PROFUMI




Torino, 1922

Mi sveglio con un sussulto, il respiro spezzato che si perde nel silenzio della stanza.

Il mio corpo è avvolto da un calore insolito, come se avessi dormito troppo a lungo, come se il tempo avesse perso il suo ritmo naturale.

Apro gli occhi. La stanza è familiare. Ma non lo è.

Qualcosa è cambiato.

Le ombre si allungano sulle pareti con un'intensità diversa. La luce è più bianca, più uniforme, priva di tremolii.

Mi sollevo lentamente, scrutando l'ambiente intorno a me.

Le lampade.

Le fiaccole, i candelabri... non ci sono.

Al loro posto, strane lampade di vetro opalescente diffondono una luce costante e irreale. Non capisco da dove venga.

Mi passo una mano sul viso, il cuore martella. Lenzuola diverse, tessuti più leggeri.

Guardo i mobili. La scrivania è ancora lì, ma è più moderna, più liscia.

Le tende... non più pesanti drappi di broccato, ma un lino leggero, che ondeggia appena.

Mi alzo, a fatica, le gambe pesanti come piombo.

Il corridoio è silenzioso, ma i suoni della casa sono cambiati.

Le voci dei domestici hanno accenti diversi. Il modo in cui si muovono, la loro gestualità... è tutto alterato.

Nuovi volti.

Poi, un dettaglio mi blocca.

Sul comodino, accanto a un bicchiere d'acqua e a una piccola lampada, c'è il mio diario.

Lo stesso.

Non dovrebbe essere qui.

Mi avvicino, esitante, le dita sfiorano la copertina di cuoio.

Lo apro. Le pagine sono intatte.

Scritte da me.

Ogni parola, ogni frase, ogni pensiero... esattamente come lo avevo lasciato.

Il mio 1850 è ancora qui.

Ma io non lo sono più.

Il mondo è cambiato sotto i miei occhi.

Poi, un suono.

Un suono impossibile.

Uno stridio di metallo, un lamento stridente che mi attraversa i nervi. Non è il cigolio di una carrozza.

Mi fermo, il cuore in gola. È il suono di qualcosa che non dovrebbe esistere.

Guardo fuori dalla finestra. Un enorme carro di ferro sfreccia per la strada.

Resto immobile, gli occhi incollati a quella visione innaturale. Non ha cavalli.

Non dovrebbe muoversi.

Eppure... avanza, con un'andatura regolare, scivolando sul selciato.

Mi manca il respiro. Il mondo intero è cambiato sotto i miei occhi.

Poi, una voce.

Una voce che mi riporta indietro.

«Ale, mi porti a Monza? Me lo hai promesso!»

Un bambino.

Mi giro di scatto, il battito che si ferma per un istante.

Un piccolo essere dai capelli scuri, occhi grandi, luminosi, troppo familiari.

Mi irrigidisco. Lo sento nel petto, come un colpo sordo.

Quegli occhi.

I miei occhi.

Un bambino. Mio.

«Alessandro ti porterà a Monza, amore,» risponde una voce.

Amalia.

Entra con grazia, un sorriso appena accennato sulle labbra, un portamento che mi è sempre stato familiare, eppure ora mi sembra stranamente distante.

Indossa un vestito blu, i capelli raccolti in onde morbide. Sembra diversa. Più adulta. Più... scolpita dal tempo.

Ma non è invecchiata.

Io sì?

Quanto tempo ho perso?

Mi manca il fiato. Tutta la stanza sembra inclinarsi.

«Altrimenti, lo farà lo zio Michael, come al solito.»

Michael.

La testa mi gira. Mi afferro al bracciolo della sedia.

«No! Voglio solo Ale!»

Il bambino ride.

Lo fisso. La sua bocca, il suo sorriso, la fossetta accanto alle labbra.

Pietro.

Mi manca il respiro. Le gambe tremano.

«Amalia...»

La mia voce è un soffio. Mi sento soffocare.

Lei inclina appena il capo, mi scruta con una lieve smorfia.

«Sei davvero così strano stamattina? Hai bevuto ieri sera?»

Non rispondo.

Mi guardo intorno, le luci, i mobili, l'aria stessa sembra carica di una strana vibrazione.

Le luci.

Sono ovunque.

Mi feriscono gli occhi, troppo forti, troppo nitide, come se il mondo intero fosse stato illuminato da una fiamma che non conosco. Non sono candele. Non sono lampade a olio. Non sono i lampadari che ho sempre visto nelle sale del Palazzo Carignano.

Le altezze dorate dei soffitti brillano in modo innaturale, riflettendo il bagliore bianco e crudo di quelle... di quelle cose. Non so come chiamarle. Sfere di vetro, appese come stelle intrappolate, emanano una luce costante, senza tremori, senza il respiro delle fiamme.

Distolgo lo sguardo, istintivamente, ma il chiarore mi segue ovunque. Ogni stanza, ogni corridoio, ogni angolo è invaso da quella luminosità perenne. Non c'è ombra, non c'è penombra. Non c'è riposo.

Socchiudo gli occhi, cerco rifugio nel buio delle mie palpebre, ma quando li riapro il mondo mi appare ancora più distante, estraneo.

Tendo la mano verso il tavolo più vicino, le dita sfiorano il legno lucidato con qualcosa che non riconosco. Troppo liscio, quasi privo di anima. Dov'è il calore delle superfici lavorate a mano? Dove sono i nodi del legno, le piccole imperfezioni che raccontano storie?

Niente.

Il lampadario sopra di me continua a brillare senza alcuna esitazione, come se fosse vivo. Non capisco. Chi accende queste luci? Chi le spegne?

«Non serve spegnerle,» dice Amalia, notando il mio sguardo perso.

Mi volto lentamente verso di lei, la mia voce è un sussurro spezzato:

«Cosa... cosa sono?»

Lei sospira, scrolla le spalle, come se la mia domanda fosse solo l'ennesima stravaganza di un uomo fuori dal tempo.

«Elettricità, Alessandro. Dovresti saperlo.»

Elettricità.

La parola mi è familiare. Ne parlavano nei salotti di Torino, tra una conversazione e l'altra sulle guerre e le riforme. Ma era solo un concetto lontano, una promessa del futuro.

E ora quel futuro è qui, sopra di me, intorno a me.

Sento un brivido scorrermi lungo la schiena.

Non è solo la luce che mi dà fastidio. È la certezza che il mondo ha continuato a esistere senza di me.Dove sono?

Cos'è successo?

Poi, un pensiero mi attraversa come un fulmine.

«In che anno siamo?»

Amalia sospira, sbuffa con impazienza. «Nel 1922, naturalmente. Santo cielo, Alessandro.»

Il 1922.

Il 1850 è scomparso.

Tutto ciò che conoscevo... inghiottito.

Mi porto una mano alla bocca, un tremito lungo le dita.

«E... nostro padre?»

Lei mi osserva per un lungo istante. Nei suoi occhi, una luce diversa.

Poi sospira.

«Papà è morto. Quattro anni fa.»

Mi sento vomitare.

Il mio respiro si spezza.

«E la mamma?»

«Si è ritirata a Racconigi, nella sua villa. Ha deciso che Torino non le appartiene più. Ma controlla tutto da lontano, come sempre.»

Un gelo mi scivola lungo la schiena.

«Pietro?»

Amalia abbassa lo sguardo per un istante, un lampo di esitazione nei suoi occhi.

Poi, senza emozione, risponde:

«Non è qui.»

Il mio cuore si ferma.

«Dove sta?»

Lei esita ancora. Poi, in tono piatto, dice:

«È morto.»

Mi manca il respiro. Sento un sibilo nelle orecchie.

«No.»

No.

«Sei ubriaco, vero? O stai scherzando con me?»

Mi tremano le mani. Qualcosa non torna.

Amalia mi fissa, poi si avvicina.

Posa una mano sulla spalla del bambino, una carezza quasi distratta.

«Questo è Alessandro, tuo nipote.»

Deglutisco.

«Mio nipote?»

Il cuore martella.

Amalia si stringe nelle spalle, un sorriso amaro.

«Sì. Mio figlio e di Pietro.»

Pietro.

Mi manca l'aria.

Tutto crolla.

Poi, come se non fosse abbastanza, aggiunge:

«Per nostra madre, sarebbe dovuto finire in orfanotrofio. Ma tu...»

Si ferma, mi guarda con un'intensità che non le ho mai visto prima.

«Tu ci hai salvati.»

La stanza si chiude attorno a me.

Il mondo è un vortice. Non riesco a respirare.

Poi, la porta si apre.

E lui è lì.

Michael.

Il suo viso, la sua bocca che conosco meglio della mia stessa voce. Gli occhi, quegli occhi azzurri come un mattino in Inghilterra, che mi guardano con qualcosa di indefinibile—sollievo, smarrimento, incredulità. I capelli sono più scompigliati del solito, ricadono sulla fronte come se avesse passato ore a passarsi le mani tra di essi. Il respiro leggermente affannato.

Non dice nulla. Neanche io.

Mi afferra.

Le sue mani, calde, sicure, mi stringono ai lati del viso mentre mi attira a sé, schiacciandomi contro il suo petto. Un urto forte, una stretta disperata. Il calore del suo corpo mi investe con una violenza che quasi mi fa perdere l'equilibrio. Il suo petto si alza e si abbassa rapidamente, come se avesse corso per chilometri.

«Ale...»

La sua voce è un soffio contro i miei capelli, la sento sulla pelle prima ancora che nelle orecchie. Mi stringe, con le braccia attorno alla mia schiena, una presa ferma, troppo forte. Come se avesse paura che potessi dissolvermi tra le sue braccia.

Io... io lo sento. Il suo battito cardiaco. È impazzito. Mi schiaccia la testa contro la sua spalla, il suo respiro si confonde con il mio.

«Sei qui...»

La sua bocca sfiora il mio collo mentre sussurra quelle parole, ed è come se mi stesse marchiando.

Gli afferro il tessuto della camicia tra le dita. È vera. È reale. Lui è reale.

Michael si scosta appena, solo per cercare il mio sguardo. La sua fronte si increspa, come se volesse dire qualcosa, ma non trovasse le parole. Poi mi sfiora.

Le sue dita scivolano sul mio viso, lungo la mia mascella, il pollice che indugia sull'angolo delle mie labbra, come se volesse assicurarsi che io sia tangibile, che io sia davvero qui.

«Non credere che non sia sconvolto anch'io,» mormora, la voce così bassa da sembrare un sussurro dentro il petto. «Quando mi sono svegliato qui, senza sapere come ci fossi arrivato... senza ricordare nulla di quello che era successo prima... ho pensato di impazzire.»

Il mio respiro si blocca.

Michael scuote la testa, un sorriso fragile che non arriva agli occhi. «Ho dovuto mantenermi calmo. Ma sapevo che c'entrava il ciondolo. Lo sentivo... e sentivo che saresti arrivato tu. Tu sei la mia ancora, Ale. Lo sei sempre stato.»

La sua mano torna alla mia nuca, affondando tra i miei capelli mentre mi avvicina di nuovo a sé, i nostri volti a pochi centimetri. Il suo respiro è caldo sulle mie labbra, e io sento la mia pelle bruciare.

«Tu sei la mia.»

Le parole mi scappano dalle labbra prima che possa fermarle, e Michael chiude gli occhi per un istante, il petto che si alza in un respiro spezzato.

Poi mi stringe.

Non con la paura di un istante prima. Questa volta con la consapevolezza di chi sa che non lascerà più andare.

«Ti troverò sempre,» dice, e la sua bocca sfiora la mia tempia, le sue labbra si muovono contro la mia pelle, come una preghiera.

Chiudo gli occhi, affondo nuovamente le dita nella stoffa della sua camicia.

Non importa dove siamo.

Non importa quando.

Michael è qui.

E questo è tutto ciò che conta.

Fra le sue braccia...

Lo stesso profumo.

Lavanda. Tabacco.

Michael.

La mia pelle lo riconosce prima della mente, il mio corpo si tende appena, come se qualcosa dentro di me rispondesse a quella fragranza senza bisogno di pensare.

Un richiamo.

Un ritorno.

E, per la prima volta da quando ho aperto gli occhi in questo tempo che non mi appartiene, mi sento a casa.






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