XXII.
1900
Il pavimento in parquet chiaro era ricoperto da tappeti di un verde scuro. Horace ebbe la sensazione di essere al caldo, all'interno di una foresta che lo cullava tra le sue braccia frondose, quando entrò nella casa del signor Blackwood. Nel camino all'ingresso scoppiettavano i bagliori del fuoco; si rese conto di avere lo stomaco che brontolava, la fame si stava facendo sentire. Soprattutto perché, una volta entrato, aveva sentito odore di spezzatino.
«Signor Elmstone!» Blackwood lo accolse con un sorriso gioviale, un pastrano giallo a ricoprirne la sagoma. Informale, diverso da come era in centrale. Un bambino corse verso di lui, nascondendosi dietro alle sue gambe. «Papà» sussurrò a mezza voce.
«Oliver, sto salutando il signor Elmstone. Gli ospiti devono essere salutati, non farlo è inopportuno» lo rimproverò l'uomo con dolcezza.
«Buonasera, signor Ellstone» balbettò il bambino, un po' guardandolo negli occhi, un po' guardando a terra.
«Ciao, Oliver» Horace ingentilì il tono della voce.
«Cara, vieni, c'è il signor Elmstone» disse Blackwood, voltandosi. Dalla cucina emerse sua moglie, i capelli fulvi raccolti in una crocchia e il grembiule sporco.
«Non vorrai che io mi faccia vedere in questo stato, Thomas» disse la donna, la voce squillante. Si slacciò il grembiule, rivelando un vestito verde smeraldo con le maniche a campana, semplice ma elegante. «Sono Felicity, molto lieta» gli strinse la mano in un gesto femminile e delicato. «Spero che lo spezzatino sia di vostro gradimento, signor Elmstone. Thomas mi ha detto che voi e vostra figlia amate la carne» aggiunse, fissandolo con vispi occhi azzurri mentre scioglieva i capelli in una treccia.
«Non c'era bisogno di tanta accortezza» si affrettò a dire. Quei gesti gli scaldavano il cuore. «Chiamatemi Horace, comunque» aggiunse. «Lei è Violet, mia figlia.»
«Molto lieta» Violet non aveva preso parola, fino a quel momento. Si era limitata a guardarsi intorno, lo sguardo spaurito di quando erano appena arrivati a York e la mano destra a tormentare un lembo dell'abito color cipria.
«Non rivolgetemi tutte queste formalità, mi sono già stancata» sbottò Felicity, un sorriso appena accennato a giocare sul volto roseo. «Accomodatevi, fate come se foste a casa vostra.»
Dopo il processo di Lancaster, Blackwood lo aveva invitato a cena. E, se in un primo momento, a Horace era sembrato eccessivo, adesso tutto quello che avrebbe voluto era restare in quella casa per sempre. Fu un desiderio improvviso e disperato.
«Avete una casa molto bella» commentò, impacciato. Si schiarì la voce. «In particolare il camino dà un'impressione davvero familiare.»
«Era di mio padre» disse Blackwood con affetto, mentre camminava verso l'armadietto degli alcolici. Felicity, intanto, serviva la cena aggraziata, i capelli fulvi che rilucevano dei bagliori lanciati dal fuoco.
Horace osservò il quadro che gli si presentava di fronte: una casa accogliente, chiacchiere soffuse. Tristan Lancaster e i cadaveri che respiravano erano lontani.
Era stato semplice risalire a lui – fin troppo, si disse fra sé e sé. Ma quell'uomo non avrebbe potuto difendersi in alcun modo: dopo che si era presentato in centrale con Daniel Lennox, ricostruire il collegamento con gli Hamilton era stato spontaneo. Il passato viene a cercarti sempre, i morsi che lascia sono indelebili e ti marchiano a vita, aveva pensato mentre usciva dal tribunale e si perdeva a guardare il cielo argenteo di quella mattina.
Tristan Lancaster si era lasciato dietro una scia di ossessioni e deliri che lo mangiavano dall'interno: era visibile nel suo sguardo vuoto, nelle piccole rughe di espressione che erano comparse sul suo volto durante il processo.
Horace aveva notato sin dal primo momento le parole che spingevano contro le sue labbra, smaniose di uscire. Come se volesse urlare segreti che nessun altro avrebbe mai avuto il coraggio di raccontare. Si chiese, d'un tratto, se non avesse preso l'uomo sbagliato – se non avesse commesso un errore, come quando aveva visto l'esecuzione di Conroy e il suo collo che si spezzava con uno schiocco sotto la fune.
«Horace, vi sentite bene?» la voce di Blackwood lo riscosse. Non si era neanche seduto, era rimasto a osservare il cielo in piedi vicino alla finestra.
«Certamente» Blackwood aveva preso una bottiglia di ottimo vino. Horace prese posto vicino a lui, davanti a Violet. Sua figlia non era seduta composta, era impegnata ad ascoltare Oliver che le stava facendo vedere i suoi giocattoli. «Violet» la chiamò. «Vieni.»
Violet si alzò dal tappeto in silenzio; Oliver la seguì, saltellando fino alla sua sedia per poi prendere posto in un gesto scoordinato.
«Gli ultimi giorni devono essere stati stancanti per voi» Felicity iniziò il discorso senza fare cenno al processo. Guardò Oliver apprensiva, attenta alle parole da dire in sua presenza; a Horace venne spontaneo lanciare un'occhiata a Violet. Stava guardando nel vuoto.
«Sì, lo è stato molto» portò un boccone alle labbra; la carne morbida e succosa rilasciò il suo sapore denso. «Non è stato semplice guardare quell'uomo negli occhi.»
Mentre Lancaster veniva portato via aveva cercato di rifugiarsi nel pensiero confortante che non avrebbe più ucciso nessuno. Quel pensiero non era sembrato del tutto concreto, però.
«Si è trattato di un caso non semplice, per me e Horace» si inserì Blackwood, il crepitare del fuoco che accompagnava le sue parole. Si versò il vino nel bicchiere, osservò il liquido scuro oscillare dentro quella crisalide di vetro. «Tuttora alcune domande restano per me senza risposta.»
Quella lettera che aveva trovato nella saletta da conversazione di Lancaster. Abbandonata, come fosse insignificante. L'aveva ancora con sé, al sicuro nella sua valigia da ispettore, in mezzo ad altri documenti che la inghiottivano.
Violet mangiava in silenzio, gli occhi grigi sempre bassi. Stava ascoltando la conversazione? Non riusciva a capirlo.
«Non credo che l'indagine sia chiusa» disse Horace. Posò la forchetta accanto al piatto, gli occhi apprensivi di Felicity lo scandagliavano. «Non del tutto, almeno.»
«Oliver, vai in camera tua» Felicity si rivolse dolcemente a suo figlio. «Tra poco vengo a raccontarti una storia. Ti va?»
Il bambino sorrise. «Fai presto però» la rimproverò. Felicity gli fece una carezza sui capelli, e Oliver sgambettò fino alle scale; salì ogni gradino facendo rumore, sul volto un'espressione elettrizzata. Lo osservò recarsi in fondo al corridoio, canticchiando, poi la sua voce si fece sempre più lontana.
«Che cosa ha detto Lancaster?» Violet, adesso, aveva appoggiato forchetta e coltello ai lati del piatto, copiando il gesto che aveva appena fatto. Aveva la sua totale attenzione.
«Niente, in realtà. Ha avuto delle reazioni fin troppo calme, durante il processo. Quando si è alzato, sollecitato dal giudice, per rispondere alle domande che gli venivano poste, è stato innaturale.» Horace non smetteva di pensare che avesse ammesso le sue colpe troppo facilmente. Le prove erano state schiaccianti, era vero, ma spesso i criminali negavano anche l'evidenza, si difendevano con alibi ingegnosi.
Tristan Lancaster non aveva fatto nulla di tutto ciò, si era limitato a guardarlo mentre lo portavano via. Esattamente come aveva fatto Conroy.
«Capisco» Violet lo pronunciò come se quella parola volesse essere una cura. «Non deve essere facile.»
«No, affatto» la guardò. Forse capiva molto più di quello che lui pensava. «Come vanno le tue poesie?»
Era la prima volta che glielo chiedeva. Improvvisamente Horace ebbe la sensazione che ci fossero solo lui e sua figlia nella stanza.
Violet allargò gli occhi in un'espressione stupita e felice insieme. «Molto bene, in realtà. Ho trovato una grande ispirazione, da quando ci siamo trasferiti qui. Le mie poesie si sono arricchite molto.»
«Scrivi delle poesie?» Felicity aveva un tono di voce materno. Si sporse un po' verso Violet. «Ho sempre ammirato le persone creative. Penso abbiano una sensibilità straordinaria.»
«Grazie» la voce di Violet era monocorde. «Ma non credo sia questo il mio caso.»
«Perché?»
«Perché le mie poesie parlano di morte» la voce era una lama. Il silenzio che piovve sul tavolo una coltre di neve gelida. «Ultimamente trovo molta ispirazione in uno specifico concetto: cosa c'è dopo la morte. Scrivo di un non luogo da cui si torna. A mio avviso, è una teoria plausibile.»
«Quando hai cominciato a scrivere di questi argomenti?» un senso di allarme vibrò sotto la pelle di Horace. Blackwood andò a poggiargli una mano sul braccio, come a dirgli di calmarsi. Lo ignorò, mantenendo gli occhi fissi su sua figlia; Violet era irriconoscibile, lo guardava con espressione vuota.
«Circa un mese fa.»
«Hai letto i miei documenti?» chiese Horace. Inghiottì il boccone lentamente, avvertendolo raschiare contro l'esofago. Si sentiva la gola riarsa.
«In realtà, è da quando ci siamo trasferiti qui che ho questa sensazione. Come uno strisciare lento nei miei pensieri. Come se ci fosse qualcosa.»
Lo disse con una naturalezza stridente, che morse il cervello di Horace frammentandolo.
«Non hai risposto alla mia domanda.»
«Horace» lo ammonì Blackwood. E di nuovo le immagini di quei cadaveri che respiravano, le lettere.
Un deciso dolore alla testa lo colpì in pieno. Si portò una mano alla fronte. Posò la forchetta, l'odore dello spezzatino d'un tratto si era fatto fastidioso.
«Respirano» disse Violet. «I cadaveri respirano.»
Il corpo di Violet venne scosso da uno spasmo improvviso, la bocca dischiusa, gli occhi puntati nel vuoto. Felicity si portò una mano alla bocca, Blackwood si alzò per soccorrerla.
Horace non riuscì a fare niente, solo a guardare sua figlia che volava via dal suo corpo.
*
Si soffermò su una crepa che serpeggiava sul muro di un giallo spento. La sala d'attesa era un grande stanzone senza sedie, dove potevi vedere i volti angosciati di chi si trovava lì. Le mani gli tremavano. Si sentiva sporco, il sudore gli aveva formato una patina unta sulla pelle.
Blackwood era venuto con lui, aveva portato Violet all'ospedale senza che dovesse chiedere niente; Felicity era rimasta con Oliver, ma glielo aveva visto negli occhi che non avrebbe esitato un istante a venire con loro. Si sentiva fiacco, di quella stanchezza che ti avvolge e ti lascia il corpo intorpidito. Non era finita, come aveva detto a tavola appena due ore prima; quelle sue parole si erano avverate il momento dopo, come una profezia. Cosa c'era nelle poesie di Violet? In realtà non se lo era mai chiesto davvero, erano un terreno ignoto che si rifiutava di esplorare. Farlo sarebbe stato indiscreto, e l'ultima cosa che voleva era mancare di rispetto a sua figlia.
L'aveva sempre vista così, fino a quella sera. Ora aveva deciso che le poesie le avrebbe trovate e le avrebbe lette tutte, ormai stava diventando materiale di indagine.
I cadaveri respirano.
Appoggiò la testa contro il muro. Non aveva senso che Violet conoscesse quel dettaglio. I documenti degli esami sui cadaveri erano custoditi nell'archivio della centrale, dove non poteva essere stata in alcun modo.
«Come pensate che possa averlo saputo?» Blackwood interruppe il silenzio.
«Non ne ho idea», disse la verità, brutale così come la conosceva. L'ospedale era buio, adesso; si voltò verso il collega, nella penombra gli occhi lucidi sembravano due stagni. «So solo che sono preoccupato per lei.»
Blackwood stava per replicare, quando un medico uscì dalla stanza e si diresse verso di loro. «Buonasera», esordì con voce sottile. «Sono il signor Dicker, neuropsichiatra. Voi siete il signor Horace Elmstone?» gli chiese.
«Sì», quella parola gli uscì di bocca spontanea. «Sono io.»
«Voi siete un parente?» Dicker era rivolto a Blackwood, adesso.
«Sì», disse Horace ancora una volta. Non gli interessavano più le formalità, voleva solo sapere come stava sua figlia. Doveva andare tutto bene, poi avrebbe pensato al resto.
«La ragazza ha avuto quello che sembra essere un episodio psicosomatico. Inizialmente, osservandone i sintomi, ho pensato a un attacco epilettico, ma a seguito degli esami svolti escludo patologie neurologiche. Forse riterrete opportuno il ricovero in una struttura apposita.»
«No», si affrettò a dire Horace. «Adesso sta bene?»
«I valori sono stabili» Dicker buttò un occhio alla cartella che aveva fra le mani, facendoci passare sopra gli occhi nocciola. «Tuttavia, consiglio comunque un lungo periodo di riposo. La ragazza mi è sembrata molto turbata. Durante la crisi diceva di vedere dei cadaveri che respiravano, un non luogo dove la morte fluttua e non se ne va. Un luogo da cui le persone possono tornare indietro.»
Il cuore di Horace prese a battere più forte. «A cosa pensate sia dovuto?» ebbe la forza di chiedere.
«Non lo so, signore» rispose il dottore. «Certamente, alla base di deliri di questo tipo, c'è un forte stress. Ma, finché sua figlia non sarà ricoverata, nessuno potrà mai arrivare alla radice del problema.»
«Quando posso vederla?» Horace percepì il senso di urgenza che abitava la sua voce come si percepisce una cosa che viene da fuori.
«Potete vederla anche adesso, in verità» Dicker fu diretto, lo guardava in un misto di comprensione e qualcosa di asettico che lo fece sentire a disagio. «Ma fatelo solo se vi sentite pronti. Sta dormendo, e non credo si sveglierà a breve. Inoltre devo avvertirvi che quello che vedrete potrebbe destabilizzarvi, signor Elmstone. Vostra figlia porterà i segni di questa crisi, se capite cosa voglio dire.»
Si allontanò, forse per dargli il tempo di metabolizzare le sue parole. Horace restò congelato, gli occhi di Blackwood su di sé.
«Te la senti di entrare?» la voce del collega gli arrivò alle orecchie ovattata.
«È mia figlia» si limitò a dire lui.
Mosse passi verso la stanza da cui era uscito Dicker. Gli sembrava di fluttuare.
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