tratti di questioni sovrannaturali, tutto questo deve avere una fine. Devo ritrovare mia figlia. E, se è vero che gli Hamilton sono tornati in città, allora devono essere arrestati. Sono loro a dover stare in una cella, anziché Lennox. Anche se dovremmo raccogliere altre informazioni, a mio avviso.»
Anderson aggrottò le sopracciglia. «Non vi sembra bizzarro che Lennox abbia confessato ogni cosa così in fretta?»
«Se siete un uomo che non ha nulla da perdere, perché dovreste avere timore di raccontare quanto è realmente accaduto? Forse non è stato lui a uccidere Maryanne Lennox; e, fino a prova contraria, gli altri crimini collegati a questo hanno continuato ad accadere, anche dopo che è stato incarcerato.»
Elliott Conroy con il cappio al collo, la macchia della colpa che gli si allargava nel petto. Daniel Lennox non sarebbe morto ingiustamente, ma al tempo stesso restava l'interrogativo di Lancaster.
«E Lancaster?» chiese Anderson, come ad avergli letto nel pensiero.
«Lancaster è un'incognita, in effetti. Non è chiaro fino a che punto sia coinvolto nella vicenda. Lennox ha affermato che avrebbe dovuto essere un compagno della Grande Tramite, ma al tempo stesso sembra che fosse all'oscuro dei rituali e dell'entità, esattamente come tutti gli altri.»
«Per cui non abbiamo ancora un colpevole» Anderson sembrava nervoso. Si passò una mano tra i capelli e si accese un altro sigaro; inspirò con lo sguardo perso.
«Non ufficialmente. Ma almeno siamo giunti alla conclusione che potrebbe non essere né Lancaster, né Lennox. Tutto pende a favore di questa ipotesi. Gli Hamilton potrebbero davvero essere tornati in città.»
«Sì, ma perché proprio a distanza di dieci anni?»
«Forse è una tempistica che il gruppo ha stabilito in modo spontaneo. Forse hanno deciso che ogni dieci anni il Rito dovrà proseguire. Oppure qualcosa è andato storto nel precedente rituale, come ci ha detto Lennox.»
Anderson aveva finito il sigaro in boccate rabbiose. Aprì la cartelletta nera che portava a tracolla, ne tirò fuori gli appunti e fascicoli interi di fogli battuti a macchina da scrivere. Si sedette su una panchina a caso, perdendosi nello scenario che li circondava. Tutto dava un senso di trascuratezza, a Horace sembrò di essere finito in un quadro in cui ogni cosa era grigia e liquida.
«Lennox ha detto che qualcosa non ha funzionato in un primo momento, ma che il Rito è poi andato a compimento una volta che Lancaster ha spinto gli altri a intromettersi in un'evocazione. Dunque, stando a queste informazioni, i colpevoli sono gli Hamilton. Probabilmente John Hamilton ha insabbiato le tracce di quanto accaduto e ha poi cambiato il suo nome.»
«Può essere stata anche la madre» ribatté Horace. «Nella dimora di Lancaster ho trovato delle lettere di Elizabeth Hamilton, la moglie del signor Hamilton. Così come Blackwood, prima di essere assassinato, ha trovato vicino al corpo di Julie Lennox un'ulteriore lettera firmata da Elizabeth Hamilton.» Le idee lo colpivano come un treno in corsa, possibili soluzioni lo bombardavano in una pioggia fredda. «La signora Hamilton ha scritto delle lettere in cui parlava della morte, di suo marito che si faceva sempre più distante, di un'ombra gelida che incombeva su di loro.» Fece una pausa. «Forse è stata la signora Hamilton a occuparsi di tutto. A fondare il gruppo. È un'ipotesi plausibile, non trovate? La signora Hamilton, ossessionata dalla morte, fonda un culto su di essa; forse anche per sfuggire a un matrimonio infelice, dissociandosene subito dopo. Il marito riprende in mano l'idea del culto e la porta avanti a sua insaputa. Spiegherebbe il motivo per cui ha poi scritto al dottor Williams, dichiarando di essere ignara di quanto sta accadendo.»
«Sì, ha senso» disse Anderson. «Le lettere parlano proprio della signora che si sente sempre più trascurata dal marito. John Hamilton non condivideva più con lei nemmeno il letto.»
«Potremmo interrogare Williams» disse Horace. «Ci ho già provato, si è sempre rifiutato di rispondere. Ma a questo punto ne va della conclusione delle indagini.»
«Williams si è trasferito, signor Elmstone» si limitò a dire Anderson, asciutto. «Se n'è andato. Non ha nemmeno detto dove.»
Horace pensò a quante cose si era perso quei giorni che non era andato in centrale. Adesso un altro possibile testimone era diventato irrintracciabile.
«Il che mi fa pensare ancora di più che fosse coinvolto, già dieci anni fa. Quando gli ho chiesto informazioni mi ha raccontato che nel 1890 si è innescata una catena di omicidi.»
«Riconducibili agli Hamilton, scommetto» Anderson commentò vacuo. «O forse il culto della morte non esiste. Forse la signora Hamilton era semplicemente folle, ha dato allucinogeni alla figlia, al marito, e poi anche a Lancaster, Lennox e la sorella, e Maryanne Churchill. Così facendo ha scatenato una sorta di isteria di gruppo e li ha costretti a compiere azioni che mai avrebbero fatto in uno stato di lucidità, fino a oggi.»
«E quale sarebbe il motivo, nel caso in cui si prendesse in considerazione questa ipotesi?»
«C'è davvero sempre un motivo alla follia dell'essere umano?»
Improvvisamente tutto aveva un senso. Un senso malato, distorto. A Horace faceva male la testa, ma sembrava tutto così plausibile. Così logico. Tranne un dettaglio.
«Mia figlia» disse, «Anche a lei sono stati somministrati allucinogeni?»
«Forse non possiamo prendere in considerazione l'esistenza reale di un culto, ma possiamo prendere in considerazione che gli Hamilton – o quello che ne resta – siano tornati. La signora Hamilton, preda dei suoi deliri, potrebbe essersi introdotta in casa vostra e ha versato la sostanza nel tè mattutino di vostra figlia.»
Horace non seppe dire il perché, ma pensò subito alla ragazza inconsistente, a quella presenza che avvertiva in casa sua. Un dubbio orrendo gli strisciò nella mente.
«Recentemente ho percepito qualcosa, in casa mia. Come se ci fosse qualcuno. Ho pensato a un'allucinazione, ma se non lo fosse? Se si trattasse della signora Hamilton che si è introdotta nella mia casa?»
Gli occhi di Anderson si rabbuiarono. «Quando avete cominciato a vederla?»
«Dopo la scomparsa di Violet. Strisciava nel buio, nella penombra della mattina. La percepivo seguirmi, come se non fossi più solo in ogni cosa che facevo. Come se non avessi più potere nella mia stessa casa.»
«E la percepite ancora?»
«A volte sì. Ma forse gli ultimi eventi mi hanno solo fatto uscire di senno.»
«Non lo so, a questo punto» Anderson gettò il sigaro a terra e lo spense con la scarpa. Un vento gelido si era sollevato minacciando di fargli volare via i fogli. Li rimise nella borsa, assicurandosi di chiuderla bene. «Potrebbe essere suggestione, così come potrebbe essere che Elizabeth Hamilton vi abbia preso di mira in quanto stavate indagando sul suo caso.»
«Dobbiamo ispezionare casa mia, per vedere se ci sono tracce.»
Anderson si alzò dalla panchina e si incamminò di nuovo. «Penso che sia la cosa giusta da fare, adesso.»
Horace si strinse di più nel cappotto nero.
Forse era il freddo di quella giornata, o forse il gelo se lo sentiva dentro.
*
Il senso di soffocamento che provava quando entrava in casa ormai era normalità. Il cuore sembrava prendere una consistenza diversa nel suo petto, la respirazione cambiava. E quell'odore di fumo sempre più denso, si poteva tagliare, anche se nessuno fumava in quella casa.
Horace abbassò lo sguardo sul pavimento. Lo guardò con gli occhi diversi di chi non si sente più al sicuro, come se quella fosse stata la casa di un estraneo. L'odore sembrava provenire da lì. Poteva essere una sostanza che Elizabeth Hamilton aveva sparso in tutta la casa mentre lui era in centrale. L'idea che una sconosciuta facesse ciò che voleva in casa sua gli fece salire un moto d'angoscia.
«Lo sentite anche voi?» chiese. «Questo odore. Come di fumo fuso a qualcos'altro.»
«No, signore. Sento odore di tappezzeria, di libri, ma non di fumo.»
«Elizabeth Hamilton» chiamò. Fu un impeto di coraggio che non si aspettava di avere. Non aveva senso stare a cercare le tracce di una donna che, con ogni probabilità, era nascosta da qualche parte in quell'esatto momento. Sarebbe venuta fuori prima o poi, e a quel punto si sarebbe dato finalmente pace. «So che siete qui. So che siete stata qui per molto tempo, so che avete rapito mia figlia. Conosco il Rito perché qualcuno che era coinvolto me ne ha parlato. So chi è Lui e non ne ho paura. Mostratevi, o sarò costretto a tirarvi fuori con la forza.»
Aveva parlato toccandola nei suoi punti deboli. Se fosse stata lì, se ci fosse stata davvero, sarebbe uscita. Lo sentiva.
Anderson era in silenzio, si guardava intorno in attesa di vedere una donna scheletrica fare capolino da qualche angolo. Horace pensò a un volto segnato dall'età, occhi rotondi e sporgenti come quelli delle locuste e arti sottili. Non aveva un'idea precisa della fisicità della madre di Sarah Hamilton.
L'aria si tese di un'energia vibrante, in modo così improvviso che Horace rimase immobilizzato. Anche Anderson trattenne il respiro, indietreggiò di qualche passo, aggrottò le sopracciglia. E poi uno scalpiccio lontano, un fruscio, il rumore di qualcosa che cadeva e si recava verso di loro, zoppicando – no, forse quello non era uno zoppicare, era solo un insieme di passi irregolari e scoordinati. Si avvicinava sempre di più e Horace non aveva idea di cosa avrebbe fatto quella donna – perché sapeva che era lei. Avrebbe confessato con la stessa facilità con cui lo aveva fatto Daniel Lennox? Oppure li avrebbe uccisi e la verità sarebbe morta nel salotto di casa sua?
È curioso il modo in cui pensi alla tua vita nell'istante in cui hai l'impressione che morirai da un momento all'altro. La vedi tutta insieme, pensi alle cose che avresti potuto fare e che invece spariranno nel nulla con la tua stessa esistenza.
Corpi neri e affamati, latrati,
mano buia, tempesta decadente, e tu in quel non luogo,
io nel Niente.
Era a causa sua se adesso si trovava senza sua figlia, in una casa che era un guscio vuoto e senza niente da perdere. Non era così diverso da Daniel Lennox, a pensarci. L'unica differenza tra loro era che lui non si trovava dietro le sbarre.
Lo scalpiccio continuò inesorabile, sembrava il rumore di un gigantesco scarafaggio che piombava su di loro per divorarli.
Poi una donna comparve al centro del corridoio. Ed era vera, così concreta che Horace indietreggiò in un riflesso involontario. I capelli neri le circondavano la testa in una cascata di ricci naturali, lunghi fino alle spalle. Il vestito che aveva indosso doveva essere di giorni e giorni, sapeva di stoffa sporca, i bordi macchiati di cibo e di terra. I piedi nudi avevano la pianta incrostata di ciuffi d'erba, insetti morti, foglie. L'odore di fumo si fece più forte quando lo guardò con occhi nocciola brillanti di una follia profonda.
«Ti osservo da tanto» sentire la sua voce fu come ascoltare le unghie che grattano contro il coperchio della bara. Era la voce di una sepoltura prematura mai notata davvero. Sapeva di buio e disperazione e non voleva che continuasse a parlare. «Violet non tornerà più come prima. Anche se tornerà. Lui l'ha presa, perché così è stato deciso molto tempo fa. Ma presto potrete riabbracciarla.»
«Ridatemi mia figlia, subito» le intimò a denti stretti. «Dov'è? L'avete portata nel bosco? Rispondete.»
La donna lo guardava con occhi vuoti, come se non lo sentisse nemmeno. Horace si rese davvero conto di quanto possa essere spaventoso affondare nello sguardo di chi ha perso il contatto con la realtà.
«Tornerà. Per allora me ne andrò da qui.»
«No. Voi siete in arresto a partire da adesso. Avete avvelenato dei giovani, segnato per sempre le loro vite. Li avete fatti incarcerare ingiustamente. E sarebbero finiti alla forca se non fosse stato per la confessione di Daniel Lennox.»
Elizabeth Hamilton sorrideva. Un sorriso innaturale e quel Niente negli occhi che lo trafiggeva come il più affilato dei coltelli.
«Quando avete letto le missive il procedimento era già in corso. Più vi avvicinavate alla verità, più davate nutrimento a Lui» disse. «Il culto è iniziato molto tempo fa, e ha origini antichissime tramandate dalla mia famiglia.»
Silenzio.
«Quando l'uomo conosce davvero la morte potrà superarla. La Porta ti cambia, ti inghiotte e ti consuma, e una volta che ti ha sputato fuori tu non sei più quello di prima.»
«Quante volte avete attraversato la Porta?» chiese. Quella domanda suscitò una reazione istantanea.
«Ho iniziato ad attraversarla quando ero giovanissima e sono tornata molte volte. Questo mio marito non l'ha mai saputo. Finché una notte non ha visto.»
«Vi ha vista usare la Porta?»
«Sì. Da lì il nostro matrimonio non è stato più quello di una volta. Ha iniziato anche lui, credendosi migliore di me. Mi ha estromessa da tutto, quando sono stata io a farglielo conoscere. Ha ucciso la nostra primogenita, e poi ha portato Sarah con sé.»
«Sarah si è uccisa. Voi eravate veleno per lei.»
«Non si è uccisa affatto» un sorriso lugubre le tagliò il viso.
«Era solo una ragazza. Non lo meritava» Horace si ritrovò a difendere quella sconosciuta come avrebbe difeso Violet. Più passava il tempo, più l'assenza di sua figlia gli stracciava il cuore.
«Era destino. Azalea si era fatta uccidere» Elizabeth pronunciò quelle parole con voce monocorde. Horace rabbrividì; quella donna aveva perso la propria figlia senza che la cosa la toccasse. E aveva fatto impazzire l'altra, con ogni probabilità. Inorridì per la persona che si trovava davanti, indietreggiò piano. Elizabeth restava incantata con quegli occhi trasognati che non guardavano nulla.
«Sarah non avrebbe voluto un uomo come gli altri. Ha sempre cercato qualcosa di diverso. Era una ragazza terribilmente annoiata delle inezie della vita di tutti i giorni. Le chiacchiere di cortesia ai ricevimenti e la forzata educazione per trovare marito. Tutta una messinscena. Dovevamo comunque mantenere una certa immagine, dal momento che in città eravamo una stimata famiglia. Avevamo insabbiato l'omicidio di Azalea per miracolo. E lei questo lo sapeva.»
Elizabeth ondeggiò da un lato all'altro facendo roteare la gonna del vestito, un gesto da bambina che su di lei stonava e la rendeva grottesca. «Non è mai stata una ragazza innocente, ispettore. Quelle come lei non lo sono mai.»
Il cervello di Horace venne punto da qualcosa. Lui non avrebbe mai pronunciato parole come quelle, nel parlare di Violet. Cercò un lampo di odio negli occhi di Elizabeth, ma non lo vide. Nessuna emozione trapelava da quelle iridi nocciola, liquide come i pensieri che gli scorrevano nella testa.
«Che cosa volete dire?» L'unico modo per ottenere una confessione era continuare a farla parlare.
«Avreste dovuto conoscerla per capire meglio, signor Elmstone. Mia figlia era fatta per Lui soltanto. Ci sono persone che nascono per amare quello che non può dare altro che dolore.»
Horace avvertì una fitta allo stomaco nel sentire quelle parole.
«Ditemi dov'è Violet» quella follia lo stritolava nelle sue spire. Non sarebbe riuscito in ogni caso a dimenticare, ma era come se il suo cervello non volesse vedere. Horace era già al momento in cui chiudeva i fascicoli che riguardavano gli Hamilton e li metteva nell'archivio per poi non riesumarli mai più.
«Violet è nel bosco. Dove Lui può vederla e sentirla e portarla dove deve essere.»
«Non capisco.» Violet non c'entrava niente con quel gruppo, era solo una ragazza che si era trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Non voleva più seguire le parole di quella pazza, voleva solo smontare il delirio e prenderla e farsi dire a forza dov'era sua figlia. «Eravate voi quella sagoma che vedevo nel corridoio» disse. «Fin dall'inizio. Siete stata in casa mia per tutto questo tempo. Da quando Violet è scomparsa.»
«Da quando vi siete trasferito qui» e quella sua voce brillava di disgustosa soddisfazione. «Tutto era finalizzato a questo. A far sì che Violet tornasse. Voi dovevate occuparvi di questo caso, scoprire la storia della mia famiglia.»
La testa ora pesava sulle sue spalle, era un blocco di piombo. «Perché? Qual è il legame tra me e voi?»
Anderson sembrava una macchia sfumata, se ne stava andando. Horace capì che da lì a poco sarebbe sprofondato nel non luogo e avrebbe capito di cosa parlassero le poesie di Violet. Forse sarebbe tornato anche lui, avrebbe attraversato la Porta, sarebbe tornato indietro, non sarebbe stato lo stesso, la Porta ti cambia e muta la tua essenza. Poi non sei più lo stesso. Dov'era Anderson?
Tutto ondeggiava e aveva la sensazione di non potersi fidare di nessuno. Fu come se qualcuno gli avesse aperto gli occhi a forza, in un colpo solo.
«Anderson» la sua voce venne fuori troppo lenta. Al posto del suo collega c'era Violet, le gambe sporche di terra e foglie. Il sangue secco sulle cosce, lividi di un giallo ocra che le tempestavano la pelle. La guardò negli occhi senza riconoscerla. Era già tornata.
La fissò per degli istanti che sembrarono interminabili. Aveva aspettato così tanto quel momento e ora invece non la voleva lì; la ragazza che gli stava davanti non era sua figlia, era qualcuno che le assomigliava senza portarsi addosso le tracce di quello che era davvero. Il moto di repulsione che gli si allargò nel petto non se lo aspettava. «Tu sei morta» mormorò. Violet non staccava gli occhi da lui. «Non sei reale. Sei solo tornata indietro.»
«Signor Elmstone» la voce di Anderson lo tirò fuori da quel momento dilatato. Era lenta anche quella, uscita fuori soffocata dalla terra. L'odore che c'era nell'aria si fece più intenso, qualcuno lo stava trascinando nelle profondità di un mondo sconosciuto. Era strano da descrivere, come se il suo corpo stesse scivolando via per frammentarsi. I battiti del suo cuore lenti, le lettere e le farfalle morte con le ali accartocciate, il gatto nel camino e i simboli. Le sedute spiritiche, le parole di Daniel Lennox e di Elizabeth Hamilton nel parlare di Sarah.
Ogni cosa si mescolò nella sua testa. La verità fuggiva via, come aveva fatto anche Violet.
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