XV.




1900


Nella mente di Daniel tutto si rimescolava, si sovrapponeva in modo disordinato e privo di un percorso lineare. Aveva sempre immaginato la sua vita definita da quella parola – lineare – e ora la consapevolezza che forse non lo era mai stata lo mordeva feroce. Era in una stanza senza porte né finestre, in cui le sue urla rimbalzavano sulle pareti per poi riversarsi nelle sue orecchie in un girotondo infinito.

Maryanne era morta.

Erano andati via, dopo la cena da Tristan. Le immagini felici di quella serata lo avevano avvolto con i loro colori ovattati. Non le aveva viste trasformarsi in fogli di carta carbonizzata. Non aveva contemplato l'idea che Maryanne si fosse consumata. Invece lo aveva fatto e lui pensò di sapere perché.

Non poteva dirlo, però.

La cosa che li aveva devastati riguardava solo loro, nessuno gli avrebbe creduto.

Daniel non voleva più stare nella sua testa, era diventato tutto troppo buio e lui detestava il buio. Era stato scortato nella sua cella nel centro di York da due ufficiali di polizia che lo avevano afferrato senza alcuna delicatezza. Lo avevano lanciato lì dentro, aveva camminato in mezzo alle celle ascoltando le urla degli altri carcerati. Qualcuno gli aveva anche sputato. Gridavano insulti che non aveva mai sentito negli ambienti che era solito frequentare, avevano espressioni che trasudavano la follia più nera che avesse mai visto. Daniel aveva sfilato in mezzo a loro come un animale esotico in mezzo a dei cani randagi. Aveva tentato in tutti i modi di provare la sua innocenza, anche se sapeva che nessuno avrebbe dato adito alle sue parole.

Ora sarebbe finito tutto sottoterra. Sarebbe stata sepolta e lui non avrebbe neanche potuto assistere. Non avrebbe potuto farle indossare il suo vestito migliore, vederla bella per un'ultima volta. L'aveva vista solo deturpata dal mostro che l'aveva uccisa, poco prima che l'ispettore Elmstone invocasse il mandato per il suo arresto e lo portasse in centrale. Aveva passato lì due giorni prima che lo venissero a prendere e lui aveva già esaurito le energie per urlare come aveva fatto all'inizio. Adesso la voce gli usciva debole mentre tentava di convincere gli ufficiali che lui non era il colpevole.

Se avesse raccontato com'era realmente andata non gli avrebbe creduto nessuno. Anche se era il figlio di un grande medico, tutto ciò sarebbe sembrato solo il delirio di un pazzo e qualcuno lo avrebbe rinchiuso e sarebbe stato dimenticato. Forse Elmstone intendeva già farlo. Aveva visto la locandina affissa alla centrale di polizia, le similitudini che c'erano tra il corpo ritrovato nel bosco e quello di Maryanne.

Avrebbero pensato che fosse stato lui anche per quanto riguardava la prima vittima. Ne era certo.

E quella concatenazione di eventi era iniziata da quando Tristan li aveva chiamati tutti a Hollow Fell. Quella dannata casa che gli era sembrata estranea e in un certo senso familiare, come se ci fosse già stato anche se non poteva essere.

Non c'era già stato.

Non poteva esserci già stato.

Il frammento di un ricordo con Maryanne – di loro due in fuga, di loro che uscivano da una casa tenendosi per mano – lo aggredì. Sua moglie indossava un vestito rosa, le foglie autunnali si erano appiccicate alla gonna e lui le aveva ordinato di correre, corri ancora, corri dobbiamo scappare.

Dobbiamo andare via.

Non poteva essere quella casa. Non poteva essere la stessa che Tristan aveva comprato – o sì? Daniel prese a tremare. Il suo corpo conteneva a stento tutti quei ricordi che, adesso, non riusciva più a scindere dalla realtà.

Poi urlò, e vide sobbalzare l'ufficiale di ronda che passava davanti alla sua cella.

Urlò fino a farsi scoppiare i polmoni. Si strappò i capelli, si graffiò la pelle, e urlò, ancora. Urlò finché non cadde a terra e perse i sensi.


*


Quando suo padre iniziava ad avvicinarsi con occhi di brace, Daniel iniziava a tremare. Era più forte di lui, il potere che aveva gli si scagliava addosso. Lo investiva in tutta la sua ovvietà. Daniel sapeva che non sarebbe mai cambiato nulla in quel dolore che lo avvolgeva come una coperta. A volte lo faceva senza motivo.

Una volta che lo aveva picchiato più forte si era nascosto sotto il letto. Poi era successa una cosa strana. Qualcosa era scintillato nella scarsa luce dell'alba, al collo di suo padre. Un ciondolo di ossidiana che baluginava.

Le urla dei carcerati bruciavano alle porte della sua mente implacabili. Daniel si ricordava quanto l'idea di Sarah lo avrebbe fatto evadere da una realtà in cui c'era solo violenza immotivata.

Guardando le pareti umide della cella e le incrostazioni di muffa che si arrampicavano fino al soffitto si rese conto che la verità ce l'aveva sempre avuta sotto gli occhi. Che era lì davanti a sé, e che non aveva mai voluto accettarla perché avrebbe significato far sgretolare ogni cosa. L'aveva vista nelle botte che si mangiavano la sua pelle.

Aveva iniziato quando era piccolo. Quel giorno lo ricordava bene. La nebbia. Lui che scappava, sua madre che restava a guardare impassibile mentre veniva inseguito. L'uomo che chiamava padre gli correva dietro con una luce famelica negli occhi. Il panico aveva afferrato il suo piccolo corpo. Ricordava che non aveva nemmeno pianto, non aveva tempo né forze per farlo. Doveva pensare a nascondersi. A fare ordine nella sua testa dove niente aveva più un senso.

Non si nascondeva abbastanza bene, però.

«Lennox» la voce dell'ufficiale gli colpì l'udito. «Hai una visita» si sentiva che era abituato a rivolgersi agli altri in modo scortese. Daniel voleva dirgli che poteva anche evitare di parlargli così ogni volta, ma poi si ricordava che adesso era al pari di quei tizi che gli sputavano.

«Hai dieci minuti» disse l'ufficiale, gelandolo con lo sguardo.

La porta del sotterraneo cigolò. Daniel venne scosso da un brivido di freddo; l'umidità che c'era in quel posto gli si stava infilando fin nelle ossa.

I passi del visitatore rimbombarono in tutto l'ambiente. Creavano una sinfonia con le gocce d'acqua che crollavano dalle catene. C'era solo lui, là sotto, i pensieri a rincorrersi nella testa.

Forse era meglio così.

«Daniel» la voce inconfondibile di Tristan Lancaster gli punse l'udito. «State bene?»

No, non sto bene, era la risposta che avrebbe voluto dare. Non disse nulla, invece. La gola sembrava andargli a fuoco.

Si sforzò di inghiottire un po' di saliva. Non ci riuscì.

«So che non siete stato voi a uccidere Maryanne, e forse so anche come provarlo.» Tristan aveva un aspetto stanco. Gli occhi tondi sporgenti, i capelli sporchi. Forse non aveva dormito. Non che gli importasse poi molto. Era stato lui a farlo finire laggiù, lui a dare di nuovo inizio a tutto. Aveva riaperto una porta che era stata chiusa anni prima per un buon motivo.

«Come potete provarlo?» sibilò. «Non c'è modo di provarlo. Non ci crederebbe nessuno. Non possiamo raccontare quello che abbiamo vissuto.»

«Forse posso portarli alla pista giusta, invece.» Il sussurro di Tristan era un nastro che si infilava nelle pieghe del suo cervello. Sapeva di qualcosa di sconosciuto; Daniel realizzò che non aveva mai saputo davvero tutta la verità.

Tristan non li aveva invitati nella sua dimora per caso.

«Cosa intendete?» il punto di domanda, in quella frase, era invisibile. Daniel l'aveva pronunciata con voce monocorde, sembrava più un'affermazione. Bruciò Tristan con gli occhi. La rabbia gli si riversò liquida nelle vene. Se non ci fossero state le sbarre nel mezzo lo avrebbe preso a pugni. «Tristan» lo chiamò. «Perché ci avete invitati a casa vostra?»

Tristan rimase in silenzio, gli occhi che ora sporgevano in modo innaturale.

«Gli Hamilton erano i proprietari precedenti» disse. «Un cerchio doveva chiudersi.»

«Parlate!» i pugni di Daniel si abbatterono sulle sbarre.

«Il tempo è scaduto» abbaiò l'ufficiale di ronda. «Andate via» disse, rivolto a Tristan. Le urla di rabbia di Daniel rimbalzarono nel sotterraneo a lungo, inascoltate.


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