SETA

22 novembre 1850 -

Il mattino si sveglia freddo e immobile. La luce dell'alba non riesce a scaldare l'aria gelida che si insinua tra le finestre del palazzo. Mi alzo presto, dopo un sonno agitato popolato da sogni di Michael. Lo vedo nei miei pensieri, i suoi capelli biondi e lucenti, il sorriso che illumina ogni angolo buio della mia anima. Ricordo il nostro ultimo incontro, nascosti dietro un colonnato di Palazzo Carignano. Ci siamo tenuti stretti, consapevoli che quel momento era fragile, che il mondo non ci avrebbe permesso di vivere il nostro amore alla luce del sole. Dio, quanto vorrei accarezzargli il viso, sentire il calore delle sue mani e svegliarmi ogni mattina al suo fianco.

La casa è già animata. Il rumore dei domestici al lavoro e il vociare della servitù riempiono l'aria. Francesco, il mio cameriere personale, entra con discrezione nella mia stanza. «Signore, vostra madre è già sveglia ed è di buon umore.»

«Sappiamo entrambi il motivo, caro Francesco,» rispondo, indossando il mio abito. Francesco annuisce con un sorriso trattenuto, consapevole che la partenza di Amalia ha portato un'insolita serenità alla Contessa.

Attraverso i corridoi, raggiungo il salotto dove mia madre sta discutendo con Elisabetta, la sua cameriera personale. Entro senza annunciare la mia presenza, e la trovo seduta, il volto illuminato da un'espressione di soddisfazione. La sua felicità è evidente: Amalia è partita, e il suo piano procede senza intoppi.

«Buongiorno, madre,» dico, avvicinandomi.

«Buongiorno, Alessandro,» risponde lei, il sorriso intatto. «Finalmente tua sorella è lontana da Torino. Finalmente possiamo respirare.»

«Respirare?» ribatto con un tono che tradisce la mia irritazione. «E pensate che io non debba respirare, madre? Forse il vostro disprezzo per il mio ciondolo vi permette di ignorare anche me.»

Il sorriso della Contessa si spegne. «Quel ciondolo rappresenta imprudenze contro natura. Non posso permettere che distruggano la nostra famiglia. Tuo padre, benché fragile, sarebbe annientato dalla vergogna. E se il Re lo scoprisse, sarebbe la tua fine.»

«Eppure io vivo, madre,» rispondo con calma, ma sento il sangue ribollire. «A differenza di voi, io so cosa significa amare.»

La Contessa si irrigidisce. «Alessandro, non confondere l'amore con la follia. Io amo questa famiglia. Tutto ciò che faccio è per proteggerla.»

Finalmente, tua sorella è a Hall Park», dice con un tono di sollievo, poggiando la tazzina di porcellana sul piattino. «Adesso le cose saranno più semplici.»

Alzo lo sguardo verso di lei, senza nascondere il mio fastidio. «Per te, forse. Per Amalia, non credo.»

Lei mi guarda, impassibile. «Non capisci, Alessandro. Lei non è come te. Ha bisogno di essere guidata, indirizzata. Altrimenti, finirebbe per distruggere tutto ciò che abbiamo costruito.»

«In che senso, madre?» chiedo, sapendo già dove vuole arrivare.

«Quel Pietro», dice, con una smorfia di disprezzo. «Sai come si sono conosciuti? Passeggiava al Parco del Valentino, con quella sua cameriera che si comporta più da confidente che da serva. Amalia ha fatto cadere un guanto, un gesto apparentemente innocente. Ma io so riconoscere un piano quando lo vedo. Quel ragazzo, quel panettiere, era lì seduto su una panchina. Lei ha recitato la sua parte con una grazia impeccabile.»

Stringo i denti, sentendo la rabbia montare dentro di me. «E quindi? Cosa speri di ottenere pedinandola? Vuoi distruggere anche lei, come fai con tutto ciò che non puoi controllare?»

La contessa si inclina leggermente in avanti, il suo sguardo gelido fissa il mio. «Non ho bisogno di distruggere nessuno. Amalia si è già distrutta da sola, scegliendo quel ragazzo. Io sto solo cercando di salvare ciò che resta della nostra famiglia.»

«Salvare?» ribatto, la voce più alta del previsto. «Non ti interessa salvare nessuno. Ti interessa solo mantenere intatta la facciata. Per te, siamo solo pedine su una scacchiera.»




La lama nascosta nelle parole

L'aria nella stanza è tesa come una corda di violino, carica di un silenzio che pesa sulle mie spalle come un macigno. Il fuoco nel camino scoppietta debolmente, proiettando ombre tremolanti sui tendaggi pesanti e sulle pareti rivestite di legno scuro. Il ticchettio costante dell'orologio sulla credenza segna il tempo che sembra dilatarsi all'infinito.

Mia madre siede composta, con la grazia innata di una regina senza corona. La sua schiena dritta, le mani elegantemente intrecciate sul grembo, l'espressione imperturbabile, come se stesse giudicando non solo me, ma l'intero destino della nostra famiglia.

Io sono in piedi davanti a lei, con le mani serrate a pugno lungo i fianchi, il respiro irregolare. Ho l'impressione che il pavimento sotto i miei piedi sia instabile, come se la terra stesse cedendo, ma so che è solo il mio cuore a crollare sotto il peso della sua crudeltà.

«Amalia non è una tua proprietà!» La mia voce rompe il silenzio con la furia di una tempesta. «E Pietro... Pietro è un uomo, un uomo migliore di tanti che frequentano questa casa.»

Lei non si scompone. Si appoggia lentamente allo schienale della sedia, incrociando le mani con la solennità di un giudice pronto a pronunciare una condanna. I suoi occhi sono di ghiaccio, l'unico segnale di un'emozione è un lieve sollevamento delle sopracciglia.

«E tu, Alessandro?» La sua voce è bassa, tagliente, avvelenata da una derisione sottile. «Cosa pensi di fare? Proteggerla?» Inclina leggermente la testa, studiandomi come se fossi un enigma irrisolvibile, un errore di natura da analizzare. «Come credi di poterlo fare, mentre non riesci nemmeno a proteggere te stesso?»

Il sangue mi si gela nelle vene. So dove vuole arrivare.

«A proposito, come sta Michael?»

Il suo tono è casuale, quasi distratto, ma il sorriso che segue è un taglio affilato nell'aria. «È ancora così devoto a te? O ha già trovato qualcun altro che soddisfi le sue... inclinazioni?»

Il mio stomaco si stringe in un nodo soffocante. Il fuoco nel camino sembra perdere calore all'improvviso, e la stanza diventa fredda, come se il gelo della sua malizia avesse spento ogni fiamma.

Lei si ferma un istante, lasciando che le sue parole mi scavino dentro prima di affondare il colpo finale.

«Dimmi, Alessandro...» inclina leggermente la testa, con una crudeltà squisita. «Quando siete soli, ti guarda mai come se fossi una disgrazia che non sa come lasciare?»

È come ricevere un altro pugno nello stomaco. L'aria mi sfugge dai polmoni, il mio respiro si spezza. Il cuore batte così forte che posso sentirne il rimbombo nelle tempie.

Stringo i pugni. Il desiderio di urlarle addosso, di rovesciare la sedia su cui è seduta con tanta compostezza, è accecante. Ma so che non posso. Non devo darle questa soddisfazione.

Mi costringo a restare immobile, ma la mia voce trema di una rabbia che non riesco a contenere. «Michael è il mio mondo,» sibilo, con un'intensità che mi sorprende. «Non lo capirai mai.»

Lei ride. Un suono morbido, perfettamente misurato, privo di qualsiasi autentica allegria. «No, Alessandro,» risponde con un sorriso velenoso, «non lo capirò mai. E sai perché? Perché ciò che provi è innaturale. Perché un giorno lui troverà una donna, avrà figli, costruirà una vita. E tu resterai solo, con il vuoto che ti sei scavato attorno.»

Mi sento come se mi avesse appena trascinato sotto la superficie di un lago ghiacciato. L'aria si fa rarefatta, la testa mi gira.

«Vedremo chi avrà l'ultima parola.»

Il modo in cui lo dice, con quella calma terrificante, mi fa paura.

Si solleva leggermente dalla sedia, aggiustando il tessuto del suo abito con un gesto meccanico. Poi, come se stesse parlando del tempo, lascia cadere la sua ultima, velenosa osservazione.

«Se non fosse per il rango della nostra famiglia, Alessandro, se non fosse per la reputazione che dobbiamo proteggere, credimi... avrei già provveduto a correggere questa tua inclinazione.»

Il mio respiro si ferma.

«Sai,» continua, facendo scorrere le dita lungo il bracciolo della sedia con studiata lentezza, «a Vienna si dice che i bagni nel ghiaccio facciano miracoli per certi vizi. Qualcuno giura che immergere un uomo con la testa sott'acqua per qualche minuto serva a raddrizzare anche gli alberi più storti.»

I miei occhi si spalancano. L'orrore mi attraversa come un brivido gelido.

«È un peccato,» aggiunge, con un sorriso sprezzante. «Peccato che la nobiltà imponga certe... restrizioni.»

Le sue parole mi rimbombano nella testa. La brutalità della sua insinuazione mi annienta. È questo il suo pensiero? Che sia da correggere, da spezzare, da sommergere nell'acqua gelida fino a farne sparire ogni traccia?

Le gambe mi tremano. Voglio vomitare. Voglio urlare.

Invece resto immobile, il cuore che martella nel petto, mentre il volto di mia madre si contrae in un'espressione di compiaciuta superiorità.

«Ora vai,» ordina con disinvoltura. «E non dimenticare: nessuno, in questa casa, è mai stato libero di scegliere.»


Prima che possa rispondere, un domestico entra per annunciarmi una convocazione del Re alla tenuta di caccia. Mi alzo e mi avvio verso l'uscita. «Madre, torno presto,» dico con un cenno formale.


Alla Tenuta di Caccia

La tenuta del Re è un luogo maestoso, circondato da boschi silenziosi e prati infiniti. Quando arrivo, l'aiutante di campo mi accoglie con un sorriso cordiale e mi conduce nel salone principale. Il Re, con i suoi folti baffi e un'espressione bonaria, mi aspetta accanto al camino acceso.

«Conte Alessandro, benvenuto,» dice con calore. «Spero che la vostra famiglia stia bene.»

«Grazie, Maestà. Mio padre è al mare in Liguria, cercando di recuperare le forze. E mia sorella è partita per Londra. La Regina ne è informata?»

Il Re sorride, ma il suo tono si fa serio. «La Regina è leggermente contrariata di non aver ricevuto notizia direttamente. Ma ora abbiamo altro di cui parlare.»

Mi spiega della situazione in Crimea, della delicata posizione del Regno Sardo e delle necessità diplomatiche. Poi mi affida una missiva da consegnare personalmente alla Regina Vittoria. «Siete l'uomo giusto per questo compito, Alessandro. E non dimenticate che il vostro legame con la mia famiglia vi rende ancora più prezioso.»

Il re si avvicina me, posando una mano pesante sulla mia spalla. Il suo sguardo tradisce un'ombra di rammarico.

Il Re si irrigidisce per un istante, la sua espressione si fa più dura, priva della complicità di poco prima. Si sporge leggermente in avanti, posando le mani sulla scrivania con un gesto misurato, ma il tono della sua voce si abbassa, carico di una freddezza che non ammette repliche.

«Alessandro, so tutto di tua sorella e del giovane panettiere.»

Un silenzio carico di tensione si insinua tra di noi prima che continui, la sua voce ora più ferma, quasi contrariata.

«Comprendo i tuoi sentimenti, ma devo essere chiaro: il contratto con il marchese è già stato firmato e avallato dalla Corona. Non c'è spazio per romanticismi o deviazioni. Vostra madre non permetterà mai una simile follia, e neppure io.»

Il suo sguardo si fa tagliente, il peso della responsabilità regale incombe sulle sue parole.

«Non lo permetteremo.»

Il significato sottinteso mi fa stringere la mascella, ma il Re prosegue senza darmi il tempo di replicare.

«Amalia non è una fanciulla qualunque. Sin da piccola è stata allevata per il ruolo che le spetta. A corte ha ottenuto le migliori condizioni affinché potesse adempiere al suo dovere nel modo più dignitoso possibile. Il suo matrimonio con il marchese non è solo un'unione, è un'alleanza che garantirà stabilità e prestigio alla vostra casata.»

Si ferma un istante, incrociando il mio sguardo con un'intensità che non lascia spazio a fraintendimenti.

«Le condizioni economiche di questo accordo sono tra le più alte d'Italia, Alessandro. Tua sorella non avrà solo un marito, avrà un titolo, un ruolo, una sicurezza che nessun altro potrebbe offrirle. E tu... tu sarai il futuro capo della famiglia Crepuett. Il tuo status dipende dalla solidità di questa unione. Non puoi permettere che l'errore di un momento rovini ciò che è stato costruito per generazioni.»

Le sue parole riecheggiano nella stanza, come un sigillo imposto con autorità. Il Re non sta solo proteggendo il suo Regno: sta difendendo l'ordine stesso della società a cui apparteniamo. Per lui, per mia madre, il destino di Amalia è già scritto, scolpito nella pietra come un sigillo araldico.

Sento la frustrazione montare dentro di me, il desiderio di ribellarmi a questa logica fredda e implacabile. Ma so che ogni parola detta qui, ogni sfida lanciata in questo momento, potrebbe ritorcersi contro di me e contro Amalia stessa.

E allora, con un respiro misurato, sollevo lo sguardo e rispondo.

La mia gola si stringe. «Maestà, ci deve essere un modo. Amalia non può vivere un'esistenza infelice per ragioni politiche.»

Il Re scuote lentamente il capo, il tono severo ma non privo di compassione.

«Non posso aiutarvi in questo, Alessandro.» La sua voce è ferma, priva di esitazioni. «Il marchese è una pedina fondamentale per i nostri rapporti con la Francia. Il Marchesato di Orange è un'enclave di vitale importanza per i nostri interessi, un baluardo che non possiamo permetterci di perdere.»

Si ferma un istante, incrocia le mani dietro la schiena, lo sguardo fisso su un punto imprecisato della stanza, come se riflettesse su qualcosa di ben più grande di me, di lui, di tutti noi.

«Dopo la frattura con la Chiesa, il suo ruolo è diventato ancora più cruciale.»

La frattura con la Chiesa. Sento un brivido lungo la schiena.

«Le polemiche sulle Leggi Siccardi hanno creato crepe profonde, non solo tra il Regno e lo Stato Pontificio, ma anche tra i nostri stessi alleati. La Francia osserva ogni nostro passo, il Papa ci condanna, e i vecchi equilibri vacillano. Il Marchese di Orange è l'ago della bilancia tra chi vorrebbe riconciliazione e chi cerca lo scontro definitivo. Senza di lui, potremmo perdere l'unico filo che ancora ci lega a una soluzione diplomatica.»

Un filo sottile. Uno solo. E quel filo vale più della mia richiesta.

Il Re mi fissa, e nel suo sguardo leggo una sentenza già scritta.

«Capite ora perché non posso concedervi nulla, Alessandro? Non è solo una questione politica. È una questione di sopravvivenza per la Corona stessa.»

La Corona. Sempre la Corona. E noi, pedine mute su una scacchiera che non abbiamo scelto.

Mi passo una mano sul volto, cercando di nascondere la mia frustrazione. «E la felicità di mia sorella? Non ha alcun valore per voi?»

Il Re mi osserva con uno sguardo che, per un attimo, sembra vacillare tra il distacco e un velo di sincera comprensione. Poi sospira, quasi stanco di ripetere, e scuote il capo.

«Non è una questione di valore, Alessandro, ma di necessità. I nostri matrimoni non sono sogni d'amore, ma architetture del potere. Tu credi che io abbia scelto la mia sposa? Pensi forse che l'amore abbia avuto un ruolo nel mio matrimonio con Maria Adelaide d'Asburgo Lorena?»

Rimane un attimo in silenzio, come se riflettesse su parole che raramente si concede di pronunciare. Poi riprende, con una calma che sa di ineluttabilità.

«Mi è stata imposta. Non c'era spazio per altro. La sua discendenza, il suo nome, le alleanze che rappresentava: tutto era già scritto prima ancora che potessi esprimere un desiderio. Ora c'è affetto, certo. Abbiamo condiviso anni, figli, un destino comune. Ma non è mai stato amore nel senso in cui lo intendi tu.»

La sua voce si fa più grave, quasi un avvertimento.

«Eppure, amo Rosina. Non mi illudo che possa essere altro che un'ombra nella mia vita ufficiale, un soffio di felicità sottratto alle imposizioni. È una dolce notte da vivere, non una regina. Non sarà mai la madre dei miei figli, non potrà mai sedere accanto a me sul trono. Il suo nome non verrà inciso nella storia accanto al mio. Questo è il prezzo della corona.»

Si alza, avvicinandosi lentamente alla finestra. Guarda fuori, oltre i giardini di Palazzo Reale, come se in quella vista si celasse una risposta che io non posso comprendere.

«Amalia non è diversa. Lei non è solo tua sorella, Alessandro. È un tassello in un mosaico più grande di noi. Non è nata per scegliere il suo destino, ma per incarnarlo. Sarà moglie di un uomo che porterà stabilità alla nostra casa, ai nostri domini. È stata cresciuta per questo, educata per questo, preparata per questo. Tu parli della sua felicità, ma sai bene che, in fondo, anche lei conosce questa verità. Potrà provare ribellione, paura, desiderio di fuga... Ma alla fine, farà ciò che è stato deciso per lei. Come ho fatto io. Come ha fatto Maria Adelaide. Come hanno fatto generazioni prima di noi.»

Il suo sguardo si posa su di me con una fermezza che non lascia spazio a repliche.

«E tu, Alessandro? Sei disposto a pagare il prezzo del potere per la felicità di tua sorella? Sei pronto a stravolgere le regole che reggono questa società, a sfidare il destino che è stato scritto per noi? Ti illudi che la libertà sia un lusso concesso a chi porta un nome come il tuo?»

Le sue parole mi pesano addosso come un macigno. So che il Re non mente. La sua è la voce di chi è nato per comandare, ma anche per sacrificare. Ed è proprio questo che mi spaventa di più.

Il Re mi sorprende con un gesto inaspettato. Con movimenti lenti e misurati, scioglie un foulard di seta blu, adornato con la corona sabauda, e me lo porge.

«Lo ha ricamato mia madre per me. Ora è vostro.»

Rimango immobile per un istante, colto alla sprovvista dalla solennità del gesto. Accetto il dono con entrambe le mani, sentendo sotto le dita la delicatezza della seta, liscia e preziosa, un simbolo di legame e protezione. Il tessuto scivola leggero tra le mie dita, e comprendo che questo non è solo un atto di cortesia: è un segno di riconoscimento, forse persino di alleanza.

Il Re mi osserva, il suo sguardo indugia su di me con una strana intensità. Poi, con un sorriso che mescola stanchezza e comprensione, abbassa la voce, parlando con un tono basso e confidenziale.

«Alessandro, dopo questa missione in Inghilterra, potrei liberarti, se lo desideri, dai vincoli della Corona e della società. Non devi vivere costretto in un mondo che non ti accetta per ciò che sei.»

Le sue parole mi lasciano senza fiato per un istante. È una concessione che nessun sovrano farebbe con leggerezza, e lui lo sa bene. Ma non è finita. La sua mano si posa nuovamente sulla mia spalla, questa volta con un gesto più intimo, quasi fraterno.

«Ma ascolta il consiglio di un amico, non solo di un Re: usa la tua posizione sociale per proteggerti. La tua nobiltà può essere uno scudo, un modo per nascondere le tue romantiche passioni con l'inglese.»

Alza un sopracciglio con una lieve ironia, ma la sua espressione resta grave.

«Noto che avete una straordinaria somiglianza fisica, sembrate fratelli separati in culla. Comunque, questo palazzo ha orecchie, Alessandro, e le chiacchiere viaggiano più veloci dei corrieri reali. Ricordo bene la battuta di caccia del 1849. L'inglese è un buon cacciatore, almeno così dicono, ma non è stata la sua mira a far discutere di voi. E, credetemi, ci sono orecchie più pericolose delle mie.»

1849 - Quella memorabile battuta di caccia

Il mattino era limpido, il cielo terso come una lama di vetro affilata dal vento. Le prime brume dell'alba si erano già dissolte, lasciando il bosco intorno a noi avvolto in un'aria fresca e vibrante.

Michael cavalcava davanti a me, il sole filtrava tra gli alberi e illuminava i suoi capelli biondo miele, spettinati dal vento. Indossava un abito da caccia impeccabile, lo stivale lucido, il fucile saldo tra le mani. Sembrava nato per quel ruolo, per dominare la scena con la sua presenza naturale, senza sforzo. Le dame, ovviamente, lo notavano.

Le figlie dei nobili torinesi lanciavano occhiate furtive, nascondevano i sorrisi dietro i ventagli e facevano cadere con nonchalance i fazzoletti ricamati, nella speranza che lui, il giovane inglese affascinante, si chinasse a raccoglierli.

Michael si limitava a un sorriso appena accennato, educato, quasi distratto. Poi, con perfetta galanteria, si chinava a raccogliere il fazzoletto, lo restituiva con un cenno e una parola cortese, per poi tornare alla sua battuta di caccia. Eppure, non si fermava mai abbastanza per lasciare altro oltre all'illusione di un gesto fugace.

Io, invece, osservavo tutto da lontano, con un misto di divertimento e fastidio. Anche le dame di corte si accorgevano di me, certo, ma il mio sguardo cercava sempre uno solo.

Michael.

Era un predatore elegante, sicuro nei movimenti, nei gesti, nella postura. Aveva il controllo della situazione, ogni sua azione sembrava misurata, eppure naturale. Quando sparò il primo colpo, il suono risuonò netto nella radura. Un colpo perfetto. Gli altri cacciatori lo guardarono con rispetto, qualcuno annuì con approvazione.

Io, invece, sorrisi.

Scolpito dalle grandi battute di caccia. Nel corpo, nella mente, nell'anima.

Michael era il risultato di ogni sfida affrontata nelle foreste nebbiose, del vento che gli graffiava la pelle mentre inseguiva la preda, dei muscoli forgiati da giorni e notti passati nella natura più selvaggia. La caccia lo aveva reso ciò che era.

Il suo corpo era temprato dall'attesa silenziosa nei boschi, dai movimenti calcolati prima di scoccare una freccia o premere il grilletto. Ogni fibra dei suoi muscoli raccontava la resistenza, il controllo, la perfezione dell'equilibrio tra uomo e predatore.

Ma era nella sua mente che si rivelava la vera essenza della caccia. Michael non cacciava solo con le mani, cacciava con gli occhi. Un istinto affilato come una lama, uno sguardo che studiava il bersaglio con una precisione spietata. Sapeva quando aspettare, quando agire, quando affondare il colpo. Era nato per la competizione, per il dominio, per il gioco sottile tra pazienza e assalto.

E in tutto questo, c'era una bellezza selvaggia. Un fascino che si esprimeva nei suoi gesti misurati, nel modo in cui la luce scivolava lungo le linee scolpite del suo viso quando si muoveva, nell'eleganza naturale di chi sapeva che l'istinto era la sua arma più letale.

Michael non era solo un cacciatore. Era la caccia stessa.Dopo un'ora di battuta, ci allontanammo dal gruppo per riposare un momento. Entrammo in un piccolo capanno da caccia, immerso tra i rami fitti di una boscaglia. L'aria era satura dell'odore di legno e umidità, mentre la luce filtrava a stento dalle assi di legno vecchio.

Michael si tolse il cappello e si passò una mano tra i capelli spettinati. Si voltò verso di me, con quel sorriso che conoscevo bene, quello che anticipava una battuta.

«Tu sei inglese, dovresti essere freddo e impassibile,» gli dissi, incrociando le braccia.

Lui rise, scrollando il capo. «E tu sei italiano,» ribatté con un sorrisetto provocatorio. «Sei accaldato sempre o no?»

Mi passò accanto e si appoggiò al muro di legno, incrociando le braccia e guardandomi con aria di sfida.

«Se lo fossi, lo vedresti.»

Per un istante, il silenzio tra noi si fece più denso. L'aria sembrava carica di qualcosa di indefinito, un'energia sottile che solo noi due potevamo percepire. I suoi occhi cercarono i miei, come a voler misurare la distanza invisibile che ci separava.

Poi, un rumore fuori. Un sussurro.

Michael si staccò dal muro con un movimento fluido, tornando a indossare il cappello con noncuranza. Io feci un passo indietro, sistemando il cravattino.

Quando uscimmo dal capanno, vidi due dame che si scambiavano occhiate e sussurri tra loro. Una di loro abbassò subito lo sguardo, fingendo di essere interessata ai fiori ai suoi piedi. L'altra sorrise con un'espressione indecifrabile.

E poi, più lontano, vidi lei.

Mia madre.

Era in piedi, sul vialetto ghiaioso, il parasole stretto tra le dita, lo sguardo attento, tagliente come una lama. Non ci aveva persi di vista nemmeno per un secondo.

Michael accanto a me si irrigidì appena, come se avesse avvertito la sua presenza prima ancora di vederla.

«Le orecchie di questo palazzo sono più veloci dei corrieri reali,» aveva detto qualcuno poco prima. Avevano ragione.


*Stringo il foulard tra le mani, avvertendo il suo peso simbolico più di quello materiale. La seta è fragile, eppure resiste al tempo, alle mani che la sfiorano, ai nodi che la legano. È il tessuto dei diplomatici, dei legami segreti, delle verità nascoste. E ora è mio.

Inspiro profondamente e sollevo lo sguardo verso il Re.

«Grazie, Maestà,» dico con sincerità. «Non dimenticherò né le vostre parole né questo dono.»

Il Re annuisce, come se comprendesse il significato più profondo del mio ringraziamento.

«Vi auguro buon viaggio, Alessandro. E che possiate trovare la vostra strada senza doverla percorrere nell'ombra.»

Faccio un leggero inchino, consapevole che questo incontro è stato più di una semplice udienza. Poi mi volto e lascio la stanza, sentendo il peso della seta fresca sul collo, come un vincolo... o forse una promessa.


«Grazie ancora, Maestà. Non solo per il vostro aiuto, ma per la vostra amicizia. Prometto che farò del mio meglio per onorare questa fiducia.»

Il Re annuisce, il suo sorriso si fa appena più marcato. «Lo so che lo farai, Alessandro. Sei un uomo complicato, ma anche le anime complicate trovano la loro strada. E, in ogni caso, sarò qui, se avrai bisogno di me.»



Un ricordo mi attraversa la mente: io e Vittorio, bambini, correndo nei corridoi del palazzo, ridendo senza preoccupazioni. Era il tempo della spensieratezza, prima che il peso dei nostri ruoli ci separasse. Ora, quell'amicizia sembra ancora viva, sebbene intrappolata nelle convenzioni di corte.

Quando lascio la tenuta, il foulard intorno al collo, sento un misto di responsabilità e speranza. Mormoro tra me e me: «Michael, farò tutto questo anche per noi.»


**La stanza è immersa nel silenzio. Il fuoco nel camino arde piano, proiettando un viso bellissimo sulle pareti. Fuori, la notte avvolge Torino nel suo abbraccio freddo, e il suono lontano degli zoccoli dei cavalli si mescola al respiro sommesso della città.

Mi passo una mano sugli occhi, esausto. La giornata è stata lunga, i pensieri troppo pesanti da sostenere. Amalia, Pietro, mia madre, il Re, i giochi di potere che si intrecciano come fili invisibili. Ma adesso, nel buio di questa stanza, c'è solo una cosa che desidero.

Apro il cassetto della mia scrivania e tiro fuori il foglio ingiallito che ho letto mille volte. La sua calligrafia elegante scorre fluida sulla carta, le parole impresse con cura, come se potessero colmare la distanza che ci separa.

Sfioro con le dita l'inchiostro ormai secco e, per un attimo, è come se potessi sentire la sua voce, il suono familiare della sua risata.

Michael.

Chiudo gli occhi e respiro profondamente prima di iniziare a leggere.

Quando arrivo all'ultima riga, mi ritrovo a stringere la lettera tra le mani come se fosse l'unico ancoraggio a qualcosa di vero. La piego con cura e la ripongo di nuovo nel cassetto, sapendo che domani la rileggerò ancora.

Domani, e ancora domani.

Fino a quando non potrò rivederlo.


"Stone Manor, Yorkshire

10 febbraio 1849

Mio adorato Alessandro,

la neve ha ricoperto le colline dello Yorkshire, e questa terra, che da sempre mi è familiare, mi appare oggi più distante, più estranea. Cammino lungo i sentieri che ho percorso da bambino, tra le vaste distese che il vento del nord accarezza senza sosta, eppure il mio pensiero è altrove. È con te.

Sono passate due settimane da quando ho lasciato l'Italia, e già mi sembra un'eternità. Quando ho salutato Londra per raggiungere la tenuta di famiglia, mio padre mi ha accolto con la solita fierezza, illustrandomi con entusiasmo i nuovi sviluppi dei nostri commerci con le Indie. Mi sta coinvolgendo sempre più nei suoi affari, e sebbene io trovi interessante comprendere le dinamiche di questo impero costruito su spezie, tè e tessuti pregiati, so che il mio destino non sarà mai legato soltanto ai numeri e ai contratti.

Eppure, c'è una parte di me che prova piacere nel vederlo orgoglioso di me. Quando ieri mi ha affidato la gestione di una trattativa con un mercante di Calcutta, ho sentito il peso della responsabilità gravare sulle mie spalle. Ho sempre saputo che, un giorno, avrei dovuto prendere il suo posto, e non temo questo compito. Ma in tutta questa fredda efficienza inglese, in questa vita ordinata e strutturata, sento che qualcosa mi manca.

O meglio, qualcuno.

Mi manchi tu, Alessandro. Mi manca la tua voce bassa quando parli in segreto, la tua espressione assorta quando rifletti troppo a lungo. Mi manca il modo in cui mi guardi, come se stessi cercando risposte che non osi pronunciare.

Ti scrivo dalla mia stanza, vicino al camino che crepita piano. Fuori, la neve continua a cadere, lenta, silenziosa. Ti immagino a Torino, forse nel tuo studio, con la penna tra le dita e lo sguardo rivolto oltre i vetri. Stai scrivendo anche tu? Ti sei mai chiesto quanto siamo simili, nel modo in cui ci rifugiamo nelle parole?

Rileggo le tue ultime lettere e mi tornano in mente i giorni trascorsi insieme. Penso alla battuta di caccia con il Re, alle parole scambiate di nascosto mentre il freddo piemontese si insinuava sotto gli abiti eleganti. Eppure, per quanto intenso sia stato quel momento, non è a quello che la mia mente ritorna più spesso.

No, Alessandro. È sempre a quella sera del '47 che il mio cuore si aggrappa.

Palazzo Carignano. Ti ricordi? Io non avrei dovuto essere lì. Robert mi aveva trascinato a quel ricevimento, convinto che mi sarei divertito, e io ero annoiato, insofferente. Poi, tra i volti indistinti della nobiltà, ho visto te.

Non ci siamo presentati subito, eppure ho sentito qualcosa nell'aria, come se la mia anima riconoscesse la tua prima ancora che le nostre mani si sfiorassero. Ti osservavo mentre parlavi con tua madre, con quel tuo modo fiero ma misurato, e dentro di me sapevo già che avrei cercato ogni occasione possibile per parlarti.

E quando finalmente l'ho fatto, quando mi hai guardato con quegli occhi così chiari e inquieti, ho capito.

Certe persone entrano nella nostra vita come tempeste. Tu sei stato la mia.

Scrivimi presto, mio caro Alessandro. Le nostre lettere sono l'unico ponte che mi lega a te, e ogni parola che ricevo da te è un respiro che mi riporta alla vita.

Tuo, sempre,

Michael"

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