IX.
1900
La centrale aveva l'odore stantio della paura, adesso. L'uomo che era entrato nel suo ufficio gli sedeva davanti, un giaccone beige a stringergli il corpo massiccio e un cappello a coprirne i capelli rossi. Il volto consumato, la pelle coperta da un sottile velo di sudore. Tremava ancora, gli occhi sporgenti per lo shock. Horace avvertiva le vibrazioni del suo stato d'animo solo a guardarlo, percepiva il terrore cieco che lo pervadeva solo restando a pochi centimetri di distanza. Non fu sicuro di voler sentire ciò che aveva da raccontare.
«Buongiorno, signor Elmstone» la voce sottile. «Sono Jasper McKinnen. Gestisco l'hotel "Il Giardino", a circa mezz'ora di carrozza da qui. Situato a ridosso del bosco che circonda questa città, da anni vanta numerosi clienti. Un hotel che è sempre stato sicuro.» e quel modo di declinare la voce, come fosse un equilibrista su un filo troppo fine, penetrò nel cervello di Horace in modo lento e doloroso. «Fino a ieri sera» concluse McKinnen. I ciuffi rossicci erano bagnati di sudore freddo, che gli aveva stretto la testa nel suo abbraccio umido. Il cuore di Horace prese a battere forsennato, senza che ne sapesse il vero motivo. Era abituato alle brutture di cui l'essere umano era capace; niente, di ciò che avrebbe detto quell'uomo, lo avrebbe sconvolto.
«Cosa è accaduto ieri sera?» chiese, la voce ferma.
«Vedete, non è semplice da spiegare» dicevano tutti così, quando riportavano un evento criminoso che aveva sconvolto le loro vite. «Forse perché va oltre l'umana comprensione» le parole tremavano, non avevano più una consistenza nella bocca di McKinnen. «I miei clienti si sono destati nel cuore della notte. L'hotel è diventato, in breve tempo, un formicaio impazzito. Dicevano di aver visto qualcosa, nel bosco.»
Fece una pausa. Sembrava che quei piccoli frammenti di racconto lo avessero prosciugato.
«Ho pensato a un animale. Nel bosco può capitare. Un cliente era uscito a fumare, nonostante le mie raccomandazioni. È tornato dentro quasi subito, pallido di terrore, senza riuscire ad articolare un discorso. Muoveva le labbra, ma non ne usciva alcun suono. Gli occhi erano vuoti. Qualunque cosa avesse visto, lo aveva spaventato al punto da perdere la capacità di parlare. Così ho acceso una torcia, e sono uscito a controllare.»
Prese un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni sdruciti, si tolse il cappello, si passò il fazzoletto di stoffa sulla testa. Sospirò. Le labbra presero a tremargli. Chiuse gli occhi un istante, restò immobile come una statua di gesso su quella sedia piccola. Horace chiuse una mano a pugno, avvertendo pochi istanti dopo il lieve pizzicore delle unghie che si conficcavano nella carne. Qualcosa, in quell'uomo, gli provocava disagio. Una sensazione che lo stritolava con violenza torcendogli le viscere. Forse era la pelle grassa, unta di quel leggero sudore provocato dall'ansia. Forse erano gli occhi vuoti, puntati in uno scenario del passato che lo aveva cambiato per sempre, le labbra screpolate, le mani con le nocche arrossate.
«Che cosa avete visto?»
«Dapprima, niente» McKinnen si schiarì la voce, prima di proseguire. «C'era silenzio, solo i rumori del bosco lo interrompevano. Ho mosso qualche passo fuori dal cancello dell'hotel, guardandomi intorno. Ed è stato allora che ho visto.»
Si interruppe. «Ho visto il cadavere di una donna, nel fossato vicino all'hotel. Ero sicuro che non ci fosse, fino a qualche ora prima, e non ho nemmeno sentito rumori di lotta o delle urla. Come se quella giovane fosse stata uccisa nel silenzio più sordo che io avessi mai sentito. Conosco chi frequenta la zona, e mai erano accaduti episodi del genere. Il Giardino è un posto tranquillo» adesso era sull'orlo delle lacrime, gli occhi lucidi sembravano più grandi.
«Ma non era neanche questo l'aspetto peggiore.» man mano che andava avanti a raccontare, McKinnen prendeva sempre più le sembianze di uno spettro. La pelle gli si era fatta grigia, le mani avevano cominciato a traballare in un tremolio leggero ma costante. «Il corpo era dilaniato da qualcosa. Mi è difficile descriverlo.»
Un brivido lo scosse.
«Il petto era cavo.»
Horace non fu sicuro di aver sentito bene. «Cavo?» ripeté.
«Sì, signore. Squarciato. Un buco, all'altezza del cuore, rendeva la donna sfigurata. Il volto era rimasto intatto. Forse è stato proprio quel particolare a rendere il tutto ancora più terribile; il fatto che potessi dare un volto a quell'orrore, vedere il corpo di una giovane così bella completamente deturpato.» Era in lacrime, adesso, la voce rotta. «Avrebbe potuto essere mia figlia» si accartocciò sulla sedia, impotente, schiacciato dal peso di quella visione che gli pungolava il cervello.
«Scusatemi» singhiozzò, portandosi la mano agli occhi. Se li stropicciò, come per far ingoiare le lacrime alle sclere lucide di angoscia.
«Non preoccupatevi» disse Horace, a voce bassa. «Avevate mai visto questa ragazza?»
«No, signore» si affrettò a rispondere McKinnen. «Non l'ho mai vista da nessuna parte. Aveva dei capelli lunghissimi, l'incarnato chiaro. Non credo nemmeno di averla registrata nell'hotel.»
«Non avete idea di chi possa averla uccisa, dunque.»
«Non certo uno dei miei clienti». McKinnen sembrò pronunciare quella frase più per convincersene che per altro. «Li conosco tutti. Non farebbero del male a nessuno.»
Horace ne dubitò, ma evitò di dirlo ad alta voce.
«A ogni modo» il volto di McKinnen si adombrò all'improvviso. Sembrò come se ci fosse passato sopra un fantasma. «C'è anche un altro dettaglio che non dimenticherò mai.»
Un brivido attraversò Horace come una lama gelida. Lo avvertì alla base della nuca e poi serpeggiare tra le vertebre implacabile.
«Quale, signor McKinnen?»
«La ragazza respirava.»
«Perdonatemi» Horace si umettò le labbra. «Credo di non aver compreso.»
«Respirava, vi dico.»
«Avete appena detto che era morta» lo disse come si pronuncia una frase in preda alla stizza, indurendo il tono della voce. Non seppe nemmeno lui perché lo avesse fatto, il cuore che batteva forsennato nella cassa toracica.
«Lo era, infatti. Ma il petto si alzava e si abbassava ritmicamente, come se stesse respirando.»
«Questo non è possibile» disse Horace, puntando gli occhi in quelli di McKinnen. Cercò, nelle iridi dell'uomo che gli stava davanti, il barlume malsano della follia. Poteva essere lui l'assassino di quella ragazza. Poteva essere venuto in centrale a raccontare una storia non vera, in modo tale da immetterlo in una pista che avrebbe poi scoperto essere falsa quando sarebbe stato troppo tardi. Horace cercò di ponderare bene la frase successiva.
«Se volete possiamo discuterne domani. Potete tornare in centrale per le undici. Forse adesso è meglio se vi riposate.»
«Non sono pazzo» e quella voce era veleno corrosivo. «So cosa ho visto» gli occhi si allargarono, risucchiandolo nel loro vuoto. «Sapevo che non mi avreste creduto, ma quella ragazza respirava.»
«I morti non respirano» la rabbia abitava la sua voce bassa, ora, si era cosparsa di venature di fuoco. Si ricompose, chiuse una mano a pugno sotto la scrivania. Il pulviscolo di polvere cadeva leggero sulla faccia sudata di McKinnen, che continuava a fissarlo con i suoi occhi pallidi. Le sopracciglia abbassate su quei bulbi ciechi, abitati solo dalla rabbia e da qualcosa che non sapeva definire. I due uomini restarono in silenzio per un tempo che sembrò infinito.
«Posso andare?» e ancora quelle ombre sulla voce di McKinnen, aspra, torbida come acqua salmastra.
«Sì», si limitò a dire.
L'uomo si alzò, raggiungendo la porta del suo ufficio a lunghe falcate; si era trasformato, aveva le sembianze di una persona diversa da quella che era entrata.
Horace lasciò andare un sospiro quando si rese conto che era uscito dalla centrale.
*
McKinnen non stava bene. Il suo atteggiamento era cambiato, man mano che la loro conversazione era andata avanti. Si era tinto di qualcosa che Horace non avrebbe saputo definire, e lo aveva lasciato in un vortice di dubbi. Era impossibile costruire un'indagine sulla base delle storie di una persona che non stava bene, non avrebbe portato da nessuna parte. McKinnen era sembrato un potenziale aiuto, all'inizio, e poi era diventato un potenziale colpevole. Non aveva nemmeno l'identità della ragazza.
«Signor Blackwood» il medico legale stava facendo un'incisione a Y sul corpo della giovane, quando iniziò la frase. Il corpo era stato portato nell'edificio, e ora le pareti del seminterrato stavano vedendo l'autopsia di quella che, una volta, era stata una bellissima donna. Horace si trattenne dal voltare lo sguardo dall'altra parte: McKinnen aveva ragione, il petto era cavo. Non vi era traccia del cuore, era stato strappato. Blackwood non aveva nemmeno tirato fuori il barattolo dove inseriva gli organi, era visibile sin da subito che non sarebbe servito. L'odore che si respirava nell'aria non se lo sarebbe mai dimenticato. Lo avvolgeva come una pellicola umida, non lo avrebbe più lasciato per diverse ore. L'odore della morte non ti lascia mai, una volta che ti ha toccato con le sue mani grigie.
Il cadavere era cavo, aveva detto McKinnen. Ma Horace capì che non bastava descriverlo in quel modo per rendere appieno l'idea. Il buco che troneggiava sul petto di quella ragazza non era normale, sembrava più che gigantesche mani artigliate le avessero strappato pelle e organi. Mani che non potevano essere umane ma nemmeno animali.
«Sì, ispettore?» Blackwood non alzò lo sguardo dal corpo nemmeno per un istante, mentre rispondeva. Frantumò le costole servendosi della sua pinza, con scatti secchi. Il rumore delle ossa spezzate riecheggiò in ogni angolo del seminterrato. Il volto della ragazza senza identità sussultava inanimato a ogni movimento. Cereo, un manichino inespressivo.
«Cosa ne pensate di McKinnen? Credete possa essere coinvolto nell'uccisione di questa ragazza?»
«Da un lato è la pista più ovvia» Blackwood estrasse le costole a una a una, deponendole da parte. L'odore ferroso del sangue misto a quello della carne in decomposizione appestò l'aria. «Dall'altro, forse c'è di più. Potrebbe avere un complice, e avere il compito di coprirlo. Altrimenti perché presentarsi spontaneamente qui?»
Horace restò in silenzio, soffermandosi sulle parole di Blackwood. Non era comunque un punto di partenza solido. «Allo stato attuale, il colpevole potrebbe essere chiunque. Forse lo stesso McKinnen. A un certo punto ha detto che il corpo respirava.»
«Avete detto che era il proprietario di un hotel, giusto?»
«Sì. L'hotel si chiama "Il Giardino". È fuori città, sul limitare del bosco.»
«Vicino alla clinica di Nightingale, dunque» la voce di Blackwood era neutra. «Non credete che McKinnen possa essere un paziente fuggito dalla clinica? Non si sa niente di lui» esaminò alcune ferite fatte di carne in necrosi. Le braccia della ragazza erano livide e coperte di graffi, striature violacee che facevano della sua pelle candida la tela di un artista col gusto dell'orrido. In alcuni punti erano di un borgogna scuro, in altri il blu dei lividi faceva da sfondo a patine giallastre e graffi rossi. Ancora freschi, in parte. «In più, ha affermato di aver visto eventi che non possono essere realmente accaduti. I cadaveri non respirano» lo disse con la sua voce monocorde, mentre esaminava ogni ferita. Guardò gli occhi vacui della ragazza, su cui era già scesa una patina lattiginosa. «Forse è necessario che voi facciate un sopralluogo presso la clinica. Potrebbe esservi utile, dopotutto.»
«Sì», disse solo l'ispettore.
Non aggiunse altro. Il volto terreo di McKinnen gli aveva tolto ogni parola.
Voce fuori campo:
Eccoci al nono capitolo! Spero che la storia vi stia piacendo, ho delle idee un po' strane per questo progetto e, addentrandomi nella revisione, sta risultando molto complesso da gestire, per cui ci tengo particolarmente a far quadrare tutto.
Al prossimo capitolo!
Sara
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