XX.



1890




Gli altri non ricordavano, lui riviveva ogni momento. Da quella notte ricordava anche istanti della sua vita che qualcuno gli aveva portato via, come quella volta in cui aveva visto i suoi genitori portare qualcosa nello scantinato e suo padre sembrava così teso e sua madre piangeva.

Poi era diventato tutto buio.

«Signori Lancaster» la voce del signor Lennox li accolse nella grande sala della villa. Un raggio solare si abbatteva sull'arco stondato al centro della stanza come una lama che tagliava in due l'ambiente; i quadri appesi alle pareti pulsavano di una luce chiara. Dopo la sera che sembrava intrappolata nella sua testa, suo padre aveva concordato un'altra cena con il signor Lennox; John Hamilton non ci sarebbe stato, Sarah stava sempre peggio.

Non la vedeva da allora. L'ultima immagine che aveva di lei era la sua sagoma esile vicino al cadavere e quell'orrenda cicatrice sul petto. Non avrebbe avuto occasione di capire se ce l'avesse davvero.

«Buonasera, George» suo padre Adam salutò il collega con educazione. «Lasciatemi dire che la vostra villa, così illuminata dalla luce solare, ha più l'aspetto di un tempio nascosto. La trovo sublime. Potrebbe essere rappresentata dai migliori artisti che abbiamo in città – sono tutti dotati di un singolare talento, sapete.»

«Siete, come sempre, troppo gentile, Adam» sul volto spigoloso di Lennox prese forma un sorriso, le labbra piene increspate di un velato timore.

Non poté fare a meno di focalizzarsi su quel dettaglio. Era come la nebbia nella foresta, non accennava mai a diradarsi. Fu assalito dal bruciante impulso di afferrare quella nebbia e strapparla.

Perché Lennox sembrava intimidito da suo padre?

Tristan non aveva osato chiedergli nulla, era come se non sapesse più parlare. Adam Lancaster passava più tempo a casa, e quel dettaglio non apparteneva alla normalità. Di solito Tristan era solo, nella sua villa, viveva immerso nel silenzio dell'assenza del suo unico genitore.

Era strano averlo lì, vederlo seduto allo scrittoio o in poltrona nella sala del tè, senza che però interagisse con lui in qualche modo.

«Tristan» il suo nome, accarezzato dalla voce di George Lennox, gli parve avere un sapore diverso. Si distolse da quei pensieri. «Ogni volta che vi vedo, non posso fare a meno di pensare che siate il degno erede di vostro padre.»

«Vi ringrazio, Signor Lennox», poteva essere solo quella la risposta, giusto?

«Figliolo, ti senti bene?» suo padre lo guardò, gli occhi neri e profondi uguali ai suoi.

«Certo, padre», la voce gli tremò un po' e si ritrovò a sperare che non se ne fosse accorto.

Julie portò in tavola della selvaggina, passando tra le sedie con la grazia e la velocità di chi è abituato a servire da anni. Tristan la guardò spostarsi, l'abito color pesca che le cadeva addosso come una tenda scomposta, i capelli color rame tirati indietro. Una piccola ciocca le finì sulla fronte. Posò i piatti, fece come per tornare indietro e si tirò su le maniche per aggiustarselo.

«Dall'incidente sembra che Tristan si sia ripreso in modo eccellente» suo padre si scambiò un'occhiata con il signor Lennox. Sguardi freddi, erano una giostra nella sua mente confusa. «Anche se non ha ricordi di quanto accaduto prima, quindi non possiamo ricostruire ciò che è successo davvero.»

«Purtroppo no. Anzi, ritengo che John abbia fatto un ottimo lavoro, date le condizioni in cui era il suo dito. Ci è mancato davvero poco che lo si potesse ritenere perduto. Direi che, invece, anche le speranze che sembravano sopite sono state risvegliate. Ancora qualche giorno e si toglierà la fasciatura. A proposito; sono desolato che John non sia potuto venire stasera, ma a quanto mi ha detto le condizioni di Sarah sono peggiorate.»

«Sono d'accordo. Tuttavia, non possiamo biasimarlo. Sarah deve essere protetta, e non c'è altro modo che quello di curarla a casa, per evitare il ricovero forzato. Sono certo che John provvederebbe a inserirla nella struttura migliore che abbiamo, in tal caso. Ma purtroppo non vi è la certezza che gli psichiatri siano gentili con lei. Soprattutto con i tempi che corrono: avete sentito dei maltrattamenti che vengono fatti sulle donne, oggigiorno, alla clinica di Nightingale?» Lennox tagliò la carne mentre parlava.

«Dite il vero» suo padre iniziò a fare lo stesso. «Ci fu un caso eclatante, un mese fa: si venne a scoprire che un medico si era invaghito di una paziente e abusava di lei. Per quanto confido che quella paziente fosse particolare, forse la verità è che era folle il medico. Delle volte queste cose accadono.»

Più passava il tempo, più a Tristan sembrava tutto finto. Come se quel dialogo fosse solo in preparazione di qualcos'altro.

«Con tutto ciò, spero comunque che Sarah Hamilton resti al sicuro nella sua dimora. Dopotutto, forse ormai è tardi per portarla in un altro luogo» e la voce di Lennox si abbassò.

«A questo proposito», suo padre aveva già finito ciò che aveva nel piatto. «Gli studi che ho portato a termine su ciò di cui mi parlavate, l'altro giorno, hanno preso una piega inaspettata, signor Lennox» aveva una voce tranquilla, ma al suo interno vibrava un velo di tensione.

«Potete seguirmi» lo interruppe Lennox. Si alzò dal tavolo, gli fece strada lungo il corridoio. Lasciò ciò che rimaneva nel piatto, come se nient'altro avesse importanza se non quello che suo padre aveva da dirgli.

Si alzarono, camminarono fino allo studio in fondo alla sala, la tavola ancora imbandita che adesso dava un'insopportabile sensazione di vuoto. I loro passi ticchettarono sul pavimento a scacchi, poi aprirono la porta, la chiusero, girarono la chiave nella serratura. Le loro voci divennero ovattate e sommesse.

Tristan provò il malsano impulso di seguirli.

«Avviciniamoci» disse, Daniel e Julie che lo fissavano attoniti.

«No. Dobbiamo aspettare» Julie, nel tentativo di sistemarsi, si sollevò una manica del vestito, scoprendo un livido. Quando si rese conto che gli occhi di Tristan erano puntati sulla sua pelle, tirò giù quel pezzo di stoffa. Tristan non disse niente; non erano affari suoi.

«Sapete, almeno, perché hanno deciso di ritrovarsi? Dopo quello che abbiamo passato? Siete davvero convinti che questa sia solo una cena amichevole?» aveva iniziato a sudare. Era un sudore dettato dalla paura, però, dalla sensazione dell'ignoto che ti fa sentire come se nuotassi nell'oceano di notte, con gli squali che si nascondono nelle acque nere.

Daniel lo guardò con occhi incerti. «Non sappiamo niente.»

Si alzò. «Venite con me.» Lasciò cadere il tovagliolo di stoffa sul tavolo in un gesto rabbioso, sgraziato. Non sarebbe rimasto a guardare mentre le loro famiglie parlavano di come organizzare la prossima riunione. La sua testa era un rimbombare di incognite e i suoi amici non lo stavano ascoltando. E poi dov'era Maryanne? Perché non c'era anche lei?

«Non possiamo» la voce di Julie era un sibilo, una lacrima tracciò un sentiero salato sulla sua guancia. Aveva l'atteggiamento di chi sapeva. «Non ci faranno sopravvivere un'altra volta.»

«Quindi tu ricordi» non era una domanda, era un'affermazione. Tristan si chiese perché fosse l'unico ad avere i pensieri annebbiati. C'era qualcosa che era andato storto con lui, ne era sicuro. O forse l'oscuramento era voluto. Non riusciva a definirlo.

«No», la voce di Julie tremò, vibrò di immagini che non voleva rievocare. «Ma non voglio guardare.»

«Io sì» si avviò con lunghe falcate alla porta dello studio di Lennox, dove l'uomo si era chiuso con suo padre. Non si sentiva niente al di là di quella superficie in legno che lo fissava arcigna.

Si avvicinò alla serratura, il globo oculare la abitò come fosse una finestra.

L'ambiente era buio, solo una lama di luce tagliava la stanza. Il lungo tavolo al centro era un blocco che squarciava tutto il resto. I due uomini si sedettero l'uno di fronte all'altro, le espressioni serie, gli occhi chiusi. Il silenzio era irreale. Si presero per mano in un gesto solenne che trasudava comunicazione spirituale. Tristan fu percorso da un brivido.

Chiusero gli occhi, inspirarono. Poi presero a respirare in sincrono, come fossero prede di qualcosa di invisibile che li costringeva a sibilare aria tra i denti. Dentro, fuori. Dentro, fuori. Il ritmo che si erano dati era ansiogeno, si infilava nella sua testa a velocità troppo irreale. La sensazione di non sapere cosa stesse accadendo gli faceva mancare l'aria.

Non aveva mai visto suo padre con quell'espressione spiritata, gli occhi che guizzavano sotto le palpebre. Le mura cominciarono a crepitare – c'era qualcosa che premeva, al di là del cemento. Gli sembrò di vedere degli artigli lunghissimi, ma doveva essere solo suggestione. Quando sbatté gli occhi, quell'immagine era scomparsa.

Gli uomini aprirono gli occhi, le iridi brillanti sotto le ciglia.

«Lui ha visto qualcosa, in lei. L'ha scelta. E c'è un motivo, anche se noi non possiamo conoscerlo.»

Nella stanza era calato un gelo che si infilò anche nelle ossa di Tristan.

«C'è qualcosa che non va. La corrente non è lineare.»

«Lo so. Significa solo che dobbiamo investire tutto su di lei. La sua carica è più elevata di quello che pensavamo.»

Una goccia di sudore freddo gli colò sul viso. Ebbe voglia di lasciarsi cadere a terra e dondolarsi, nel tentativo di scacciare quelle frasi che gli si erano incollate addosso.

La sua carica è più elevata di quello che pensavamo, la corrente non è lineare, niente è lineare niente niente niente nemmeno i pensieri.

Sentiva la testa esplodere, come se dentro ci fossero stati troppi mattoni che si schiacciavano gli uni sugli altri per farsi posto portandosi via la materia grigia.

Dov'era Sarah?

«Andiamocene» Daniel era fuori di sé, una piccola vena si era evidenziata sulla tempia.

«No. È necessario capire cosa stanno architettando. Ascoltate: con ogni probabilità le nostre famiglie sono coinvolte nell'occultismo.»

«Non giungete a conclusioni affrettate» disse Julie, la sua voce un sussurro.

«Non avete sentito? Parlano di carica, di corrente. Sono tutti concetti che ricorrono nello spiritismo. La domanda è che cosa stanno cercando di evocare.»

«Tristan, non riuscite a ragionare lucidamente. In una situazione come questa ciò che sarebbe giusto fare è rivolgersi alla polizia» disse Daniel.

«Non possiamo permettercelo» Julie era sull'orlo delle lacrime.

«Lady Julie ha ragione. E poi, non ci crederebbe nessuno. Lo spiritismo è ritenuto faccenda da circensi. Da imbroglioni. Le persone si dilettano in queste faccende, ma fanno finta di no, nel nostro ambiente. Nessuno ne parla. E certamente dei poliziotti non darebbero adito a dei giovani di diciotto anni, figli di famiglie ricche, che accusano i propri genitori di praticare rituali oscuri.»

Silenzio. Tristan si allontanò dalla serratura, mosse qualche passo più in là, nel corridoio. Arrivò alle scale, scese qualche gradino, appena sufficiente ad appoggiarsi al capitello in stile dorico lì vicino per attutire i suoni. Daniel e Julie lo seguirono. Tristan tirò su col naso; l'odore della carta dei libri e dei tappeti nuovi era diventato soffocante.

«Anzi, è più facile che la situazione ci si ritorca contro. Potrebbero sospettare di noi, potrebbero pensare che vogliamo rinchiudere i nostri genitori da qualche parte per avere la loro eredità. I beni materiali, amici miei, è su questo che la nostra opulenta società si concentra.»

«Tristan» la voce di Julie era più decisa di quello che si sarebbe aspettato. «Non abbiamo prove sufficienti per ritenere che ciò che andate dicendo sia vero. L' occultismo non è in alcun modo appartenente alla dimensione razionale delle cose.»

«E ciò che abbiamo visto lo è?» ribatté, provocatorio. «Quali altri eventi devono avere luogo per farvi prendere consapevolezza dell'esistenza di qualcosa che non possiamo vedere? Siamo stati rapiti e portati in un sotterraneo. Nessuno di voi ricorda di aver visto quello che ho visto io, ma ricordo nitidamente Sarah Hamilton che mangiava un cadavere.»

Bruciavano sul suo corpo, quelle parole.

«Questo è spiegabile anche in un altro modo» la voce di Daniel era neutra. «Chi vi dice che non ci abbiano messo degli allucinogeni nelle bevande? E che quello che avete visto non fosse altro che un delirio indotto da un farmaco?»

Tristan avvertì la rabbia ribollirgli sotto la pelle. «Anche fosse, quello che è successo non è normale. E poi come fate a voler restare ancorato a ciò che è visibile, nonostante tutto? Non avete notato anche voi quella cosa

Sul volto di Julie camminarono delle lacrime.

«Ma per quale motivo dovrebbero escluderci da questa organizzazione?» ribatté Daniel. «Anche ammettendo che voi abbiate ragione, noi siamo i loro legittimi eredi. Per diritto di successione, non dovremmo in alcun modo essere estromessi. Al contrario, dovremmo essere coinvolti più di altri.» era teso, si percepiva.

«Per un motivo molto semplice» disse. «Forse hanno deciso che, invece, saremo le loro vittime.»

Quella frase venne seguita da un silenzio opprimente.

Spesso non c'era una vera e propria motivazione per cui gli esseri umani si dedicavano a esplorare l'aldilà nelle sue sfaccettature. A volte era solo per noia che ci si rivolgeva a una medium – a qualcuno che costruiva un ponte tra il mondo terreno e il mondo delle anime, buone o malvage che fossero. Oppure c'erano ragioni più profonde. Un lutto, una perdita, una scomparsa di qualche tipo. Una malattia. Un momento di smarrimento, e tutti diventavano schiavi di qualcosa che non potevano neanche percepire realmente, ma solo nella suggestione del proprio inconscio. Tristan trovava tutto questo incredibilmente stupido e intelligente al tempo stesso. Ti affidavi a qualcosa di cui non sapevi neanche l'esistenza e trovavi conforto. Evadevi da una realtà che sarebbe stata troppo terribile da affrontare.

Quello che forse stavano facendo i loro genitori. Forse il soprannaturale era la via di fuga dalla loro follia che d'un tratto sembravano avere in comune. Ma quelle ombre erano reali. La stanza aveva tremato, le pareti erano parse fatte di carta, e non se l'era immaginato, l'aveva visto. L'aveva percepito.

Di nuovo quella vibrazione elettrica aggredì le vene di Tristan, come un avviso nascosto nella fibra più profonda del suo essere. Cosa separa il tangibile dall'intangibile? si chiese. Cos'è che rende un fenomeno concreto, anziché il frutto di una mente contorta?

La concretezza delle cose, Tristan, la concretezza delle cose, si ripeté. Era a quella che doveva restare aggrappato.

«Stanno dicendo qualcosa» un sussurro tremante uscì dalla bocca di Julie. Si avvicinarono di nuovo alla serratura, silenziosi. «C'è qualcun altro, con loro.» Sulla sua guancia sinistra strisciò un'altra lacrima, il volto pallido era ormai rigato da linee umide.

«Lui vuole parlare con me.»

Avrebbe riconosciuto quella voce tra mille altre.

Sarah era in quella stanza. Era lì anche se non poteva esserci entrata. Li stava aspettando, forse; doveva guardare, anche se rivedere quella faccia di alabastro circondata da capelli corvini avrebbe significato sentire il suo corpo dissolversi.

Tristan si avvicinò.

Era lì. In piedi vicino al tavolo, come una presenza che si era materializzata all'improvviso.

Indossava un abito rosso carminio che la faceva somigliare a un personaggio letterario. Si sedette al tavolo con naturalezza, l'orlo dell'abito che strisciava a terra sinuoso. Portava il rossetto sulle labbra – non lo indossava mai. Tristan capì che subito che era un'occasione speciale, quella. Stava per accadere qualcosa che sarebbe stato come quando erano stati chiusi in cantina e avevano sentito parlare di morte.

Quando prese posto in mezzo a suo padre e a George Lennox, fu come se la stanza stesse tremando. Le pareti scricchiolarono, palpitarono. Tristan indietreggiò. Guardò Daniel: aveva gli occhi sbarrati, la bocca dischiusa provava ad articolare parole mute.

«Signor M.» la voce adamantina di Sarah tagliò l'aria. «Signor M., vorrei parlare con te. Riesci a sentirmi?»



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