XXIII.





SECONDA PARTE



















Sì; è vero – sono nervosissimo, spaventevolmente nervoso – e lo sono stato sempre; ma perché volete pretendere ch'io sia pazzo? La malattia m'ha aguzzato i sensi, ma non li ha distrutti, non li ha ottusi. Più di tutti gli altri, avevo finissimo il senso dell'udito. Ho sentito tutte le cose del cielo e della terra. Ne ho sentite molte dell'inferno. E dite che son pazzo? State attenti! E osservate con quale precisione, con quale calma vi posso raccontare tutta la storia.

Edgar Allan Poe – Il cuore rivelatore
































XXIII.


1900



Le poesie che Violet scriveva da anni erano impilate sulla scrivania del suo ufficio, adesso. Parole che si avvolgevano le une sulle altre – lo avevano sempre fatto sotto i suoi occhi, mentre lui credeva di riuscire a tenerla fuori da tutto.

Le aveva lette. Le aveva lette tutte quante, si era immerso in quei versi che raccontavano di cuori graffiati e di cadaveri che respiravano. Dipingevano un luogo buio e liminale, in cui i morti si confondevano con i vivi, e una strada scoscesa per arrivarci. Creature che respiravano con i loro polmoni anneriti, mentre ti guardavano immerse nell'acqua putrida.

Corpi neri e affamati, latrati,

mano buia, tempesta decadente, e tu in quel non luogo,

io nel Niente.

Da quanto scriveva quei versi?

Forse da sempre. Forse da quando quell'indagine era cominciata. Le pergamene che aveva recuperato sembravano recenti, come se avesse iniziato in coincidenza con la storia di Tristan Lancaster e Sarah Hamilton.

L'aveva portata a casa subito, dopo che all'ospedale aveva visto le ferite che si era inferta. Aveva fatto richiesta e l'aveva portata con sé, piangendo di nascosto.

Quanto tempo era passato?

Due notti.

Lei aveva dormito tutto il tempo. Un sonno continuo e profondo l'aveva colta da quando aveva avuto quella crisi a casa di Blackwood, che Horace non riusciva a spiegare.

Uscì dall'ufficio con un senso di oppressione al petto, i suoi stessi passi che ticchettavano sul pietrisco gli arrivavano alle orecchie in un suono ovattato. Mentre i suoi occhi si perdevano nel grigiore del cielo di York si chiese come fosse possibile che, fino al giorno prima, sembrasse tutto relativamente normale. Passò davanti alla cattedrale, si fermò. Ne ammirò i dettagli e l'architettura gotica, quella magnificenza che l'aveva resa uno degli edifici protagonisti dell'Inghilterra. Gli ricordava Hollow Fell, la casa di Tristan Lancaster. Quella dimora, in realtà, ne era un'imitazione disarmonica. Storpia, come una persona che nasce con un difetto congenito.

Doveva tornarci.

Lancaster non sarebbe stato lì a impedirgli di entrare.

Imboccò la strada per arrivare all'edificio, si sistemò meglio la valigetta sulla spalla destra e mosse altri passi lungo le strade di York. Sorpassò il quartiere di The Shambles, arrivò all'angolo della via, dove non c'erano più case. C'era una carrozza in fondo alla strada. Il cocchiere stava fumando un sigaro, distratto.

«Chiedo scusa» chiese Horace, la voce decisa. «Siete in servizio?

«Sì», l'uomo sbuffò lentamente una boccata di fumo. «Dove volete andare, signore?» appariva sfinito.

«C'è una casa in fondo al bosco» disse Horace. «67 Avenue, e poi tutto a dritto. È conosciuta come Hollow Fell.»

«Capisco, signore» disse il cocchiere. «Ci abitava il signor Lancaster, se non sbaglio.»

«Esatto. Ora non più, da quando è stato trasferito a Nightingale.» pensò a quella casa vuota, scheletro della vita del suo proprietario. L'indagine era stata dichiarata chiusa da quando c'era stato il processo, ma era come se una porta nella sua mente non si fosse chiusa bene. Come se ci fosse ancora qualcosa a fare capolino. E Violet ne era la prova.

Salì sulla carrozza, si sistemò sul sedile, le lettere a bruciare nella borsa. Non c'era un nesso apparente tra loro, erano tutte missive che la signora Hamilton aveva scritto, forse per sfogarsi della lenta discesa nella follia del marito. Ma erano tutte criptiche. Non era chiaro cosa stesse succedendo davvero e quelle parole trasudavano dei non detti che ora gli rimbombavano forsennati nel cervello.

Il signor Hamilton che entrava nella stanza della figlia, Sarah che si chiudeva nel suo ufficio con altri uomini e la signora Hamilton che si sentiva esclusa da qualcosa di grande e di oscuro. Di crudele. Qualcosa in cui sua figlia aveva un ruolo da protagonista.

Horace si era già fatto le sue idee, doveva solo confermarle.

La città sfilava davanti ai suoi occhi come una modella grigia e seria. Case, cielo in cui fluttuavano nuvole argentate. Le chiese antiche. La strada che si faceva sempre più larga e lasciava spazio agli alberi e alla terra, col suo odore di foglie umide e di selvatico.

Di nuovo quelle immagini davanti agli occhi, istantanee di una sequenza che ormai conosceva a memoria. La carrozza che si ferma, i suoi passi sugli scalini. La casa che lo guardava col suo cancello arrugginito. Tutt'intorno erano cresciute delle erbacce di un verde deciso, come a voler sottolineare che ora quello era il loro territorio. Horace le scansò. Il cancello era rimasto aperto, il cielo sopra di lui, adesso, sembrava un blocco di piombo.

Era sorprendente quanto, nel momento in cui si trovava lì, ciò che era inanimato sembrasse pulsante di vita e di morte allo stesso tempo.

Spinse il portone con i ghirigori intagliati nel legno. Nei giorni precedenti altri ufficiali e poliziotti avevano controllato gli ambienti e rilevato resti che potevano essere ricondotti alla vicenda di Sarah Hamilton e dei due cadaveri trovati nel bosco. Capelli femminili, sangue sotto i tappeti. Prove inconfutabili.

Era finita davvero, Tristan Lancaster era in un ospedale psichiatrico e avrebbe terminato lì la sua esistenza. Questo era ciò che dicevano tutti.

Horace sapeva che per lui non sarebbe mai stato così.

L'ingresso era come lo aveva trovato. Di fronte a lui, le lingue di stoffa dei tappeti, il pavimento a scacchi, i capitelli che ricalcavano lo stile dorico e le maschere alle pareti; la quantità di oggetti esotici che Tristan Lancaster aveva in casa aveva un fascino perturbante. Horace stette una manciata di secondi in piedi nell'ingresso: le parole che si erano detti gli strisciavano nelle orecchie come echi lontani.

Camminò lungo la casa fino ad arrivare alla sala delle feste. Il pavimento era in marmo scuro, l'arredamento color sabbia dava alla stanza un'aria remota. Come se quelle quattro pareti appartenessero a un'epoca lontana, segreta. Il camino enorme, tutt'intorno arabeschi e tende rosse facevano da elegante cornice. Mosse qualche passo verso la cappa di quel camino. Poteva benissimo entrarci una persona, lì dentro. L'odore della cenere si sollevava ancora, appena accennato, dall'interno.

Horace mise la testa nella bocca di quel mostro di pietra. Qualcosa sfrigolò in un angolo. Su, pochi centimetri sopra la sua testa. Allungò una mano, ignorando la pelle d'oca che stava prendendo forma sulle sue braccia, l'odore pungente che ora gli dava la nausea. Si stava fondendo a qualcos'altro, qualcosa di molto più denso e ferroso.

Inspirò.

Era l'odore del sangue quello che gli si stava infilando nelle narici. Sangue secco o fresco non avrebbe saputo dirlo, ma lo riconosceva in modo nitido. Era sangue.

Chiuse gli occhi. Ebbe paura di finire a terra, in quel luogo dimenticato, in mezzo alle sterpaglie. Gli girava la testa. Li riaprì, fissando di nuovo quel muro annerito dalla fuliggine. L'odore non se ne andava.

Doveva vedere che cosa ci fosse l'interno del camino, non aveva altra scelta se non tendere la mano e osservare che cosa avrebbe preso.

Allungò la mano, sempre più in alto, tuffandola nel buio della gola del camino. Andava a tentoni, i respiri che gli stridevano tra i denti. E poi qualcosa di peloso e umido.

Afferrò e tirò verso il basso. Quella cosa doveva essere legata, ma la corda si spezzò con una facilità sorprendente lasciando cadere ciò che teneva.

Horace avvertì una fitta di disgusto mordergli la pelle: un gatto nero, la colonna vertebrale esposta, giaceva ai suoi piedi. Del muso non restava niente, appariva schiacciato da qualcosa, e nugoli di mosche volteggiavano ronzando sulla carcassa. Avvertì lo stomaco contorcersi e ricacciò indietro la bile che stava risalendo acida.

Adesso lo sapeva: Tristan Lancaster era coinvolto in qualcosa che aveva il sapore dell'ignoto e dell'oscurità. Quel cadavere in decomposizione ne era la prova. La casa sembrò essere appannata dall'odore del sangue che si fondeva a quello acido della sua paura.

Horace fece un respiro profondo, indietreggiò, le gambe tremanti, la testa pulsante. Si avviò lungo il corridoio, portò le mani alla testa. Il corpo formicolava, voleva vomitare ma era come se qualcosa lo trattenesse, un malessere profondo che però si ostinava a tenerlo vigile.

Sapeva che doveva cercare altro – che c'era altro, lì dentro. Si sforzò di pensare in modo logico. Doveva esserci altro. Eppure, non aveva trovato niente nei giorni precedenti, quando aveva fatto il primo sopralluogo da Lancaster – quando lo aveva visto rigirarsi tra le mani le chiavi del suo stesso cancello con aria nervosa.

Aveva perlustrato ogni angolo della dimora, il gatto non c'era. L'unica ipotesi era che qualcuno fosse entrato, Lancaster non avrebbe avuto modo di legare un animale nel camino.

Qualcun altro era collegato alla storia di Sarah Hamilton.

Percorse con lunghe falcate tutto il corridoio, lungo e stretto, gli scacchi del pavimento che sembravano fondersi liquidi. Arrivò in fondo, guardò il riflesso del suo stesso volto nello specchio ovale appeso al muro, un'espressione accartocciata dall'ansia gli restituì uno sguardo perso. Non era il momento di lasciarsi andare alle emozioni, c'era qualcosa che non aveva notato in un primo momento, che doveva venire fuori per dare un senso a quanto stava accadendo.

Spostò lo sguardo sulla destra: appoggiato al muro c'era un piccolo tavolino che riprendeva lo stile del Settecento. Non sapeva che a Lancaster piacessero i mobili in quello stile; in realtà non sembrava nemmeno un mobile che aveva scelto, appariva più qualcosa che aveva trovato nella dimora, e che non si era sentito di buttare via. Aveva un piccolo cassetto con il pomello in ottone, che riluceva opaco nei bagliori del crepuscolo.

Si chinò, lo sfiorò con le dita. C'era qualcosa di incrostato, sopra, dello sporco che nessuno aveva pulito. Si avvicinò ancora di più, il cuore che sussultava nel suo sterno. Erano tracce di sangue secco.

Si sentì perso. Il panico gli afferrò la testa con le sue dita lunghe e gli affondò le unghie nel cervello. Forzò il cassetto in un gesto rabbioso, le mani si muovevano con quell'impeto dato solo dalla paura. Il legno sbatté a terra, il suo contenuto si riversò sul pavimento. Horace percepì immediatamente l'odore di bruciato nell'aria, denso e acuto, che gli provocò un colpo di tosse. Fogli carbonizzati si sparsero, formando brandelli neri tutt'intorno. Uno, però, era pressoché intatto, solo i contorni erano anneriti. Come se, chiunque fosse entrato lì dentro, non avesse fatto in tempo a distruggerlo. Lo osservò, le lettere che si rimescolavano nella sua testa. Danzavano su quel foglio come se si stessero prendendo gioco di lui.

Non erano lettere, però. Erano simboli. Simboli che non aveva mai visto da nessuna parte, spigolosi e informi. Non riusciva a ricondurli a qualcosa in particolare.

L'aria della dimora si fece opprimente. Horace ripensò a Violet, alle sue poesie che raccontavano di visioni macabre.

Raccolse tutti i fogli che aveva trovato, li infilò nella borsa, si alzò sulle gambe tremanti. Le sentiva rigide, legnose. Inutili.

C'era qualcos'altro in fondo al cassetto. Una cosa rossa e molle.

Per quanto Horace rifiutasse quell'immagine, il cuore del gatto lo guardava dal fondo del cassetto, inerte.

Forse non poteva capire da solo chi si fosse introdotto in quella dimora, ma andando a fare visita a Lennox e Lancaster sì.





Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top