CAPITOLO 31 - Nemmeno le parole
«Forse sono stata troppo invadente, prima... »
Teh si volta verso sua madre che gli parla, non sa bene come modulare l'espressione, fra un sorriso fasullo e una finta noncuranza. Non sa cosa dovrebbe provare, come dovrebbe sentirsi.
«Tarn era davvero molto scossa» prosegue con cautela la Signora Su.
«Non ti preoccupare Ma', tranquilla» la rassicura Teh, tentando più che altro di sfuggirle. «Le passerà. Capirà» aggiunge. In realtà, ha già capito fin troppo.
«Me lo vuoi dire cosa succede, Teh?» domanda, accarezzandogli la mano.
Teh si sente in trappola, le pareti e i mobili scuri della stanza gli si stringono addosso, continua a sorridere quel sorriso fasullo. E del peso che si porta addosso non ne può più. Dovrà comunque dirlo, prima o poi. La sua mente segue binari antichi e solidi e ora ha imboccato quello dell'autoconvinzione. La corrente che alimenta il vagone è una vena inesausta di autostima. Cosa ha fatto di così terribile, dopotutto?
Ha rinunciato a un posto all'università, ma non è che non ce ne siano altri. Può sostenere l'ammissione come tutti e tornare ad Anastart con la soddisfazione di essersela doppiamente guadagnata. E' formidabile, lui. Lo dicevano tutti, poco fa. Perché dovrebbe essere così assurdo, entrare con gli esami, come tutti?
«Che succede, Teh?» riprova la Signora Su.
«Sosterrò l'esame di ammissione» risponde, con un briciolo di condiscendenza.
Le parole suonano prive di senso alle orecchie di sua madre. «Che vuoi dire?» gli prende le mani, le stringe. E' certa di aver capito male, che sia un fraintendimento, non le è difficile mantenere la calma. «Non dovevi solo firmare per la conferma? Non ci sei andato per questo, a Bangkok?»
Teh prende un lunghissimo respiro. Nella sua testa, la porta dell'aula si spalanca al rallentatore ed entra trafelata la ragazza con la treccia.
«Non ho firmato» confessa, pacato.
La madre cerca il suo sguardo, gli afferra il braccio e lo stringe. E' molto più bassa di lui, ma l'influenza e l'autorità di cui gode fra quelle quattro mura la rendono imponente, giunonica. «E perché non l'avresti fatto, figliolo?»
Deve esserci una spiegazione logica. Teh non farebbe mai qualcosa di avventato o incoerente.
«Ho ceduto il mio posto a un amico.» Dalla leggerezza con cui lo dice, sembra che non gli importi, che non si renda nemmeno conto.
La madre continua a carezzargli il braccio. Una carezza, due carezze, la terza è rigida, la quarta esercita una pressione. Da gesto di conforto, si trasforma in stizza. «Ma cosa ti è saltato in mente! Perché l'hai fatto? Non ha senso!»
E' spossata, incredula di fronte a quell'altruismo masochistico di Teh, la cui nefasta presenza ha sempre intuito, e non senza timori. E aveva ragione, evidentemente. Danneggiare se stessi in favore di qualcuno, chiunque sia, è un tipo di slancio malato, che la Signora Su non può comprendere. Le mancano le basi. Persino l'amore sconfinato che prova per i figli, poggia sul solido pilastro dell'autocompiacimento, eretto su fondamenta di puro egoismo. Senza cattiveria, senza alcuna malevolenza. Solo la necessità primitiva di mettere se stessi e le proprie istanze (due figli maschi da tirare su da sola, per esempio) al centro dell'universo e fare in modo che tutto il resto ruoti lì intorno.
E adesso la Signora Su sente l'universo scricchiolare.
«Tira fuori il cellulare» intima al figlio. «Dammelo, su! Devo chiamare l'insegnante!»
«Ma Mamma...»
«Dammelo subito!»
«Ma...»
«Basta che mi dai il telefono. Cerco io il numero.»
«Ma', calmati.»
«Vedrai che se sente me, se glielo spiego io, l'insegnante ci darà una mano, capirà e sistemeremo le cose.»
Che al mondo tutto si possa sistemare, insistendo, pregando, offrendo, corrompendo e lusingando è una delle radicate convinzioni della Signora Su.
«Per favore, mamma, calmati.»
«Tu adesso levati di mezzo, ci penso io. L'unica cosa che puoi fare è metterti a pregare.»
Teh protesta debolmente, ma la madre lo spinge verso le scale. La sua religione è un coacervo di piccole e grandi superstizioni, per ottenere il favore di divinità corruttibili e vanitose.
«Fallo subito! Vai di sopra, vai e prega, solo gli dei possono aiutarci!»
«Ma'! Ma' ti prego: ragiona. E' troppo tardi, ormai. Ho preso la mia decisione.»
Decisione. Come se uno potesse decidere di buttare alle ortiche il futuro. Non dovrebbe essere neppure permesso a uno stupido adolescente di rovinarsi la vita in questo modo.
«Se sei così preoccupata per i tuoi amici, di là, puoi anche non dirgli niente. Tanto io riuscirò a entrare comunque.»
La madre lo fissa incredula. La leggerezza con cui parla è inaccettabile. E a stento riesce a capire a quali amici si riferisca. Di cosa pensino i clienti in sala, dei giudizi degli altri, non sa proprio che farsene.
«E' andata così, è fatta» continua Teh ansioso di chiudere il discorso, di sottrarsi a quella tortura. «Farò l'esame di ammissione.»
La stizza della Signora Su si esprime tutta nella stretta convulsa con cui si aggrappa alle braccia del figlio. «E se non ce la facessi?» Lo scuote, lo spinge, lo scrolla. E continua a fissarlo. «Eh? Teh? Se non dovessi farcela, che faremo, allora? Come ti sentiresti?»
Teh è triste, esausto, provato. All'eventualità di fallire non ha mai pensato neanche una volta e invece adesso le parole di sua madre l'hanno resa terribilmente reale. Che farebbe, se succedesse? Se Oh andasse avanti sulle ali che gli ha regalato e lui restasse a terra, a guardarlo arrivare così in alto da dover piegare all'indietro la testa. Uno squallido sgranarsi di giornate tutte identiche gli scorrono nella testa, si vede alla guida del sidecar, con il rimorchio pieno di verdure, lo sguardo spento, le mani segnate dal lavoro in cucina.
«Guardati adesso!» infierisce lamentosa la Signora Su. «Era quello che avevi sempre voluto: fare l'attore, recitare. Tuo fratello ha risparmiato, si è sacrificato, solo per aiutarti. E tu ora che fai? Butti via tutto. Non è uno spreco, Teh?»
La maschera del viso di lei si è fatta tragica, con le labbra rosse piegate all'ingiù, gli occhi sporgenti, le rughe in evidenza, a gridare la fatica di tirare su due figli da sola. Teh sente le lacrime sfuggirgli tra le ciglia e volta il capo, cercando di sfuggire lo sguardo di sua madre.
«Certo che è uno spreco! Le lezioni di cinese extra, e tutto quello studio anche di sera. No, Teh, tu non ragioni perché non hai mangiato bene» lo accusa ancora, agitando l'indice. «Hai sempre sofferto di mal di stomaco. Ormai mandi giù più medicine che cibo.»
Perché deve essere lì la spiegazione, nel mondo empirico. Nella pesantezza di stomaco, nelle ore di sonno mancanti. Negli eccessi o nei difetti di qualcosa. Qualcosa che si può vedere e toccare, mettere e togliere dai termini di un'equazione matematica che è la vita di Teh. «Neanche avevi il coraggio di andare a scuola se prendevi un brutto voto. Eri un fiume di lacrime.»
Adesso le lacrime di Teh non sono un fiume, ma un rigagnolo, un trasudamento delle paure e dei sensi di colpa da una crepa sottile della coscienza.
Quella figura minuta lo sta schiacciando.
Arriva Hoon a salvarlo: abbraccia la madre alle spalle e la tira indietro, creandogli lo spazio per respirare.
«Non la posso accettare, questa scelta!» Grida isterica la Signora Su. Scuote il capo, i capelli grigi lisci e sottilissimi le volano intorno alla faccia, negando anch'essi la realtà. «Non posso! Non lo farò!
Si volta verso Hoon che la trattiene, in cerca di una solidarietà che però non trova. Il figlio maggiore è impassibile.
«Mi avevi promesso che sarei stata orgogliosa!» recrimina, querula e astiosa. «Perché non sei come Hoon?»
L'onda sismica di quelle parole scuote Teh dall'interno e la verità si rovescia giù dalle sue labbra senza filtri. «L'ho fatto per lui, o non sarebbe mai entrato. Che altro avrei dovuto fare?»
Abbracciata a Hoon, la Signora Su piange. Quell'estraneo che parla non lo riconosce neanche più e nessuna delle parole che dice sembra avere un senso.
Hoon, invece, è un bel po' che ha capito. O almeno, crede di aver capito cosa sta succedendo. Dopotutto, non è niente i improvviso. E' successo pian piano, sotto i suoi occhi vigili, che non abbandonano mai Teh. Lo conosce bene, quel fratello adolescente così complicato e fragile. Lo conosce forse più di quanto non si conosca lui stesso e lo ha amato dal giorno che è venuto al mondo, con un affetto stabile, forte, continuo, silenzioso.
Consegna la madre fra le braccia di Nozomi e prende fra le mani il viso di Teh, gli asciuga le lacrime sommariamente e poi lo abbraccia. Forte. Stretto. Con una mano intorno al collo e l'altra sulla schiena. Gli accarezza la testa, come quando era bambino. Le parole non dicono mai più dei gesti. Per questo tace, e lo lascia sfogarsi, finché le lacrime non diventano singhiozzi e gli scuotono le spalle, finché le piange tutte, finché si asciugano.
***
Appena varcata la soglia della stanza, Teh si getta a peso morto sul letto. Morto è una buona definizione del suo stato, al momento. Affonda la faccia nel cuscino e si concede di ripensare a quello che ha fatto. A cosa significa veramente.
Il ruolo del martire è nobile finché non lo si cala nel quotidiano, finché l'idea astratta di dare l'esame ordinario non diventa la penombra della solita stanza, l'odore di chiuso e di quaderni, le sveglie antelucane, le ore di studio senza fine, i voti a scuola, la media, la clausura, la tensione. La solitudine di chi è stato lasciato indietro. E la delusione inflitta alla sua famiglia, a cui Teh non aveva pensato.
Quando alza gli occhi verso la finestra, vede una scritta in cinese su larghi cartoncini bianchi e rossi, tracciata dalla mano ferma di sua madre.
Congratulazioni! Sono fiera di te!
Appesa sotto una divisa universitaria nuova, appena stirata, di quelle con la dignità acquisita dei pantaloni lunghi. Tutte cose che non gli appartengono, a cui non ha più diritto. Non aver diritto all'approvazione di sua madre, non meritare i sacrifici di Hoon sono spine lunghissime nel cuore di Teh, tanto più acuminate per il senso di colpa di averle del tutto ignorate.
Teh piange ancora. Non sa fare altro. Calde lacrime e singhiozzi sul suo futuro incerto, su quella divisa immacolata, sulle pagine gialline del libretto di risparmio, dove suo fratello ha versato una cifra importante, in cui ogni zero è una rinuncia, piccola o grande. Il post-it attaccato sotto dice: questi sono per i primi due semestri. rendimi fiero.
Teh afferra, nell'onda del pianto, una grande verità: che nessun uomo è un'isola. Che ogni gesto, per quanto nobile, per quanto vicino al martirio, per quanto benevolo e moralmente ineccepibile, porta ricadute anche su una serie di individui che non hanno avuto alcuna parte nella decisione, che forse la disapprovano, e che comunque, volenti o nolenti, ne porteranno il peso e ne resteranno delusi. Che si può infliggere dolore involontariamente, con ogni gesto, a chi non lo merita. Ed è quello che è successo.
Piange, e suda e gli cola il naso. Essere la delusione di Hoon è un contrappasso che, nella miopia del suo folle altruismo, non aveva neanche immaginato.
Una volta che il telefono trova campo, arrivano tutti insieme i messaggi degli amici, che cercano di contattarlo da ore. Ma a Teh, di loro, non interessa.
Adesso Teh ha bisogno del conforto dell'unico interlocutore la cui gratitudine è il prezzo di quel sacrificio. Vaga con il telefono, puntando alle pareti, finché non trova un dettaglio abbastanza riconoscibile.
Vi ringrazio tutti, ma ormai la decisione è presa.
Teh è certo che chi deve capire capirà. Infatti nel giro di pochi istanti si illumina l'icona di Oh, e compare una sua storia su instagram.
Teh trattiene il respiro, mentre sfiora l'immagine del suo viso sorridente.
La foto che compare è tratta dal frasario che Teh gli ha regalato: bang dao mang, aiutare al contrario.
Significa: mi stai danneggiando.
Un rifiuto disegnato sulla pagina. Un concetto che Teh quasi non afferra. Perché mai il gesto più grande e profondo che potesse fare, il più doloroso, il più significativo, dovrebbe essere un aiuto al contrario, una complicazione indesiderata?
Le lacrime gli scorrono in faccia ma neanche prova ad asciugarle. Guarda ancora l'immagine, che resta lì piatta sullo schermo, senza nulla in più da dire che se stessa. Non che non sia abbastanza.
Teh può soltanto insistere. Fotografa un dettaglio di quella scritta di benvenuto attaccata al muro, che pende irrisolta e tristissima. E cerchia la parola dare.
Ti sto dando tutto. Te l'ho già dato. Tutto quello che avevo da dare.
Non è un pensiero razionale e definito, ma più che altro un'intuizione: il gesto che ha compiuto aveva la natura segreta di una riparazione. Non potendo dare a Oh quello che davvero voleva, gli ha offerto il bene più prezioso che possedesse.
Come in quelle favole per bambini, in cui una creatura soprannaturale offre un desiderio impossibile e chiede in cambio un dono di pari valore: al posto di se stesso, Teh ha messo nelle mani di Oh il suo brillante futuro.
Peccato che adesso sembra che lui non lo voglia. Come se non valesse abbastanza. Come se non fosse un buon prezzo. Come se non lo capisse.
Oh invece lo capisce. Guarda quell'ultima immagine e comprende tutto.
Fin troppo bene, perché dopo aver assaggiato il trionfo gli è rimasto sul palato un sapore dolciastro e rancido, perché in fondo quel tributo generoso è un insulto, la chiara ammissione, l'assunto che lui non potrebbe farcela senza quell'aiuto, senza un sacrificio. Non potrebbe crearsi un futuro senza qualcuno a regalarglielo.
E allora forse sono ancora arenati lì, dopo lo spettacolo da bambini, a lanciarsi addosso insulti che stavolta non fanno rumore, ma fanno male ugualmente. La verità è che Teh in lui non ha mai creduto, né a tredici anni né a diciotto. Non ha creduto in lui come studente, come attore, come amico. E non ha creduto in lui come compagno, come amante. Persino con addosso ancora il desiderio, il sapore del sale sulla lingua, il bacio ancora sulle labbra, persino allora non ha potuto crederci. Non ha voluto.
Ed era sincero. E lo è adesso. Sincero e addolorato. Ma privo di fiducia.
E quindi è un dono come una condanna. Come dare a qualsiasi successo, a qualsiasi cima raggiunta, il senso falsato di essere salito sulle spalle altrui, di non averlo veramente meritato.
Oh-aew non sa molto di se stesso. Di cosa vuole. A parte i sentimenti feriti, e l'orgoglio distrutto, sono ben poche le certezze che ha. Ma dovunque arrivi, anche fosse solo fino alla reception del resort, vuole farlo da solo.
E intorno vuole persone che ci credano. Come Bas. Che ci ha creduto sempre.
Il dolore di Teh però lo sente. E' autentico. Un'autenticità indifesa e disarmante, che peggiora la situazione.
Questa volta il no Oh lo scrive esplicitamente. A parole. Segni neri contorti, sull'ennesima foto a caso del frasario, un altro dono eccessivo che forse non avrebbe dovuto accettare, che Teh poteva risparmiarsi.
Eccessivo è l'aggettivo di Teh.
Idiota, accetta quello che gli altri fanno per te!
E' la risposta rabbiosa e immediata di Teh. Eccessiva, appunto.
Immediata è anche la risposta. Ce la farò da solo.
Subito dopo Oh prende uno dei libri dalla pila e lo apre. Mette via il telefono.
***
Fra tutte le eventualità e le conseguenze che Teh aveva calcolato, rinunciando alla sua ammissione, questa non compariva. Non gli era neppure passato per la testa che si potesse rifiutare una cosa del genere. Un atto di omaggio, di sottomissione, di fiducia. Un atto d'amore. L'unico di cui fosse capace.
Restano macerie. Polvere e sabbia. Lo stupido orgoglio di Oh, che prende a calci la fune calata dall'alto per salvarlo. Stupido. Pazzo. Inaffidabile. Immaturo.
Teh lo insulta a voce alta, fra le lacrime, per sentire il suono della propria voce, per ritrovarsi, per rendere reale l'incubo. La ferita nel suo cuore è così profonda che arriva oltre ogni difesa, ogni possibilità di controllo e di comprensione. L'angoscia si porta via tutto, come una marea densa e buia.
Sbatte il pugno sul tavolo, apre e chiude le dita. Spera ancora che sia un incubo. Di svegliarsi e prendere l'aereo, e di firmare. Senza incertezze, subito.
Apre e chiude le dita. Si guarda le mani, e sono vuote.
Che ingenuo a credere che la gratitudine avrebbe colmato le mancanze, curato le pene, riacceso la fiamma, ispirato, spronato.
E invece, di tutto quello che si era immaginato, di tutta la fatica e le rinunce degli ultimi anni, non resta nulla. E a nessuno interessa, tranne a mamma e Hoon, ai quali ha inflitto una delusione crudele e che, dopotutto, avevano ragione da vendere.
E non c'è niente da fare. All'angustia, all'amarezza, alla delusione, alla sconfitta si somma un'impotenza mai provata, una frustrazione infinita, che gli fa ripetere parole sconnesse, mentre batte la fronte sul tavolo e geme di dolore, come una bestia ferita.
L'unica forma di conforto e di consolazione che gli viene in mente, l'unica che conosce, è mettersi a studiare. Anche piangendo, soffrendo, singhiozzando, anche se non dovesse ricordare una parola, sarebbe comunque meglio che fissare il vuoto. Sarebbe canalizzare le emozioni, andare nella giusta direzione.
Afferra il libro, si pulisce la faccia col dorso della mano, respira, incassa le spalle, e lo apre.
La pagina sotto i suoi occhi è illeggibile, devastata. Tutta ritagliata, piena di buchi sparsi, di grandezze diverse, crateri rifilati con precisione dalle sue stesse mani operose.
Non gli sono rimaste nemmeno le parole.
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