XII.





1890




Era immerso in una tenebra troppo nera. Come se una creatura sconosciuta l'avesse inghiottito nella sua gola chilometrica e senza fondo.

Solo la debole luce data da una torcia illuminava la stanza dove si trovava. Mosse appena la testa; non riusciva a sentire neanche le gambe, era paralizzato. Maryanne era stesa a poca distanza da lui, il collo piegato in modo innaturale. La mente di Tristan venne subito scheggiata dal pensiero fulminante che fosse morta, poi la ragazza aprì gli occhi.

Fece di tutto per non guardare, ma era come se i suoi muscoli non rispondessero.

Gli occhi di Maryanne non avevano nulla a che vedere con il solito bagliore vivace che emanavano in occasione delle loro conversazioni. La bocca socchiusa, la posa più simile a quella di un cadavere. Non sembrava viva, ma non poteva non esserlo – si rifiutava di interiorizzare che la sua amica fosse morta senza che lui neanche se ne accorgesse. Eppure respirava.

Tutto vorticava a ritmo vertiginoso, si sentiva asfissiato dai suoi stessi pensieri.

La mente gli guizzò al funerale della figlia della vicina, alla piccola bara che si chiudeva. Alla fotografia che le avevano fatto, mettendola in posa come fosse stata viva. Gli occhi dipinti, il vestito buono che le ricadeva etereo attorno a quel corpo da cherubino. Quella rigidità che avrebbe potuto osservare per ore. Si chiamava Harriet, e a quel funerale lui ci era andato perché costretto, perché era buona usanza non saltarli, i funerali.

Aveva tredici anni e non aveva voglia di avere a che fare con la morte. Una scena che gli baluginò nella testa come se qualcuno ce l'avesse scagliata, senza che davvero avesse un senso. Tutto appariva nebbioso, anche i suoi stessi pensieri.

Galleggiava in qualcosa di morbido e fuggevole come fumo.

Le palpebre di Maryanne si richiusero di colpo. Tristan avvertì gli arti riprendere un po' di sensibilità – abbastanza per reggercisi sopra e spostarsi di pochi centimetri. Un velo di sudore gli si era appiccicato alla fronte.

Strinse i denti trattenendo un verso di terrore che altrimenti sarebbe fuggito via – era impressionante

quanto un essere umano riuscisse a reprimere i suoi istinti quando era costretto a farlo.

«È andato tutto come previsto?» la voce di John Hamilton lo strappò a quella dimensione fatta di niente in cui era sprofondato.

«Sì, signore» suo padre era calmo come non lo aveva mai sentito. «Se non altro Sarah è rimasta per poter proseguire, e ciò è un bene, considerato che si trovava in un grave rischio» proseguì. «Se avesse varcato il confine troppo a lungo, avreste subìto un'altra perdita, che si sarebbe aggiunta a quella di anni fa.» La voce dell'uomo era macchiata di un solenne dispiacere.

Il signor Hamilton parve non reagire a quanto era stato detto. Continuò a parlare con voce monocorde.

«Se Azalea è stata presa e non è più riuscita a uscire, voleva dire che non era destinata a proseguire con la nostra Opera. Ha avuto ciò che si meritava. Non era abbastanza.»

Gli occhi di Tristan si stavano abituando al buio, ogni cosa assumeva dei tratti definiti: in fondo alla stanza vi era un camino, a terra un tappeto persiano, al centro un tavolo. Intorno, appesi alle pareti di pietra, teste di animali e corpi umani ciondolavano senza vita. Il sangue aveva ormai smesso di confluire loro nelle vene; sembravano coperte dal colorito livido, simile a quello dei cadaveri di chi è morto annegato. Ed erano appesi.

Ordinò alle sue gambe di reggere tutto il resto e di scappare via, ma qualcosa lo teneva ancorato a terra. La bocca una linea screpolata e secca, il cuore talmente impazzito che stentava a riconoscerne il suono. Poteva un cuore fare tutti quei battiti? Poteva assordarti le orecchie, darti la sensazione che ci fosse una cassa di risonanza nascosta dietro la testa?

Il respiro, comunque, restava sorprendentemente regolare – si infrangeva nell'aria come una risacca eterea. Era uno sciame di contraddizioni che oscillavano in uno spazio vuoto.

«Azalea è morta per una giusta causa. È andata a nutrire ciò che deve essere nutrito. Gli esseri umani necessitano che qualcuno muoia, per dare un senso alla propria esistenza. Hanno bisogno di confrontarsi con ciò che la morte significa, con le riflessioni che con sé porta.»

Non si erano accorti di lui, continuava a essere un ciocco di legno gettato in un camino. Ma prima o poi l'avrebbero fatto, e quella consapevolezza gli fece venire voglia di urlare.

Denti stretti denti stretti denti stretti

Era un mantra che ripeteva dentro di sé come fosse una preghiera – e forse lo era davvero. Un rumore incrinò quell'atmosfera ovattata.

Sarah.

Era in un angolo della stanza, lontana dagli uomini, immersa in uno stato catatonico. Gli occhi immobili come quelli di Maryanne. Si muovevano a malapena. Ogni azione umana e spontanea appariva rallentata, un'imitazione di quello che doveva essere. Mosse qualche passo, la vide muoversi lungo la stanza come si muove una pedina lungo la scacchiera.

Un due Un due

Un Due

Il ticchettio delle scarpe sembrò riverberarsi nei suoi timpani più volte.

Altri suoni stavano arricchendo la scena, quelli dei movimenti di suo padre che appiccava il fuoco. Il legno che si accatastava sopra ad altro legno, le fiamme che divoravano ogni piccola, microscopica scheggia.

Tristan si sporse, e quello che vide gli gelò il sangue nelle vene. Al centro della sala c'era un cadavere.

Denti stretti denti stretti denti stretti-

L'urlo che voleva uscire era troppo grande, troppo ingombrante, e Tristan seppe che se lo avesse lasciato uscire sarebbe morto per quanto gli avrebbe scorticato le corde vocali.

Sarah si era chinata, gli occhi persi in un'assorta contemplazione, le iridi nocciola colorate di un sentimento sconosciuto.

Il momento che seguì, comunque, sarebbe rimasto nella sua mente per sempre.

Con la vista che si era abituata al buio, Tristan si fissò sul cadavere. Giaceva a terra dimenticato, come se quell'uomo fosse solo un involucro, ormai derubato della sua personalità. Della sua identità.

Gli venne da ridere istericamente. Con la morte l'essere umano perdeva ogni cosa. Restava vivo nel ricordo dei familiari, e a volte neanche quello. Se venivi ucciso, non ci sarebbe stato nessuno a metterti il vestito buono per una foto nel giorno del tuo funerale.

Era questo che era – un oggetto, una scarpa vecchia.

Erano stati loro a ucciderlo. Sarah era complice. Suo padre era complice di quel delirio.

Il cadavere era in una condizione tale che Tristan non riusciva a trovare le parole giuste per descriverlo. Continuava a guardarlo ossessivamente, però. Assecondava lo stesso istinto che era un connubio tra sadismo e masochismo di quando era stato al funerale della piccola Harriet. Andò dietro ai pensieri che gli suggerivano che quella fosse una visione ripugnante e attraente allo stesso tempo, fluttuandoci dentro.

Quel cadavere lo avrebbe inseguito come Harriet. Non si sarebbe mai liberato di lui.

Al centro del corpo c'era un buco ampio, inflitto da mani che non potevano essere umane. Mostrava le interiora annegate in un mare nero – sangue che non aveva neanche quei caratteristici bagliori rossastri per quanto era scuro. Più su, all'altezza del petto, di nuovo una cavità.

Il resto dei tessuti, però, era intatto.

Non era naturale che un corpo in quelle condizioni non fosse completamente dilaniato. Le restanti porzioni di pelle avevano un colorito bluastro, che con i bagliori gettati dal fuoco si contaminava di pennellate arancioni.

In quell'istante, solo in quell'istante, a Tristan sembrò che in realtà quell'uomo fosse vivo. Forse era come lui, ridotto in uno stato di immobilità ma capace di percepire tutto?

«Mi è impossibile comprendere il nesso che c'è tra la creatura che compare nelle mie visioni e la mia realtà...» John Hamilton gli interruppe i pensieri con la sua voce scura. «So solo che mi ha designato, è me che vuole adesso. Sarah è l'unica che ci può fare da tramite, l'unica a poter capire cosa c'è davvero nell'aldilà.»

«Il suo sapere potrà essere trasmesso?» suo padre era ansioso, ma non per la vita di Sarah. Ansioso di svelare i misteri che la morte portava con sé.

A Tristan venne spontaneo pensare che, per quanto fossero ossessionati dalla morte, in realtà lei li avesse già raggiunti. Li aveva artigliati con le sue dita sporche anche se respiravano ancora. Hamilton sospirò. «L'unico modo per scoprirlo è far sì che entri in contatto con Lui.»

George Lennox sollevò un sopracciglio, squadrandolo con i suoi occhi marrone bruciato. «Qual è lo scopo reale della vostra ricerca, signor Hamilton? Perché questa ossessione per la vita, la morte, la caducità tf4rdelle cose terrene?» Un sorriso sottile comparve sul volto del signor Hamilton. «Lo scopo è il controllo. Se controlleremo ciò che sfugge alle capacità umane, niente sarà mai in grado di far sentire minacciato l'essere umano.» Tristan dovette trattenersi per non ansimare in modo violento. I respiri si strozzavano nella sua gola e non sapeva nemmeno come facessero a morire da soli in uno spazio così ristretto.

La sua attenzione si spostò di nuovo su Sarah. Era rimasta in piedi tutto il tempo, immobile. Il volto contratto in un'espressione di vuota follia, i capelli sciolti come nubi temporalesche.

Stava vicino al cadavere steso a terra – al ciocco di legno fatto di carne e sangue che giace dimenticato – guardandolo adorante dall'alto.

Si abbassò,

denti stretti denti stretti denti stretti

e affondò le labbra nel collo del cadavere. In un primo momento fu una carezza delicata, il tocco di una falena che si posa piano sbattendo le ali. Gli occhi chiusi. L'espressione rilassata. Tristan cominciò a sentire l'odore di putrefazione; si chiese come facesse Sarah a stare col naso così vicino a un corpo che stava marcendo. Pensò al riflesso inconscio che possiede qualunque essere umano di fronte a qualcosa che provoca disgusto; al modo in cui le labbra si arricciano e il volto si accartoccia in un'espressione turbata. Reazioni che in Sarah erano completamente assenti. Indugiò per troppo tempo con quelle labbra morbide sulla pelle del cadavere, che nel mentre si stava riempiendo di mosche. Tristan si scoprì inerte mentre guardava, nel suo cervello quella fotografia in bianco e nero aveva cominciato a scricchiolare.

Poi un suono gli si riversò nuovo nelle orecchie, restandoci incastrato per sempre.

Sarah aveva morso il cadavere pieno di mosche. Lo aveva fatto con gusto, affondando i denti nella carne molle. Aveva percepito ogni singolo momento, sentito nelle orecchie la pelle che si sfaldava e poi diventava carne viva e poi muscolo e poi più niente. L'odore era insopportabile, il rumore della masticazione gli fece avvertire il bruciante impulso di vomitare.

Chiuse gli occhi.

«Di Tristan e gli altri che cosa facciamo?» la voce di suo padre interruppe ciò che stava facendo Sarah e sembrò come quando le unghie vengono passate su un vetro.

«Non ricorderanno di essere stati qui.»

Quelle parole vibrarono nel petto di Tristan. Da quanto premeditavano di farlo? Per quanto tempo avevano progettato quella serata, in modo che tutto andasse come previsto?

Fu allora che notò un particolare che gli gelò il sangue. Il petto di Sarah aveva qualcosa che non andava. Non l'aveva guardata bene, prima. Era stato troppo concentrato sul fatto che avesse mangiato un cadavere.

Ora quel particolare risaltava: si era alzata, la luce delle fiamme che si agitavano nel camino si riverberava su una cicatrice sul suo petto da ragazza giovane. Era cucita malamente, la faceva sembrare una bambola squarciata da un bambino sadico. Un nastro di filo rosso chiudeva quella ferita enorme – cosa sarebbe successo se qualcuno avesse tirato l'estremità del filo?

Tristan avvertì le palpebre farsi pesanti.



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