Parte 1

Sono le 05.25 del mattino e mentre mi precipito a spegnere la sveglia mi accorgo di non aver chiuso occhio.
Sono già un fascio di nervi ma prima che il mio corpo decida di abbandonarmi del tutto balzo in piedi. Rifaccio il letto a malapena sfatto e mi paro davanti l'enorme anta specchiata del mio armadio.
Mi guardo per quelle che sembrano ore interminabili finché un leggero sorriso spunta sulle mie labbra secche.

È il grande giorno.

Con lo stomaco contratto per l'emozione inizio a prepararmi entrando lentamente nei vestiti accuratamente scelti giorni prima. Pantaloni a palazzo a vita alta e maglietta bianca adornata con due rose ricamate sui lati.
Liscio perfettamente la massa informe di capelli rossicci e trucco leggermente gli occhi.
Una spruzzata del mio profumo preferito e sono pronta. Diciamo.
Fisso ancora una volta il mio riflesso e mi abbandono ad un sospiro rachitico. Graffiante e sonoro.
Una strana e pensante sensazione inizia ad invadermi il petto e prima di rendermene conto sento gli occhi iniziare a bruciarmi.

Non di nuovo, penso.

Tiro giù un respiro profondo e dopo aver caricato lo zainetto in spalla, esco.

Entro in macchina e senza guardarmi indietro arrivo nel luogo prestabilito della fermata del bus che mi porterà fino all'arena. Ansiosa mi guardo intorno sorgendo le figure di alcune amiche con la quale, per tutto il viaggio, scambio preoccupazioni, adrenalina e pronostici sulla giornata. Fin da subito sul mezzo si respira aria di eccitazione e ci ritroviamo tutte a parlare e cantare vecchie canzoni che hanno resi noti ai nostri cuori i One Direction.

Alle 13.45, finalmente, arriviamo a Bologna e quello che mi si para davanti credo non riuscirò mai a dimenticarlo. Centinaia e centinaia di persone che corrono nervose da una parte all'altra intorno all'arena per un'unica ragione: lui.

Noto tende, sacchi a pelo, coperte e chitarre posate a terra tra un cartone di pizza e l'altro fin davanti i cancelli dove, ore più tardi, saremmo entrati.
Capelli colorati, bandiere arcobaleno, fiori rosa e sorrisi smaglianti sono ciò che accomunano la maggior parte delle persone con la quale riesco a scambiare qualche parola. Siamo tutti emozionati ma, allo stesso tempo, ansiosi di sapere ed immaginare cosa ci aspetterà nelle prossime ore.
Vengo trascinata in abbracci, foto e momenti di fragilità in cui il cuore sembra cedere ma, alla fine, resiste.
Non saprei calcolare per quanto tempo il sorriso mi sia stato stampato sul volto ma, a giudicare dal fastidio alla mandibola, credo sufficientemente a lungo da averlo mostrato persino ai muri.

L'elettricità è palpabile nell'aria e mentre sono seduta in fila a chiacchierare con nuove conoscenze, succedere l'impensabile.
Una sorta di panico generale viene a scatenarsi nella folla e, in men che non si dica, ci ritroviamo tutti a correre senza un apparente ragione.
Le file ordinate precedentemente create vengono spezzate così come l'equilibrio precario che ci legava come un sottile filo invisibile.

Perdo di vista le mie amiche e mi ritrovo sola e schiacciata a pochi metri dai cancelli che, solo diverse ore dopo, sarebbero stati aperti.
Mi sento spaesata, soffocata ed impaurita. L'ossigeno inizia scarseggiare e mi ritrovo a boccheggiare in punta di piedi per una manciata d'aria fresca.
Siamo tanti, tantissimo e leggo negli occhi di tutti stupore e preoccupazione per ciò che sarebbe accaduto nelle ore successive.
Lo spazio è angusto, meno di pochi centimetri per muoversi e, sfortunatamente, talmente poco da non permettere alla maggior parte di noi di ripararsi dall'improvviso temporale.
Le gocce scendono pesanti bagnandomi i capelli e il viso, così abbasso il capo in cerca di sollievo.
Poco dopo avverto il getto arrestarsi e un ombrello ombreggiare sulla mia testa. Alzo lo sguardo e a pochi centimetri trovo il sorriso timido di due ragazze che, gentilmente, mi riparano dall'ira del cielo.

Restiamo così per un tempo sproporzionatamente lungo ma, ben presto mi accorgo di quanto questo episodio sia stato lenitivo per i nostri animini angosciati. Nel disagio della situazione non noto lamentele ma, bensì, risate e solidarietà comune.
Canti scoordinati di varie canzoni si propagano nella folla e ben presto ci ritroviamo a condividere la gioia di quel momento come se ci conoscessimo da tutta la vita.
E forse inconsciamente era davvero così.

Mentre mi guardo intorno meravigliata, inevitabilmente, non posso fare a meno di chiedermi quanto possa essere forte l'amore che, in questo momento, ci stia accomunando. Quanto il desiderio di essere qui, insieme, vada oltre ogni cosa. Oltre l'indifferenza che comunemente sono abituata a toccare con mano.

Ma ben presto l'euforia inizia a lasciar spazio ai primi segni di cedimento.
Le forze vengono sempre meno così come la scarsa ventilazione circostante che segnano i corpi sfiniti di fan in fila da giorni. Emozioni contrastanti prendono a farsi largo nel mio inconscio e, a denti stretti, tengo duro fino al momento in cui riesco a mettere piede nell'Unipol Arena. Corro a perdifiato nella marmaglia fino a ritagliarmi un piccolo spazio nell'ambito parterre brulicante di ragazze e ragazzi elettrizzati.

Si respira un'atmosfera magica, molto più di quanto immaginato nei miei precedenti. Tutto intorno ammiro i piccoli puntini luminosi delle gradinate che si riempiono e, tra spintoni ed euforia le luci si abbassano presentando così l'ingresso di Mabel. Armonia, eleganza e talento sono gli elementi principali che compongono la giovane artista che si sta esibendo davanti i nostri occhi.
Ci incanta e ci fa ballare con leggerezza e spensieratezza ma, ancora una volta le luci si riaccendono e il palco torna ad essere vuoto.

Canzoni di sottofondo intrattengono l'impazienza generale fino a quando, sui monitor, viene proiettato l'intro che precede l'inizio vero e proprio del concerto. Un sorta di cartone stilizzato ricreato nel dettaglio di quella che è la particolarità del suo stile. Lui, una giacca fucsia e pesanti anelli sulle dita che girano e rigirano impazienti un cubo di rubik.

La tensione cresce, la pressione sale e dopo circa trenta minuti finalmente il cubo si risolve.
Questo vuol dire solo una cosa: ci siamo.

L'oscurità scende nell'arena mente l'unica cosa che la maggior parte di noi riesce a fare è gridare a pieni polmoni. Urlare con tutta la forza possibile affinché il soffitto venga giù rivelando le poche stelle in cielo che si son ricordate di splendere per l'evento. Per noi ma, soprattutto, per lui.

Fine prima parte.
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