Sorellanza. [CAPITOLO 13/2]
«State lontani o chiamo immediatamente l'esercito, state lontani ho detto!»
Melissa innalza la voce e una certa urgenza le si espande, tramandandosi di lettera in lettera.
Ciò mette Selene in allerta. Non promette bene.
«Sappiamo che è qui, devi consegnarcela.»
Una voce più dura, decisamente maschile. Dev'essere uno di quei uomini.
Ma quali, chi? Che Melissa abbia fatto arrabbiare le persone sbagliate? Ha dei debiti?
Nasconde forse qualcosa?
Selene non comprende.
D'istinto pigia sulla chat di Stella, digita poche parole.
"Sono da Melissa, ero svenuta e lei era lì. Sono entrati degli uomini in casa. Aiuto."
Le dita scorrono irrequiete sullo schermo, forse più scivoloso del solito.
Scuote il capo per allontanare delle ciocche ostili dal proprio viso. Trattiene persino il respiro pur di non far rumre, ma... qualcosa agisce al posto suo.
Un trillo acuto. Un eco.
E un silenzio, l'istante successivo.
Come se anche in soggiorno lo avessero udito.
E forse è così.
Stella ha risposto al messaggio: la notifica.
«Che cazzo, credevo di aver messo il silenzioso!» Borbotta Selene, nervosa, accingendosi a pigiare sul tastino laterale.
«Dunque è lì. Dietro una porta del corridoio.»
È uno degli uomini a parlare.
«Cosa?» Corruga la fronte Melissa, e il medesimo stupore dilaga anche in Selene.
Il medesimo dubbio.
La medesima risposta.
«Tua figlia, Selene.»
Si è sbagliata, completamente.
Melissa non sta nascondendo qualcosa a qualcuno, no.
Sta nascondendo lei.
Perché è lei, che stanno cercando.
Sono lì per Selene.
«Cosa? Come fate a... cosa volete da mia figlia?»
Si morde la lingua, mutando vertiginosamente l'esito della domanda. In fondo la risposta al suo primo quesito la ha già.
Ha udito anche lei il telefono di Selene.
Anche se... come fanno ad essere così certi lei sia lì?
Non potrebbe appartenere a Melissa il telefono?
O a qualcun altro? Magari ad Emma.
«Non riguarda noi, ma lei ci serve. Non si opponga, non si muova. Non faccia un altro passo.»
La voce sicura di un uomo il cui potere, al momento, è innegabile. D'altronde ha lui la spada.
"Cazzo, vogliono me." Digita Selene, imprecando più e più volte nella propria mente.
Stella è online, visualizza all'istante, e la sua agitazione è palpabile dalla quantità di messaggi sgrammaticati che invia al secondo.
Ripone il telefono in tasca, Selene, lanciando un'ulteriore occhiata al bagno. C'è una finestra.
Potrebbe...
Lo stridio di due lame, come ferraglia arrugginita, risuona fra le pareti della casa.
È freddo. Un eco piatto che la costringe a voltarsi sulla porta.
Un eco che non prevede vita, no.
Prevede morte.
Selene poggia le dita sulla maniglia della porta, indugiando.
Le dita inumidite, sudate, lasciano un alone sbiadito sul metallo.
Ma poi, al silenzio, segue un grido.
Alla quiete, come si suol dire, segue la tempesta.
E la maniglia viene ruotata.
«Bastarda!»
"Eh?"
Selene supera l'arco che intercede per il corridoio e si ferma di sbieco, decisamente... stupita.
A gridare è stata Melissa, eppure quella che impugna un'arma dalle chiazze rosse, colanti in piccoli rivoli di sangue... è lei.
Ma colui che è stato ferito è uno di loro.
«Allora? Ne volete ancora, stronzi?»
Le tremano le braccia, ma detiene l'elsa della spada salda fra le proprie mani. E quell'arma... ha un che di familiare.
«Ma- Melissa!» Selene attira la sua attenzione, facendola sussultare. Si volta ancora sugli aggressori, scattante.
La donna sembra rilasciare l'adrenalina accumulata in una sola scarica, indietreggiando in un balzo per affiancare sua figlia.
La copre con il braccio sinistro, tenendola così dietro sé.
«Quella è...» Selene deglutisce, ma evita di soffermarsi sull'arma.
Dentro di sé, la risposta c'è già.
È un vizio di famiglia.
«Non sapevo sapessi combattere.» Prosegue e scuote impercettibilmente il capo, la giovane.
La donna incurva invece l'angolo delle labbra.
È sudata. Non poco, constata Selene.
«Me la cavo, una volta ammetto mi incuriosisse.»
Le due continuano ad indietreggiare, lentamente, a piccoli passi.
Evita di sprecare fiato, e Selene evita di rinfacciarle quanto sia ipocrita. O incoerente. O entrambe.
Non è decisamente il momento.
Osserva finalmente meglio gli uomini, sei uomini, che hanno fatto irruzione, stupendosi di come non sembrino affatto rapitori o ladri.
Non che vi sia una caratteristica che li accomuni, ma si sarebbe aspettata quantomeno un passamontagna come coprivolto.
E le armi... perché delle spade? Sono bislacche.
Sembra abbiano deturpato la cassa d'armi di un soldato dell'esercito.
«Te lo ripetiamo un'ultima volta: consegnaci la ragazza.» Scandisce sicuro, un uomo sulla sinistra.
È calvo, una lieve rifinitura di capelli a descriverne la circonferenza.
«No, non lo farò. Mia figlia resta con me e voi non avete alcun diritto di portarmela via!» Melissa ingrossa e sgonfia rapidamente il petto.
Selene si domanda se sia adrenalina o paura.
Paura di perderla?
«Non ti perderò di nuovo, figlia mia.» Le sorride Melissa, i cui occhi divengono lucidi.
Lievi riflessi di luce danzano nelle sue iridi.
Le rughe d'espressione le contornano le labbra, amareggiate quanto amorevoli.
Melissa si volta nuovamente sui sei uomini, di cui solo uno ferito al fianco sinistro, e compie un passo per ridurre così la distanza.
«C-che stai facendo?»
«Conosci la casa e hai il telefono con te. Corri verso il giardino Selene, corri ed esci dal retro!» Deglutisce Melissa.
Da naturalmente le spalle a sua figlia, non può concedersi distrazioni.
«No, sul serio, non è divertente. Non lo accetto il sacrificio da eroina, non ora cazzo! Non puoi andartene ora, vero?»
La voce di Selene sembra incrinarsi, per un istante. Ogni lettera inciampa sulla successiva, frettolosa.
«Io non me ne vado, te lo prometto. Ma tu devi correre Selene, corri. Adesso!» L'urlo di Melissa riecheggia fra le pareti della casa, il cui marmo sparso qua e là quasi s' ingrigisce.
E lei tentenna, in una smorfia che le contorce le labbra, ma alla fine cede.
Esegue, si volta, e in un solo scatto corre.
Percorre il corridoio della casa, lungo, immenso come non le era mai sembrato.
Percorre la sua mente, il suo odio, il suo rancore, quell'emozione assurda e quel calore provato.
Questa situazione, assurda, e le lacrime minacciano di solcarle e graffiarle il volto, rigandone persino lo stupore.
Se ora lei dovesse morire... cosa ne sarebbe di tutto ciò che potrebbero realizzare insieme?
O di ciò che sarebbero potute essere.
Lo avrebbe accettato, forse, prima. Ma non ora.
O forse si. Non saprebbe dirlo. Non sa neppure cos'è che le devasti la mente e attanagli in tal modo l'animo.
In fin dei conti cos'è cambiato? Cos'è che avrebbe scorto in sua madre, oggi, rivedendola?
Cosa può averle plagiato la mente a tal punto da non desiderare più, non ardentemente perlomeno, che lei muoia?
Selene non riesce a darsi una risposta.
La rabbia, anche a distanza di tempo, era pur sempre un'arma. Ne è sempre stata certa.
Qualcosa da custodire gelosamente, qualcosa che le sarebbe servito poi.
Eppure, non è certa di averne fatto buon uso.
Non è certa neppure di averne ancora.
Corre, ancora, aprendo una porta e poi un'altra, consapevole che potrebbero esserle alle calcagna, con la casa che sembra volerla inghiottire.
Riesce a intravedere gli angoli più nascosti, quelli in cui da piccola amava nascondersi da Melissa e le sue aspettative, curvarsi e inveirle contro.
E poi, finalmente, la luce del sole.
Un prato, dei gradini, un viale.
È fuori.
Si chiude di scatto la porta alle spalle, e le gambe sembrano avanzare da sole.
D'un tratto, ogni passo si fa pesante, come se le gambe barcollassero in procinto di crollare.
Selene avanza, lentamente, e la forza di gravità non le è mai apparsa tanto schiacciante.
Una spalla fa per crollare, un piede non si pone come dovrebbe e il sole le trancia parte della visuale, come se neppure lui avesse pietà di lei.
Un sapore ferroso le pervade la gola, e dopo soli altri due passi si poggia di scatto alla parete della casa, in mattoni.
Deglutisce, e il sapore ferroso è ancora lì, e volge lo sguardo al prato. Tenta di sfuggire al sole, è troppo accecante.
Conduce inoltre l'altra mano, la sinistra, al capo con fare frastornato. Il mondo sembra averla inghiottita e poi rigurgitata.
«Perché?» Sussurra, lasciando che le lacrime le solchino il volto.
Non ne può più di udire le loro minacce.
«Fanculo, uscite quanto vi pare.»
Tira sù con il naso, rialzando lentamente lo sguardo.
L'aria esterna è piacevole. Non la rinchiude tra il rancore di quattro mura colme di lusso.
Eppure...
Si volta alle sue spalle, sulla lignea porta d'acero.
Perché non ode più nulla? Se ne sono andati?
Dovrebbe chiamare immediatamente le autorità, forse, o forse no. Selene non nutre alcuna speranza o fiducia nei loro confronti.
E allora cosa... «Stella!»
Fa per estrarre il telefono dalla tasca dei pantaloni, intenta a scriverle, ma qualcosa la interrompe.
Delle dita, ora sulle sue.
Una mano alle sue spalle.
Si volta di scatto, sussultando.
In procinto di urlare.
Ma la voce le muore in gola, giusto in tempo, come sull'orlo.
Le labbra, lentamente, calano. Si richiudono.
E le sopracciglia ritornano al proprio posto, con le ciglia che invece ora sfarfallano per trattenere eventuali e ulteriori lacrime.
Ha già il viso sin troppo umido, e l'altra si appresta ad asciugarlo di getto.
«Ti ho cercata ovunque, ho visto dalle finestre che c'era del sangue dentro, a terra, ma... per fortuna vedo che stai bene.»
Le labbra di Stella s' increspano, e con le dita si accinge ancora ad allontanare le lacrime dal volto dell'amica.
Sorride ulteriormente quando scorge una nota di pace nel suo volto, ma poi sospira, quasi tremando, poiché il terrore che le si era insinuato nel petto alla vista del sangue le ha divorato persino le viscere. O quello provato nel ricevere quei messaggi.
Ne è ancora reduce.
Ma questo stesso terrore è appena stato tramandato all'altra.
Si è insinuato in Selene.
Si espande, un connubio di rimorso e paura.
«Sangue? Quale sangue?»
Non c'era prima.
Non quando lei era ancora in soggiorno.
Possibile che appartenga all'uomo che Melissa aveva ferito?
Oppure...
«No, no!» Selene scatta in avanti e supera l'amica, che senza pensarci due volte le corre dietro.
Hanno avuto il medesimo pensiero, glielo si leggeva negli occhi.
«Hai ancora le chiavi?» Esita Stella, appena giungono all'entrata principale.
Conduce una ciocca bionda dietro l'orecchio.
«S-si, se non ha cambiato serratura dovrebbero...»
Le estrae dalla tasca, agganciate a quelle della camera d'hotel e a quelle della scuola, e vi ci guizza su con lo sguardo.
Fra le sue dita, scintillando di uno e centomila riflessi, osservandone rapidamente la forma a lei affatto estranea, purtroppo.
Protrae le braccia, e dopo soli due giri completi della mano le due odono un suono lampante, immediato.
Scatta la serratura.
«Si è aperta.»
Le due avanzano, deglutendo, e Stella lascia che sia l'amica la prima ad entrare.
«Sei venuta da sola?» Sussurra Selene, proseguendo.
Pianifica la fuga o è solo curiosa?
«No, c'è la professoressa Alexandra nel parcheggio, voleva a tutti i costi chiamare le autorità o scendere ma l'ho pregata di non fare ancora nulla.»
Spiega Stella, perdendo tuttavia il fiato.
D'un tratto non ve n'è abbastanza per entrambe.
Strisciano sempre più avanti, fra la cucina e il corridoio e il...
Soggiorno.
«Selene!» La bionda le afferra il braccio di scatto, e lei si volta confusa.
Segue d'istinto lo sguardo di Stella, indirizzandolo sul divano.
Lo stesso su cui era stesa lei poc'anzi.
Avanzano insieme, lentamente, e la macchia rossa lì impressa diviene sempre più nitida.
L'impronta di una mano.
È sangue.
Il suo.
«No, no, no!» Selene conduce lo sguardo al pavimento, dove un'altra chiazza vitrea segna il pavimento. E poi un'altra.
Ruotano attorno al divano, superandolo, e la punta di una lama a lei familiare diviene sempre più visibile.
Irrompe nella sua visuale con veemenza, presagendo nonché nulla di gioioso.
E con la punta, anche il resto della spada.
E l'elsa.
Ma anche chi la impugna.
Il tappeto su cui giace, ai piedi del divano, completamente impregnato di sangue.
Tutto è tinto di rosso, ancora.
Come a scuola. Come le pareti di quel corridoio.
Come i corpi di quei ragazzi, deturpati dei propri sorrisi.
Della propria vita.
Tutto, ancora una volta, tinto di rosso.
Stella copre d'istinto le labbra con ambo le mani, poiché una soltanto insufficiente.
«M-mamma, mamma!»
Selene si piega sulle ginocchia, tremando, e queste si macchiano del medesimo colore del tappeto.
Le labbra hanno sussultano in un fremito, e i sospiri le fuoriescono come a intermittenza.
«Tu non... non puoi... avevi detto che non te ne saresti andata ora, non puoi avermi mentito!» Selene corruga la fronte e le sue labbra divengono una linea sottile.
Scuote irrefrenabilmente il capo, e i suoi muscoli facciali sembrano scontrarsi fra loro, incerti su quale sia davvero l'emozione predominante.
«Non di nuovo, non come papà. Ti scongiuro mamma, apri gli occhi!»
Un istante di silenzio segue, e Stella ritrova parte del coraggio perduto decidendo di sporgere dalle spalle dell'amica, così da osservare meglio le condizioni di Melissa.
Non è certa di resistere, a dire il vero, ma non può tirarsi indietro. Non ora.
Deve farsi coraggio, per la sua Selene.
Ma dovrebbe chiamare aiuto? L'altra sembra non averne intenzione, ma cosa potrebbe... "Alexandra!"
Giusto, c'è lei poco distante. Di fronte casa, in pratica, sulla sinistra.
Deve farglielo presente, di nuovo.
"Forza Stella, schiudi le labbra. Fallo. Irrompi nel suo silenzio, ora, per il bene di sua madre. E per il suo."
Deglutisce... decidendo di dar retta alla voce dei suoi pensieri.
«S-selene potremmo, potremmo portarla in macchina.»
Si inumidisce le labbra con la lingua, come seccate dall'aria torbida della casa, ora che l'attenzione della giovane è sua.
La scruta, ha lo sguardo spento. Tranciato, vuoto.
«La professoressa è fuori, quindi può condurci lei in ospedale, no? O p-posso chiederle di venire ad aiutarci, se trovi sia rischioso.»
Fa spallucce, deglutendo ancora, e con il capo sembra oscillare su e giù.
L'occhio le svia su Melissa, ma retrocede di getto.
Sta perdendo troppo sangue, forse sotto le clavicole.
La ferita è troppo vicina al cuore.
O così sembra, ad occhio.
«Si, buona idea.» Annuisce Selene, afferrando il tessuto che riveste il tavolino per tentare di tamponare la ferita di sua madre, pressando con la mano richiusa in un pugno.
Le ciglia le si appiccicano, impastate, e la vista le si offusca gradualmente; la luce esterna sembra penetrare, tagliente, accecandole gli occhi come fosse carta vetrata.
«Mamma non ti farò morire, te lo prometto.» Increspa lieve le labbra, deglutendo, nonostante tremino.
E poi, d'un tratto, non è la sola a sorridere.
«Come mi hai... chiamato?» Melissa schiude lentamente le palpebre, incurvando ulteriormente le labbra.
Selene sgrana gli occhi di colpo, voltandosi sull'amica che d'istinto le ricambia ampiamente il sorriso.
«Sei viva! Cos'è successo?»
«Ti dispiace?» Borbotta la donna, tossendo di getto.
Rivoli di sangue si riversano nella stoffa che Selene le preme sulla ferita, che li assorbe.
La giovane si domanda quando smetterà di uscire.
Perché smetterà, giusto?
Deve smettere, ne è troppo.
«Come ti ho chiamato non significa nulla, ma...» Selene scosta lo sguardo dalle proprie mani, dal rosso, e lo riconduce al viso di sua madre.
«Sono felice che tu non sia morta.»
Non ancora, perlomeno.
Non hanno molto tempo. E forse lo sanno.
«Grazie per... essere tornata da me. D-dove sono loro?»
Deglutisce Melissa, serrando di scatto le palpebre per l'improvviso dolore.
È lancinante, e colpisce non appena la guardia cala.
«Io non- non lo so, speravo me lo dicessi tu!» Scrolla le spalle Selene, tuttavia concentrata altrove.
Tenta di legare la stoffa, infilandola sotto il braccio della donna e ricongiungendo le due estremità sopra la spalla... ma è naturalmente inutile.
Copre a stento la ferita, e il sangue sgorga ugualmente.
Mantenere la presa sulla ferita di Melissa è decisamente più semplice.
«Cosa stai cercando di...» Quest'ultima fa per serrare le palpebre, quantomeno di un occhio, ancora scossa da fitte che le contraggono il viso.
Prima che possa realizzarlo, tuttavia, sua figlia si accinge a sollevarla.
«Stella dammi una mano, per favore.» Un cenno di sforzo nella sua voce. «Si, lì. Grazie, al mio "via" la solleviamo.»
Selene non abbandona la presa di quello che sino a pochi istanti fa era un perfetto copri tavolino, ora posto appena sotto le clavicole di Melissa, ma tenta ugualmente di sollevarla e aiutarsi con l'altra mano.
Stella si curva lievemente, seguendo il conto alla rovescia dell'amica.
«Due, uno...»
Melissa è frastornata dalla rapidità e brutalità con cui il sangue le ribolle dentro, eppure... non aveva minimamente notato Stella.
Non che lei abbia anche solo parlato da quando ha aperto gli occhi.
Le getta un'occhiata, incerta sul da farsi.
Dovrebbe dirle qualcosa? Le è chiaro che Stella sappia di tutto ciò che farneticava sul suo conto... eppure la sta aiutando.
«Grazie, Stella.» Sussurra Melissa, e la bionda sembra pietrificarsi. Quasi sbiancando.
«Selene è fortunata ad averti.» Incurva incerta le labbra, nonostante il tremolio.
Stella tenta di ricambiare, ma non è certa di riuscirci.
Non sa minimamente come reagire.
Non se ne capacita, è fin troppo assurdo. Tutto.
Come al solito.
Forse dovrebbe iniziare ad abituarsi.
Riescono a sollevare Melissa, nonostante questa ansimi a causa della sofferenza. La donna sembra abbandonarsi per un istante a una pace inesistente, serrando le palpebre e inspirando.
Gonfia e sgonfia il petto, ignorando le due giovani che si scambiano sguardi incerti.
Devono uscire. Ora.
«Stella, andiamo.» Fa cenno con il capo l'amica, alla sua destra, nonché all'uscita.
Peccato che il terrore s' insinui negli occhi della bionda nell'arco di un istante.
Divarica le labbra, spalancate in un urlo piatto che glacia e schernisce persino le pareti della casa.
«Selene dietro!»
La giovane si vota di scatto, e scorge un uomo che le inveisce contro.
Un uomo in corsa. Uno di quelli che ha ferito la mamma.
Per un istante il mondo sembra arrestare la propria corsa, ma dura poco. Sa chiaramente cos'è che deve fare.
Solo una soluzione le solca la mente.
«Tienila!» Selene si scosta da Melissa, e la bionda intuisce di doverla sostenere. E
ciò implica anche la stoffa insanguinata.
Deglutisce.
«Che stai fac- attenta!» Melissa tenta di riagguantare sua figlia, ma la voce le muore in gola con un sussulto.
Un colpo di tosse nascente.
Selene corre incontro all'uomo, che fra le dita impugna l'elsa di una spada, ma sussurra qualcosa.
Nessuno ode, non a sufficienza da poter carpire i suoi farfugli.
Ma una cosa è certa.
Dalla mano destra, quella macchiata del sangue di Melissa, nel medesimo modo dei suoi pantaloni, divampa una luce incandescente.
Si protrae, estendendosi in piccoli bagliori fiammeggianti.
Quasi fossero una serie di fiaccole, in cerchio, queste abbandonano le dita di Selene volteggiando lungo un'unica direzione.
Si uniscono in una estesa vampata di calore, una vera e propria onda di fuoco scagliata sul bersaglio e... ci riesce.
Travolge l'uomo.
La spada, ora persino rovente, balza al suolo e in uno slancio l'uomo con lei.
Il fuoco di Selene lo abbatte, facendogli perdere i sensi dopo lo schianto con il pavimento.
Lei sorride, lentamente.
Non è poi così orrendo sentirsi potenti.
Forse comprende, immagina, Aurelia.
«Selene! Quel fuoco...» La voce di Melissa si perde nel baratro dell'oblio, incerta.
Stella al contrario è spaventata, ma l'abilità dell'amica la rasserena. L'ammira, e i suoi occhi risplendono.
«Si, e lo sai.» Si volta la giovane, concludendo in fretta.
«Zio si sarà ustionato e papà là fuori sarà...»
Selene si inumidisce le labbra, schiudendole poi senza pronunciare alcunché, per un istante.
«Ma io non sono mio padre. Non sono loro.»
Qualsiasi tentativo di opposizione e dibattito di sua madre giunge a morte ancor prima di nascere.
Selene non saprebbe stabilirne il motivo: avrà finalmente compreso che è inutile tentare di allontanarla dal proprio elemento, o è solo a corto di energie con cui scontrarsi?
Forse è perché c'è Stella, o forse... cazzo, la ferita.
Giusto, non vi è tempo da perdere.
Possibile che anche in una tale situazione difendere il suo orgoglio venga prima del resto?
Selene si morde la lingua.
«Dobbiamo andare.»
Stella si accinge ad aiutare la donna a uscire, superando dopo una sfilza di passi il soggiorno.
Ma con la coda dell'occhio, li nota.
Nel corridoio, alla loro sinistra.
Altri uomini, armati, in arrivo.
«Selene!» Grida la bionda, istintivamente.
E l'amica segue il suo sguardo, affiancando le due e gonfiando il petto.
Deve preparare un altro attacco.
Ma deve sbrigarsi, e non sa se ne è di nuovo in grado.
Deve. Deve riuscirci.
«Posso fare più fuoco, io-»
«No, appiccherai un incendio così!» Scuote il capo Stella, esagitata. I toni di voce delle due si innalzano, scaldati.
Come i loro animi, prigionieri d'una stasi di terrore.
Ma se non può intervenire Selene, dovrà farlo lei.
È il suo momento.
«Accompagna tua madre fuori, presto!»
Stella striscia via dalla stretta di Melissa, che subito ritrova sua figlia al posto della giovane.
Gli uomini si fermano di scatto, arrestando la propria corsa al cenno della mano di uno di loro.
Stavolta non un pelato.
«Cosa pensi di fare?» Selene rotea con il capo verso l'amica, non ordinando tuttavia alle proprie gambe di fermarsi.
«Tu và! Vi raggiungo subito.»
Selene, con la gola succinta di groppo e armata di pericolo, avanza.
Accelera il proprio cammino, costringendo indirettamente anche Melissa a farlo.
La luce riscalda nuovamente il suo volto e Selene, stavolta, non si guarda indietro. Ma vorrebbe.
È la seconda volta che fugge e lascia qualcuno lì, al posto suo, fra i malintenzionati che hanno fatto irruzione.
Cerca con lo sguardo l'automobile di cui è alla guida Alexandra, irrequieta.
Odono delle grida maschili, alle loro spalle, fronteggiate da un unico trillo acuto, femminile.
Melissa deglutisce, e le sue labbra emettono un tremolio.
Se ora Stella morisse, ipotizza controvoglia Selene, cosa ne sarebbe di loro? Della loro amicizia, dei loro sogni?
Morti.
Tutto ancora dipinto di rosso.
Sostituiti da sua madre. Perché è di questo che si tratta, no?
Ha scelto Melissa, al suo posto.
Sente di essere in errore, terribilmente.
E fra le due, sa bene chi sia stata quella presente.
Quella che lo era davvero.
Quella che da sempre riempie il vuoto delle sue giornate.
Il vuoto della sua esistenza, e del suo cuore.
Un irrequieto suono prolungato, un clacson, irrompe nella sua mente, facendo voltare tuttavia entrambe di scatto.
Mamma e figlia conducono lo sguardo alla propria sinistra, lungo il parcheggio; è la terza macchina della seconda fila, a partire da destra.
Alexandra è alla guida, visibilmente allibita.
La portiera non tarda ad aprirsi, e l'insegnante abbandona il veicolo in fretta e furia.
«Selene! Santo Apollo, cos'è successo?»
Sbraita a gran voce, scattando, sempre più rapida, e visibilmente con il fiatone.
Nei pochi passi che Melissa riesce a compiere, affiancata da sua figlia, Alexandra è già lì.
«Signora, la aiuto io, si aggrappi a me.»
Le sorride la donna, cordiale.
«Questa ferita sembra... la porto subito in ospedale.»
Annuisce Alexandra, quasi più per rassenerare se stessa.
Ha solo scorto il sangue sulla stoffa ormai arida, che l'altra stringe a sé con veemenza, e non visto la ferita, ma a lei non da l'idea che stia poi ponendo forza.
Al contrario, sembra non averne.
Non la conosce, inoltre, ma Melissa le appare terribilmente paonazza.
«Selene dov'è...» L'insegnante non fa in tempo a porre quesiti su chi manchi all'appello, poiché ella spalanca la porta d'ingresso di getto.
«Chiudo, chiudo, chiudo!» Stella quasi saltella sul posto, e in un boato, sotto gli occhi confusi delle due donne e invece gioiosi della giovane, la porta viene richiusa.
«Aiutatemi, presto!» Sbraita lei, usufruendo di tutto il proprio corpo come sorta di scudo.
Sta tentando di tenere a bada gli uomini all'interno, impedendo loro di uscire.
Selene corruga la fronte e getta un'occhiata alla donna dalla chioma verdognola, che fa spallucce d'istinto.
«Stella cos'è successo?!» Va nel panico la giovane, scuotendo le braccia a mezz'aria anziché aiutarla.
«Ho usato i miei rampicanti per tenerli a bada e non l'hanno presa bene ma- ti decidi ad aiutarmi?!»
Sbraita Stella, il cui capo continua a danzare sulla porta, saltellando quanto l'omino di un gioco virtuale a ostacoli.
«S-si scusa!» Scatta Selene, affiancando l'amica dalla testa balzante. «Stella non riesci a rifarlo? A usare ancora i tuoi poteri?»
Digrigna i denti la giovane, facendo cenno con il capo alla serratura.
E dunque, alla maniglia.
«Giusto! Posso provarci.» Stella abbandona la propria postazione e, per un istante, uno spiraglio di braccia maschili si intravede dalla fessura.
La porta sta per schiudersi.
E Selene serra la mandibola, opponendosi con tutte le sue forze.
L'altra sussurra flebili parole, frutto degli insegnamenti di Alexandra, e la sua chioma sembra come smuoversi al richiamo del vento.
Le dita le formicolano e i muscoli facciali indietreggiano, come contratti da una qualche pressione o forza che li pone in difficoltà.
E la sua visuale cambia.
Per un istante, uno e uno soltanto, Stella rivede l'interno della casa. E ricrea, prima nella sua mente, i rampicanti che dopo pochi istanti fioriscono nell'abitazione.
L'ingresso della casa di Melissa, che nel frattempo è stata accompagnata in macchina da Alexandra, diviene un riverbero di imprecazioni e arbusti verdi che si rigenerano a ogni colpo di lama.
Dalle finestre, non quelle frammentate sul lato opposto della casa, nonostante le tende che oscurano parte della visuale, le foglie sempre più rigogliose e l'irritazione del gruppo di uomini sono palpabili.
Trasudano non poca frustrazione.
E Stella, ora intenta a gonfiare e sgonfiare il petto, non può che increspare lentamente le labbra. Compiaciuta.
Più loro sbraitano, più lei si compiace.
«Sei stata bravissima, Stella!» Si volta Selene in un trillo acuto, trattenendo un evidente salto sul posto.
«Mai quanto te!» Innalza le mani l'altra, rivangando il fuoco istintivo e brutale scagliato sull'uomo.
Insomma... chissà se è vivo. Sono così simili, loro, e lei non è di certo rimasta a fissarli.
Non ne nutriva alcun interesse.
Le due fanno per avvinghiarsi in un abbraccio, quando il proprio istinto di sopravvivenza, misto a quello di Melissa in auto quasi in catalessi, suggerisce loro di fuggire all'istante.
O forse è solo la voce di Alexandra.
«Selene, tua madre ha perso i sensi! Corriamo in ospedale prima che sia troppo tardi, ora!»
E abbandonando il gruppo di uomini lì, nella casa della stessa donna ora inerme, le due giovani scattano.
"Egoista, Selene, di nuovo. Pensi sempre alle cose sbagliate al momento sbagliato!"
In preda al panico, con la consapevolezza che il buio stia nuovamente per inghiottire la loro luce.
Quella speranza che si vaneggia non muoia mai.
Stronzate.
Prima o poi, muore. Anche lei.
Come tutti.
Nel frattempo, in un complesso di umidità, solitudine e ardente desiderio di rivedere la luce del sole, tanto quanto quello di non doverne più aver bisogno, un individuo sogna il potere.
L'altro, la libertà.
«Allora, hai finito? I tuoi tentativi di provare a distruggere le catene congelandole mi danno sui nervi, sei patetica.»
La voce piatta della donna dalla bionda chioma riecheggia, lì per la sala vuota. Uno stanzino, forse.
La stessa sospira, serrando le palpebre per un istante.
Abbandona la sedia su cui era adagiata poc'anzi, a gambe incrociate, che scricchiola in un trillo acuto; anch'essa riecheggia fra il vuoto che le umide pareti contengono.
La donna assume inoltre un'espressione succinta, e ancora una maschera di dispiacere.
Una maschera, nulla di più.
Pronuncia le labbra, inarcandole come a voler baciare, ma in realtà ciò serve solo ad assottigliare la propria voce in una esile dalla costrutta dolcezza.
«Oh, andiamo... ora non fare quella faccetta triste! Non vorrai mica farmi sentire in colpa, io ti voglio bene davvero, sai? Con tutte le attenzioni che ti riservo poi, sei un'ingrata!»
Si avvicina ulteriormente all'altra.
Alla sognatrice che ha perduto la speranza.
Le sfiora il mento con l'indice, innalzandolo come a volerle osservare il viso; lei conduce lo sguardo altrove, di profilo.
«E poi, perché tentare ancora? Cara, dovresti arrenderti ormai. Sono trascorsi già tre mesi... lui non verrà, lo sai.
Non verrà nessuno a salvarti, e quelle catene sono antigelo, sai anche questo. Arrenditi.»
Il tono confidenziale o docile poc'anzi adottato, sfuma.
Ora è piatto, gelido.
Una smorfia le contrae il volto, è disgusto.
Allontana le dita dal volto della giovane, e un ulteriore guizzo di rabbia le solca le guance, come pulsando.
«Mi arrenderò... ma quando smetterai di torturarmi.»
La voce della giovane è invece stanca, fragile.
Eppure, per quanto arrendevole, non si è arresa.
Le parole le fuoriescono vibrando nell'aria, gracchianti, schernendo l'umidità e la solitudine, ma con dolcezza.
Quasi timorose, seppur bisognose di evadere e abbandonare le pareti di una mente frammentata, ormai prossima al crollo.
E di abbandonare quelle quattro mura, possibilmente.
Le stanno strette, forse anche più delle catene.
«Torturare, dici? Ma se finora non ti ho torto neppure un capello!»
Aurelia ride, giocherellando con una ciocca ondulata di capelli.
Biondi, lucenti pur sguazzando nell'ombra.
Crystal non ride, non gioca e non splende.
Non più.
«Cosa hai... intenzione di fare?»
Sussurra, flebile.
L'altra non risponde.
Il viso più ossuto, le guance rosse e accecanti come fari notturni che risaltano sul suo volto, ora biancastro.
Qualche capillare risalta, qua e là, e cicatrici e lesioni di vario tipo le imprimono grida e sofferenza, marchiandole il corpo con sagome e ghirigori ora forse indelebili.
Le solleticano la pelle da sotto, le rammentano in velenosi sussurri di non poter fuggire, ponendola dinnanzi alla realtà.
Cruda. Detestabile, forse.
Ma è la realtà.
Crystal è sua prigioniera.
Aurelia la sta torturando ininterrottamente, da mesi, senza neppure rivelarle le proprie motivazioni... non che ne esistano di giustificabili.
Ma forse, sarebbe più corretto definirle un movente.
Qualcosa, tuttavia, Crystal lo ha appreso.
Di tanto in tanto, fra un tranello, un ossimoro e un anagramma, qualche informazione trapela.
Una verità nascosta.
E Crystal ha compreso esservene tante.
«Una cosa l'ho capita anch'io, sai?» La voce della giovane esita, tremolante, ma si schiarisce l 'istante successivo.
Aurelia si volta, corrucciata.
«Così mi stuzzichi l'appetito, cara. Non tenermi sulle spine!»
Agita una mano a mezz'aria lei, roteando il polso.
«Non so cosa tu stia cercando di ottenere da me, ma se mi hai rapita e continui a tenermi in ostaggio è perché... tu non sai ancora come avere ciò che desideri, o forse non puoi.»
Il tono sprezzante di Crystal infastidisce la bionda, che tuttavia perde il proprio sorriso beffardo.
E ciò significa che, probabilmente, ha colto nel segno.
Bingo.
Ora è Crystal a sorridere.
«Non so cosa tu credi di sapere ma sei in errore, non serve sfoggiare quel sorriso del cazzo!» Aurelia scatta in avanti, afferrando la giovane inerme per il collo.
Lei non può opporsi.
O potrebbe, a dire il vero, ma... non vuole.
Significherebbe l'ennesimo livido, l'ennesima macchia vitrea, o paonazza. L'ennesima cicatrice.
L'ennesima tortura e l'ennesima sofferenza, prigioniera di avvilenti e soffocanti mura ingrigite.
Anche lei deve sembrare ingrigita, o avvilita, immagina.
Non ha uno specchio, non conosce le proprie condizioni, ma...
Sente di essere fortunata a non aver ancora alcuna lesione in volto.
In fin dei conti, forse Aurelia è davvero compassionevole.
Reprime pensieri tanto assurdi nel proprio inconscio, consapevole di essere ormai stremata. Si, dev'essere per questo.
Normalmente, certe riflessioni non le sfiorerebbero neppure la mente, no?
Ma Aurelia non vincerà, non può, non deve.
Ha elaborato un meccanismo di autodifesa in queste settimane, giorni, minuti e secondi e... mesi.
Sperava non lo diventassero. Mesi.
Sperava la trovassero prima, ammesso la stiano ancora cercando.
Ammesso abbiano mai cominciato.
Ogni volta che le ombre della sua mente le circondano il petto, privandola del poco ossigeno lì presente, costringe i propri pensieri a volare altrove.
Guizza sul suo volto.
Sul suo sorriso, e sul suono della sua voce.
Caotico, certo, ingenuo e schietto quanto un bambino.
Eppure era la sua assenza di caos.
Si chiede se lei sia mai stata la pace di qualcun altro.
"Ci saremmo dovuti conoscere meglio... io te lo avevo promesso. Scusami, scusa davvero caro Archer."
Sfarfalla con le ciglia, serrando inoltre la mandibola come di getto. Vuole trattenere le lacrime.
Ogni lacrima che abbandona i suoi occhi è una potenziale sofferenza.
Morale, naturalmente, ma anche fisica.
Aurelia sembra amare vedere Crystal piangere...
Ama spronarla a proseguire.
Gonfia il petto ed espira, graffiandosi i polmoni.
Esistere è così stancante.
Si domanda quand'è che riprenderà a vivere.
No, basta. Pensare ad Archer è l'unico sollievo che si concede, la sua unica evasione... perché persino lui ora deve darle pena?
«Ci rivedremo, te lo prometto.»
La voce, un flebile sussurro che esprime una flebile promessa, basta a irradiare il suo mondo.
A illuminare la solitudine di questa gabbia.
«Perché sorridi?»
La voce di Aurelia la riconduce alla realtà.
Odia ogni singolo secondo al suo fianco.
E detesta dover udire ogni variazione del suo respiro o della sua voce... anche perché è spesso piatta.
Non vi sono variazioni.
Questa monotonia non è decisamente di suo gradimento.
Ma... un momento. "Sorridendo?"
Non se ne era resa conto.
«Cosa?»
«Nulla, continua pure a pensare al principe azzurro che ormai non ricorderà neppure più il tuo nome. Come ognuno di loro.»
Inveisce la donna, crudele quanto sottile.
Si infila una giacca marrone, strattonandola via da un appendiabiti nero accanto l'entrata.
Le luci zampillanti dei neon sfarfallano a proprio dire, unica fonte di luce. Non vi sono finestre.
«Stai uscendo?» Chiede rapidamente Crystal, come a voler concludere alla svelta qualsiasi interazione le leghi.
«Si, non provare ancora a fuggire. È inutile.» Aurelia scruta la sala circostante, sondando il terreno alla ricerca di un'arma.
«Devo fornire un piccolo supporto a degli incapaci. Non sono stati in grado di rapire una ragazzina e tutto ciò che hanno concluso è la riappacificazione fra madre e figlia. Ciò che ne resta, quantomeno. Quella famiglia ormai non esiste più... ma il loro colore è ancora vivido, a quanto pare.»
Inarca le sopracciglia, scimmiottando il proprio tono di voce.
Fa spallucce, schiudendo la serratura e i suoi lucchetti.
Crystal corruga la fronte, dubbiosa.
«Allora ci vediamo fra un po'...» Pigia sull'interruttore e procede, superando l'uscio della porta che dà su un evidente condominio.
Richiudendosi la porta alle spalle, la giovane prigioniera le ode borbottare qualcosa.
Qualcosa che suona come...
«Ho sempre detestato il viola!»
"Cazzo, Selene!"
Nell'oscurità che la sua prigionia le regala, ove al conforto e alla pace si scontrano solo pensieri e timori, le iridi di Crystal accendono un nuovo faro di speranza.
Divengono incandescenti, brillando tremolanti come una esile foglia al vento.
Divampano nell'oscurità della stanza e una sfera d'acqua le si genera poco distante, facendole increspare debolmente le labbra. Non sa realmente cosa stia facendo, ma deve tentare.
Almeno un'altra volta.
La massa che muta e diviene informe, assume, a poco a poco un aspetto uniforme.
La forma nascente di un'arma assai diffusa.
Una spada.
E un altro bagliore, i suoi occhi nuovamente come fari.
L'arma si riveste di ghiaccio, assumendo dunque un proprio spessore.
Ordinando a se stessa di lottare, ancora un po', almeno un po', Crystal eleva lievemente il capo verso l'alto come per far cenno alla spada, che ruota su se stessa.
La lama è ora rivolta verso la giovane.
Gonfia il petto, e in un ultimo tentativo le sue iridi, ancora una volta, ardono d'un celeste sfolgorante.
Qualcosa sembra ruggire, reagendo al boato del suo potere, e la lama si infila tra due catene, stridendo al contatto.
Ma oltre a un trillo acuto... non un graffio.
La spada stride ancora, balzando al suolo in un tonfo piatto.
«Cazzo, e rompetevi!» La voce di Crystal si ripercuote fra le quattro pareti in un sottile riverbero di collera, e la spada, nel buio che le accarezza la pelle, svanisce nel nulla.
Si dissolve, a compito- non- esaurito.
«Magari c'è qualcosa che posso fare per te...»
Immediatamente, le iridi celesti e ora lucide di Crystal guizzano nell'oscurità alla ricerca di Aurelia.
Non l'ha vista rientrare. Impossibile.
No, non è stata lei a parlare.
Purtroppo, conosce perfettamente ogni gradazione e variazione di tono. Dunque poche.
Inumidisce le labbra, ha la gola secca.
I capelli impastati sulla fronte la infastidiscono, così scuote il capo.
No, qualcuno ha parlato, ne è convinta.
Serra le palpebre, le socchiude.
Ogni sagoma ora scura sembra muoversi, confondendosi nell'ombra.
Nulla.
Non un singolo movimento nella penombra.
Eppure ne è certa, non lo ha sognato.
Qualcuno ha parlato.
E non è stata la bionda, non Aurelia.
Qualcuno è lì, con lei.
E in effetti non ha torto... qualcuno la sta osservando.
Due occhi, nel buio. Con lei.
Dapprima lontani. Ora vicini.
Crystal non ode neppure un suono, ma quando la ragione si fa contorta e la lucidità diviene solo una mera convenzione sociale... le lacrime scorrono, le solcano il viso.
E dopo le lacrime, una mano.
Fredda.
Sulle sue guance.
Nell'oscurità della sua prigione, la sua possibile tomba.
Crystal sbarra gli occhi e divarica le labbra ma...
Viene ammutolita.
La mano le copre il viso, e l'ombra incombe su di lei.
Trascinandola lì, con sé.
Nel baratro della più grande Verità Nascosta.
SPAZIO AUTORE.
Che dire... bentornati amici!✨
Spero taaaaaanto che questo capitolo vi sia piaciuto, nonostante sia chilometrico, e che nel prossimo potrete dire altrettanto.🫧
È stata la settimana forse più brutta della mia vita, davvero, non credevo sarei riuscito a postare per un'infinità di problemi, ma sono felice di essere qui ora. ♡
Davvero, ormai credevo di essere anche io in VN per quante cose negative mi sono accadute una dopo l'altra, e non entro nei dettagli ma davvero non so come farò ora.
Sono un po' perso, dunque scelgo di ritrovarmi nelle pagine di anime eroiche e più o meno in pena.
Guardare i drammi altrui è sempre più semplice che vivere i propri. ♡
Chi è la figura comparsa alla fine? Cosa pensate del capitolo, di com'è scritto è di cos'è accaduto?✨
Vi voglio tanto bene❤️🩹🫧
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Yours truly💋💋
Ci rivediamo presto alla terza parte👀
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