Padrone o servo?

Una notte, in cui la nebbia offuscava la luce delle stelle turbando la quiete del luogo, mi ritrovai a percorrere in tutta solitudine l'oscura valle della vita, tra resti di ossa e cadaveri.
Lì, lungo rive del fiume del sangue e delle lacrime, il cui fluire è come lo strisciare del serpente velenoso, la cui andatura è simile ai sogni dei criminali, mi fermai, con lo sguardo perso nel vuoto, ad ascoltare gli spiriti mormorare.

Kahlil Gibran - incipit de "Le Tempeste"

A Spoleto, percorsi una quarantina di chilometri, gli viene la febbre.

Francesco si lascia cadere di schianto sul letto. Per miracolo non è collassato da cavallo, scottante come un calderone in ebollizione. Il suo scudiero ha affittato una camera a un buon prezzo in una locanda a ridosso delle mura.

«Sembri proprio stravolto.» commenta il ragazzo, refrigerandogli la fronte con pezzuole gocciolanti. «Eppure la cavalcata non è stata lunga.»

«No.» gracchia l'altro, labbra screpolate e palato appiccicoso di saliva.

La sua salute ha sempre costituito una fonte di inquietudini e angosce per i suoi genitori. In stridente contraltare con Angelo, indenne da malanni, stagionali o cronici, compensante in salute il carisma effervescente che il fato ha riversato sul fratello maggiore, come a risarcimento dell'immunità fisica difettosa. Il suo primo briciolo di memoria consiste in sua madre che lo assilla di coprirsi, di ripararsi, di non uscire di casa senza una casacca, un mantello o consimili.

«Probabilmente sono state le emozioni intense di oggi.» pondera lo scudiero, imbevendo una pezza nella bacinella collocata ai piedi del letto.

«Sì.» Francesco n'è convinto a malapena quanto lui. «Probabilmente.»

«Devo mandarti del vino padroncino? Chiamare una ragazza o-»

Francesco corruga la fronte. Misero come si ritrova lo reputa seriamente abbastanza in forze da potersi concedere una distrazione?

«Una dormita mi rimetterà in sesto.» Si rannicchia, seppellendosi sotto le coltri, la fronte imperlata di sudore. La presenza del ragazzo sta risultando ingombrante. Lo scaccia con un gesto della mano. «Lasciami solo.»

«Certo padroncino.» Quello non si fa pregare. Una dispensa dalle sue mansioni al primo giorno di servizio, quale opportunità! «Buonanotte.»

«Buonanotte...» borbotta Francesco, infastidito dal suo servilismo.

Un tonfo alla porta e un avvicendarsi di passi lo inducono a pensare che il ragazzo si sia catapultato giù, nella sala comune, a godersi la serata libera. Contento lui.

Francesco, dal canto suo, si sente così debole e fiacco da essere sicuro di non riuscire a sollevare un mignolo. Boccheggia affannato, lo sguardo vagante sul soffitto sorretto da travi. Il sudore lo inchioda al letto, la testa è un incudine percossa da martellate persistenti. Ma dove se l'è buscato un malanno simile?

Stamattina era la quintessenza della salute! È stato solo con l'avvento del crepuscolo, il suo ventaglio ambrato guerreggiante contro la notte vellutata e trapunta di stelle, che ha cominciato ad accusare questa... spossatezza...

Si rivolta nel letto, il materasso scricchiolante, cacciando la testa sotto il cuscino, le tempie pulsanti. Vano. Francesco sguazza in una pozza di sudore, un inferno soffiante sotto la pelle, gonfiante il mantice del dolore, delle emicranie inclementi dentro le orbite. Trascina a fatica gli occhi sulla corazza accatastata al lato opposto della stanza. Approderà mai vivo nelle Puglie?

L'aria stessa è calda, pesante, impregnata e scoppiettante di febbre.

Il sonno lo travolge, infine, stremato.


Sogna e, nel sogno, qualcuno lo chiama.

In principio è poco più di un flebile sussurro, lontano come il mormorio turbolento d'un ruscello o il cianciare allegro d'un passerotto. Cantano. Chi canta?

Passeggia in un giardino fiorito, una lussureggiante oasi costellata di gigli verginali, iris coronati, teneri bucaneve, girasoli radiati. Non ha mai contemplato un'abbondanza così rigogliosa, in armonia, ognuno a suo agio con il vicino in una profusione di colori e fragranze. Passa sotto un pergolato di rose tumide, carnose e scarlatte, invitanti baci di dama trasfigurati in vegetali.

Sorge un maniero in fondo al giardino. Un imponente, monumentale castello merlato. Il ponte levatoio è abbassato. All'interno, Francesco rimane ammutolito dall'arsenale tappezzante le pareti. Lance, spade, panoplie, rastrelliere gremite, elmi e una teoria di scudi crociati sovrapposta sui cornicioni, riflesso di quell'abitudine, radicata nei palazzi dei potenti, di esporre i propri blasoni, sfoggiandoli davanti agli ospiti.

Un esercito di cavalieri accorre, si prostra ai suoi piedi.

È il loro capo? Colonnello? Capitano? Raggiante, Francesco non può crederci: se questo sogno si rivela un presagio, significa che in futuro verrà promosso, avanzando di grado, conquistando gli onori a cui tanto ambisce!

I pavimenti del castello brillano, intarsiati di marmi. Fiotti di luce penetrano dalle finestre arcuate, inondando il salone, riflettendosi sugli scudi crociati, sulle punte fissate sulla sommità delle aste, sulle lame affilate delle spade.

Il canto s'intensifica e una porta in disparte si spalanca.

È una donna a cantare.

Una fanciulla dai lineamenti aggraziati. Lunghi e rigogliosi capelli castani le incorniciano il viso. La luminosità del suo incarnato, della sua bellezza, viene però offuscata dal lurido sacco rattoppato, sfilacciato e logoro, che indossa, coprendole le membra proporzionate. Proporzione dentro la sproporzione. Che paradosso. Francesco aguzza la vista e scorge fango a insudiciarle i piedi, mezzelune nere di terra e lerciume incarnate nelle unghie. Le mani candide e flessuose sono ossute, butterate di croste, testimonianti una vita di stenti e privazioni.

Una donna bellissima ricoperta da quei quattro scampoli...

Francesco sente il cuore sobbalzare in capriole, frenetico, impazzito. È cotto. Non di febbre, no, no. È questa confusione che si prova a innamorarsi dunque, celebrata e cantata dai menestrelli e trovatori.

Una Voce tuona, riecheggiando nella sala. Da dove proviene? Di chi si tratta?

«Questo sarà tutto tuo.»

Suo?

Le armate di cavalieri e la fanciulla accattona? Improvvisamente si tramuta in una principessa regale, abbigliata in sontuose vesti, adorna di gioielli. Gemme scintillanti le cingono la fronte in un diadema arcobaleno. I cenci diventano un manto di porpora bordato d'ermellino, i capelli acconciati in trecce intricate.

La prenderà in sposa. Francesco n'è sicuro, dannatamente sicuro. Sposerà questa donna stupefacente, chiunque essa sia. Un'ereditiera, una principessa, una ricca vedova con un cospicuo patrimonio. Comanderà eserciti, condurrà uomini valorosi al trionfo. Il suo nome entrerà nella leggenda e verrà narrato nei secoli.

Quale brillante destino!




Fluttua nel dormiveglia, sbarrando di colpo le palpebre, trafiggendo il soffito. Sveglio, sveglio e febbricitante nell'oscurità immanente, sospesa.

Un'oscurità in trepidante attesa, abitata da qualcuno.

Non è solo nel buio, lo percepisce. E non è un'allucinazione della febbre. Francesco giura di non essere l'unico nella stanza. Sudore gli vela la fronte, sottile e traspirante come un drappo iridescente di rugiada al mattino. Crepe gli tagliuzzano le labbra secche, disidratate. Rivoli gli serpeggiano sui nervi contratti.

C'è qualcuno.

Una presenza che lo opprime, accucciata sopra il suo diaframma, nera e irsuta, ruvida come un cane bagnato. Come un lupo acquattato, il pelo grondante, il respiro debole, tremante.

È la paura.

L'irrigidisce, gli gela il respiro, condensandolo in aliti palpitanti.

Paura della Voce.

«Francesco.» La Voce non è né stridula né profonda, non nasce da un punto specifico. La sua autorevolezza è assoluta. Gli rimbalza dentro il cranio, affondandoci come un chiodo nel legno. «Francesco.» ripete, scandendo il suo nome. «Chi è meglio seguire? Il padrone o il servo?»

«Il padrone...»

«Allora perché lasci il padrone per seguire il servo?!»

Si drizza a sedere, infuocato d'una disperazione mai vissuta prima, paragonabile a nulla, neppure allo sbandamento successivo alla malattia.

La Voce. Nella Voce è custodito l'antidoto al male che lo dilania, che gli si contorce, un ammasso viscido e informe, nei recessi dell'animo. Deve appigliarsi alla Voce, seguirla, ubbidirle, o errerà in eterno nelle tenebre del dubbio.

«Signore, cosa vuoi che io faccia?»

Il sudore lo impiastra, ruscellando in solchi copiosi. Lacrime gli rigano il viso.

È affacciato allo strapiombo della morte?

«Ritorna ad Assisi, dal padre tuo.» replica la Voce. «Là io ti dirò qual'è la tua strada

Scompare, lasciando un abbandono, un vuoto spaventoso, cratere nel cuore, scolorendo le cose del loro senso, della loro meraviglia.

Francesco resta solo, minuscolo e smarrito, sprofondato in una tenebra senza fine.

Trascorre la rimanenza della notte insonne, avvinto da quella tristezza indescrivibile, assurda, una morte interiore, un gorgo sanguinante. Verso l'incipriarsi tenue e rosato dell'alba gli riesce di chiudere occhio, sopraffatto dalla stanchezza.

Zaffiri infestano i suoi sogni. Ciocche dorate, imprigionanti il fulgore delle stelle e un boccolo di sole. Un viso balena, si disintegra in un turbine di farfalle, si ricompone e frammenta sulle increspature turchesi d'una fonte limpidissima, cristallina.

Francesco protende una mano, si sporge oltre il bordo del letto, ingannato dalla febbre, galleggiante nel torpore indolente.

Sorride alla proprietaria di quella maestosità d'oro.

Ma chi è? Perché non si volta?

Ecco, una torsione, una tensione nelle spalle. Sta per girarsi, si beerà delle sue sembianze, delle sue celestiali apparenze...

Crolla sul cuscino, esausto, l'oblio del sonno l'avvolge.




Al mattino si palesa lo scudiero, sollevato d'appurare che la febbre sia svanita, non altrettando di scoprire un Francesco inerme, pallido, ombre scure calcate dalla nottataccia e sguardo inquietantemente ancorato al soffitto.

«Sveglia padroncino.» lo riscuote. «È ora d'alzarsi. Desideri che ti porti la colazione? Morsicare un boccone o due t'aiuterà, vedrai.»

Francesco non risponde.

Il ragazzo gli palpa la fronte. «Sei fresco. Continui a sentirti debole?»

«No.»

«Allora levati e cambiati padroncino! Il corteo non attende i pigroni!»

L'altro si solleva con fatica. «Non partirò.»

Lo scudierò è allibito. «C-Come?»

«Non partirò, mi hai sentito bene.» Francesco si stropiccia il viso, il turbamento scolpito dritto nell'espressione, respingendo uno sbadiglio con il palmo. «Me ne torno ad Assisi.» Si leva, stiracchiandosi, frugando tra le bisacce e i borsoni. Dove l'ha infilato? Cuoio grezzo. Eccolo qua. Soffia la polvere e la sabbia dal libriccino rilegato, una minuziosa e vetusta copia del Vangelo redatta in volgare. Maman. Ne inala l'alone di profumo, ripensando a casa. «Prendi pure tutto, a me non serve più.»

E con cosa si proteggerà dalle insidie e dai pericoli? E il destriero? Lo scudiero non si preoccupa del suo sostentamento - il lauto stipendio è già stato anticipato di mesi - ma il suo giovane signore, da solo, allo scoperto, lo terrorizza.

«Ma-» protesta, una protesta caduta nel vuoto.

«Vendi, compra, convertili in quello che più ti aggrada.» dice Francesco, rivestendosi, allacciandosi la giubba. «Hai il mio benestare.»

Scende di sotto, pagando il vitto all'oste, compiendo un salto nelle stalle a separarsi decorosamente dal povero corsiero. Il cielo acceca, terso, sopra Spoleto, un azzurro pari a quell'azzurro misterioso dei suoi tormenti notturni.

S'è tenuto soltanto il volumetto del Vangelo.

Francesco tumula i ripensamenti e le fitte di rimorso. È così che deve andare.

Sta ubbidendo alla Voce.

S'incammina in direzione di Assisi e, lungo il viaggio, legge pagine a caso del libriccino ricordo di Maman.

«Se vuoi essere perfetto va', vendi quello che possiedi e avrai un tesoro nei cieli...»

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