Buio

Ciò che è più amaro, nel dolore di oggi, è il ricordo della gioia di ieri.

Kahlil Gibran - Sabbia e spuma

Papa sorvola sulla sua stramberia mattutina.

Lo accantona come sintomo della guarigione, postumo della febbre, e festeggia con la famiglia la rinnovata salute del suo primogenito. Gli sarà costato un patrimonio di novene alla Santissima Vergine, avranno intasato gli altari di ceri votivi e candele, messe commemorative e suppliche a metà dei santi taumaturghi e i medici d'Assisi gongoleranno sul lauto compenso con cui sono stati retribuiti per i servigi profusi - benché Papa, in privato, li tacci di inettitudine, imprecando su loro e i loro rimedi e le prescrizioni da strapazzo e prezzi salati - ma, alla fine della fiera, Francesco è rimontato sulle sue gambe.

Questo conta. Pietro di Bernardone non esita a far sì che il suo figliolo si reinserisca nell'ambiente, lavorativo, cittadino e oltre. Voltiamo pagina! Perugia è un capitolo chiuso, tetro, certo, ma il sole brilla, Dio gira la ruota dei giorni, conta sull'abaco dei secoli e i forzieri di famiglia non si riempiono da soli!

C'è tanto da fare giù in bottega! Traffici, ordini, liste, carichi, vendite. Controllare, garantire, autentificare. E contare, contare, contare.

Le entrate, le uscite, gli addebiti, le spese, gli sperperi dei suoi ragazzi. Gli invidiosi lo accusano di taccagneria e Pietro concede che il tintinnio dell'oro sia un suono celestiale e, con pragmatismo e una buona dose di concretezza, sa che è vitale ammucchiarne un gruzzolo da parte, eredità e lascito in futuro ai suoi eredi.

Con le nottate brave di Francesco e Angelo, però, si dimostra tollerante, munifico, comprensivo, chiude più d'un occhio. Pica si macera d'angoscia invano. Sono giovani, ardimentosi. Alla loro età è la norma bazzicare in taverna fino a tardi, a far bisboccia, cantando ubriachi fradici per strada e corteggiar procaci donzelle. La notte è corta, la giovinezza pure. Che dissipino volentieri, godendone.

Pochi sono così fortunati.

Le nottate goderecce. Appunto, la nota dolente.

Francesco si è costruito una reputazione di giovane principe, Re della Gioventù, Rex Iuventutis. Organizzatore magistrale, insuperabile, di squisiti banchetti, magnifici convivi. Vino a fiumi, borselli dilapidati. Donne focose, in abiti succinti e vesti attillate. Uno scavezzacollo, irruento, spavaldo, vanitoso. Insomma, un attaccabrighe. Prima della guerra non avrebbe giudicato nulla più appagante d'una caraffa di vino e una laida ragazza a lasciarsi palpeggiare in grembo, ma da quando è tornato...

Angelo indice la sua prima festa. Un benvenuto e ringraziamento per la sua pronta guarigione, lo informa a cena, una sera, tutti raccolti intorno al tavolo.

«Vedrai fratello.» Maman ha ordinato al cuoco di preparare il pasticcio di gamberi, uno dei suoi piatti preferiti. Di solito Francesco lo sbafferebbe in pochi, rapidi, morsi. Stasera ne spilucca magri bocconi, lo stomaco occluso. «Sarà proprio quello che ti serve per rientrare in circolo. Una festa coi fiocchi, di quelle grandiose d'una volta, prima che scoppiasse la guerra. Rimembri? Vino pregiato, brindisi, le partite a dadi e le sortite in strada a spaccare il muso a quei bifolchi della contrada San Rufino, sberle, pugni e scazzottate che ne portano ancora i segni!»

Papa ammicca complice. «Vedete di non procurarmi cattiva pubblicità...»

«No, Papa, non sia mai. Moriremmo piuttosto che causarti un dispiacere, lo sai, ma a quegli zotici serviva una bella lezione! Hanno continuato a deriderci per mesi, aspettandoci all'uscita della taverna.» Angelo mastica il suo boccone, trascinato dalla narrazione. «Stavolta non ci ficcheranno i bastoni tra le ruote. Inviterò tutti i nostri amici e mangeremo solo le vivande migliori! Francesco.» È chiamato in causa, sussulta lievemente. «Riavrai il tuo primato! Non tralascerò nulla. Vino, cibo, musicanti, una ritemprante, salutare sco-»

«Ange!» lo riprende previdente Maman, intuendo dove volesse andare a parare.

«Sco... rpacciata Maman.» abbellisce immantinente, prima di cascare in una figuraccia epocale. Il vino a momenti va di traverso a Francesco. Papa tenta di occultare il suo ghigno, cacciandosi in bocca quanto più pasticcio possibile. «Una ritemprante, salutare e innocente scorpacciata di...»

Punzecchia Francesco, una gomitata e una richiesta d'aiuto.

«Di? Una mano.»

«Di... cappone arrosto Maman!» Spara la prima baggianata che gli ronza per la testa.

«Un chapon?» Inarca un sopracciglio, dubbiosa, Pica.

«Oui! Avec un gâteu aux amandes! François adore les amandes! Tu as déja oubliè?»

«Ils sont mes préférés Maman!» Si presta al gioco.

«Pardonne moi mes enfants.» Pica si sbriga a rimediare. «Cette periode...»

Francesco tende la mano, stringendola sostenitore. «Compréhensible Maman

Papa detesta sentirsi escluso dai loro dibattiti e conversazioni, traducendo sì e no mozziconi di vocaboli. Li fissa inebetito e offeso.

«Potete parlare cristiano, porco giuda?» rimbrotta. «Non ci sto capendo una mazza di quello che dite!»

E qua risorge il vecchio, goliardico scherzo. Non muore mai. Francesco, forse per la prima volta dalla gita sui tetti, sorride monello.

«Se cercavi una moglie che comunicasse nella tua lingua dovevi sposarti con la figlia di un macellaio, mon cher Papa

Angelo esplode a ridere, sganasciandosi sulla sedia. Papa rotea gli occhi, la battuta ormai è storica, stantia, e, francamente, n'è saturo fin sopra i capelli. Maman applaude all'arguzia del suo primogenito, spiccandogli un bacio sulla gota.

«La so a memoria ragazzo mio...»

«Te l'ho rinfrescata!»

Angelo ce la mette tutta per rinfrancargli lo spirito e Francesco apprezza i suoi tentativi. Veramente, glien'è grato. La vicinanza di qualcuno lo rassicura.

Però...

Persiste, ostinato, il però.

Però si sente stanco, invecchiato dentro. D'una stanchezza che gli intacca i muscoli, nervi, ossa, pelle. S'irradia, contagiosa. Un uragano penetrato nel suo animo, spazzando via tutto quello che c'era prima. L'orgoglio, l'altezzosità, l'alterigia. Tutto dissolto come un drappo di rugiada all'alba. Come se non fosse mai guarito appieno e il fantasma di quella malattia se lo trascini appresso, appassendo i boccioli di gioia, facendo avvizzire e scolorire ciò che prima adorava, risucchiandogli l'allegria.

Uno squarcio. Una voragine nel cuore.

Contempla i guizzi e i volteggi delle allodole, spensierate nell'etere azzurro, e il cuore gli si intride d'amarezza, gelosia.

Quanto invidia la loro libertà!

Le catene di Perugia non si sono mai infrante, pensa. Le hanno rimodellate, forgiate in materiale invisibile, ma indistruttibile. Lo incatenano a terra, basso, ingobbito sotto questo macigno ignoto, pesantissimo, cavandogli l'aria.

La morte dell'anima. Arida, sgonfiata.

È... è stata la prigionia a ridurlo così?

Sosta molto nel modesto, rigoglioso giardinetto di Maman, sospeso in un cantuccio tra le mura delle case. Le rose, turgide, carnose spirali, labbra bacianti l'aria. I gigli, steli ritti, solenni, vessilli di verginità e purezza screziati di lentiggini. Gli iris, con la loro corona tripartita, un velo d'oro sui calici purpurei, tuffante a picco in un abisso d'ametista. I narcisi, alfieri vanitosi, strombettanti il canto del sole. I fiori spontanei, selvatici, che germogliano un po' ovunque. Le primule, gorghi su uno scudo esile, minuto, indifeso. I papaveri, i fiordalisi, le viole mammole, lo spigo ramingo.

Frusciano in un linguaggio segreto, i fiori. Le api si industriano, indaffarate, profanandoli, un ronzio sommesso. In che lingua parlano le api, i fiori e gli uccelli danzanti nelle chiome frondose?

Come mai si pone domande così insolite? E perché sembrano rivestire più rilevanza - una rilevanza nuova, profonda, esistenziale - rispetto ad altre, più razionali. Razionalità, razionalità... ma la natura non è seguace della razionalità. Non pare a Francesco. Custodisce un segreto, una musica. Dov'è la chiave?

Assisi è un labirinto di vicoli e archi.

Una sinfonia d'archi e frescura, nei suoi meandri ombrosi, nelle sue viscere di pietra e natura e antichità. Respiri i pagani, la poesia di Properzio. Viuzze riposanti, scale, gradini, incroci serpeggianti, ingarbugliati. Francesco si perde, li esplora.

Muraglie e volte, grigie: grigio perla, grigio argento, grigio plumbeo, grigio lapillo. Una fusione di grigi dolce agli occhi come il velluto alle dita. Grigio sposato al rosa in un connubio perfetto, armonico. Rosa antico, rosa ambrato, rosa corallo allo sfolgorio incendiario del tramonto. Il rosa madreperlaceo li scalza tutti, perenne.

Archi, archi onnipresenti.

L'uno entra nell'altro con la più snella naturalezza del mondo, senza che una regola architettonica ve lo costringa. Tutte le forme. Tutti gli stili. A sesto acuto. A mezzo sesto. A gáveta. A botte. A schiena d'asino col classico profilo del basto. Ogni adattamento si declina. A riparare un balconcino zampillante di gerani sanguigni. Accarezzante un tubo di grondaia. Sfiorante una gargolla sporgente. A difesa d'una rampa di scale esterna. E poi, così, senza ragione, per puro lusso estetico, per delizia degli occhi: alti, bassi, storti, mozzi, duri e scarni, pieni e voluttuosi.

Assisi, dove le fontane gorgogliano nella solitudine delle sue piazze, dove ogni incrocio è eremo e pervaso d'una luce calda, avvolgente, vellutata. Dove i tramonti divampano con violenza e ferocia, colando oro fuso e nembi evanescenti di topazio e granati, che sembrano emersi dal fiato incandescente d'un drago.

L'oro del sole, l'oro liquefatto dell'imbrunire, l'impallidire dell'aurora, non sono comparabili all'oro delle monete, dei forzieri. Quelli non sono che echi opachi.

Aveva mai ammirato un tramonto prima d'ora Francesco? Con il cuore, intende, con gli occhi ci riescono tutti. Questo cuore sanguinante, contratto in un dolore sordo, lacerante, una prigionia silente, una... una sensazione dormiente.

Assisi, deserta e riarsa dal bacio del sole. Dolcemente incastonata sul versante del Subasio boscoso, ripido, una salita già racchiusa nel nome. Assisi. Ascesi. Ascesi verso cosa? Chi? La domanda rimbalza dentro Francesco e si chiede se ascendere a quel qualcosa nasconda la risposta ai suoi divoranti dilemmi.

Dai muretti delle case pendono glicini e rampicanti, arazzi d'edera e merlature di gerani. Sulle strade si affacciano alberi, un fresco verde, ricco d'un bisbiglio d'uccelli e vita. Un senso di pace inviolata, di ristoro, gravita nei vicoli intrecciati.

Ovunque, tranne che nel cuore di Francesco.

«Su con la vita fratello!» lo sprona Angelo, in taverna, a gozzovigliare in compagnia della comitiva di amici. L'ha notato, estraniato in se stesso al tavolo, mentre i loro compari si abbandonano alla pazza gioia. Gli versa da bere, allungandogli una coppa. «Quella tua aria pensierosa ti fa assomigliare a un filosofo.»

Francesco non beve. Il vino, scuro, violaceo, riflette i barlumi delle candele.

«Non mi sento in vena di divertirmi fratellino.»

Respinge l'offerta, ignorando il suo amico Bernardo di Quintavalle che, assieme a Pietro Cattani, placa l'arsura dei lombi intrattenendosi con una refrigerante, matronale cameriera intronata sulle ginocchia, le sottane e i fronzoli sollevati per la cavalcata. Francesco distoglie lo sguardo, preoccupato della repulsione suscitata da una simile sconceria. Fino a poco fa, sommariamente, non si sarebbe sconvolto.

Ma cosa gli prende?!

«Ne hai bisogno.» Angelo ruba un posto sulla panca prospiciente, fronteggiandolo. «Sei più grigio del nostro signor notaio qui presente.»

Elia Buonbarone, erede d'un impresa nella fabbricazione di materassi nonché, grazie a una sudata carriera universitaria a Bologna, notaio di recente nomina, alza lo sguardo dal suo libro, squadrando stizzito Angelo.

«Io almeno mi prodigo in un'opera pia!» sibila, fessurando gli occhi.

Insegnare ai bambini d'Assisi a leggere il Salterio ha un suo rilievo.

«Certo egregio signor notaio dei nostri stivali.» lo rimbecca Angelo, riprendendo a focalizzarsi sul fratello, non prima d'aver sfoderato una linguaccia a quel brontolone di Elia. «Scrollati di dosso questa malinconia, andiamo! La vita ci sorride, i guadagni sono fruttuosi. Siamo insieme, riuniti, a casa. Cosa puoi desiderare di più?»

Felicità. Quella vera. Negli occhi dei suoi amici, di suo fratello, luccica la felicità, palpita come le fiammelle dei candelabri. Ma è fasulla, irrisoria.

«Ehi ragazzi!» starnazza Silvestro, più grande di loro di sette anni o giù di lì, e già canonico consacrato in San Rufino, dalla cima delle scale. Stringe una prosperosa, discinta fanciulla a sé, violando il voto di castità. «Quale parte gradireste saggiare per prima?» Le svela, gonne spumose, le gambe e altri apparati indecorosi. «La coscia?» Le slaccia il corpetto, estraendo una poppa turgida, rosea. «O il petto?»

Si scompisciano tutti in grasse risate, eccetto Francesco.

«Arrostiscila a puntino!» gli consiglia Angelo.

«Al sangue rimane consistente!» urla Pietro.

«Macchè! Pepata di baci è saporita e appetitosa!» rimpalla Bernardo.

«Quello che preferisci.» Elia sfoglia placido le pagine del suo volume. «Basta che non la fotti sugli scalini. Sai che l'oste è un maniaco del pulito.»

Ma che dicono... che dicono?! È una felicità irrealistica, effimera, non lo colma più come prima, al contrario, accresce il cratere che gli si è aperto dentro. Un paravento per contrastare la paura della morte. La morte giunge in qualsiasi caso, sopravviene sempre. È inutile provare ad arrestarla. Non si può. Si muore come a Perugia.

Si muore nelle carceri.

L'esistenza appare ben misera cosa in raffronto alla morte.

Francesco, improvvisamente, è assalito da un conato. Guarda gli amici, storditi dal vino, intossicati dalle voluttà, dai piaceri mondani, inebriati dalle bellezze e dai vantaggi della gioventù, e s'impadronisce di lui una ripugnanza che mai credeva fosse possibile sperimentare. Li commisera.

L'aria gli manca, il fracasso s'ingigantisce in un brusio confuso, gli trafigge le tempie.

Francesco scappa all'esterno prima che possa sentirsi male.

Sbagliano, là dentro sbagliano! Dov'è la felicità? Dove alberga? Manca! Non c'è, non la rivede più. C-Come riusciva a gioire di... di quello?

Che diavolo gli sta succedendo?! Chi l'ha maledetto a sentirsi così?!

Ha cercato di vivere nella prodigalità dei cavalieri, nell'idillio magico che Papa gli descriveva, da piccolo, ogni volta che rientrava dai suoi viaggi in Francia, nelle fiere di Champagne e Lione, dove dame bellissime inviano a singolar tenzone i pretendenti giostranti con un pegno della loro fedeltà annodata alla lancia, impattando in tonfi di scudi spezzati e armature ammaccate e cavalieri disarcionati.

Francesco ha cercato di applicare gli insegnamenti di suo padre. L'arte del mercanteggiare, di intavolare compromessi, di scendere a patti.

Per tanti anni ha provato a essere tutto quello che gli è stato chiesto, esigendo, di essere. Per decenni ci ha creduto e si è impegnato al massimo per primeggiare ovunque gli si lasciasse intravedere un balenio di gloria. Ci ha provato a realizzare i suoi sogni infantili, ne ha patito il naufragio e una parte di lui lo esorta a ritentare. Capiterà un'altra occasione, prematuro mollare la spugna adesso. Nulla è perduto.

Ci ha veramente provato.

Perché, però, si sente così... così sbandato?

Spento. Fiacco. Estraneo.

«Francesco!»

Angelo, sulle spine, lo individua, agguantandolo.

«Che hai? Stai male?»

Sì, enormemente, ma tu non comprenderesti. Nessuno comprenderebbe.

«Io...» Lo sguardo smeraldino di suo fratello lo sonda, allarmato. «L'aria era diventata viziata. Volevo respirare una boccata pulita.»

Angelo se la beve solo a metà. «Forse non è prudente attardarci troppo a lungo fuori casa. Sei appena emerso dalla convalescenza. Ideale andarci piano, che ne dici?»

Francesco si stiracchia. «Dico che sto morendo di sonno... andiamo a casa?»

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