"Alto tradimento." [CAPITOLO 15]


Una sfida, una scelta.
Si, o no.

Non si torna indietro, non si guarda avanti.

Tic.
Tac.
Le campane del grande orologio di Highest City riecheggiano in un boato assordante.

E il tempo è scaduto.

«Crystaaaal!» Cantilena Aurelia, ruotando la maniglia.

Si richiude la porta e le sue numerose serrature alle spalle.
Lucchetti, metallo, ferro, chiavi.

Ma poi si volta, osserva Crystal.
Ma lei non può ricambiare il suo sguardo.

Sta dormendo.

Ma la giovane, dopo poco, riapre gli occhi. O così crede.
Dolore, dolore ovunque.
Avverte la propria mente frastornata, un caos lobotomizzante. Eppure...
Cos'è questo pavimento così gelido? E questa luce, queste manette sono... no, un momento.

Non sono le spesse catene di Aurelia.
Cos'è questo baccano? Così tante voci, così...

Alza lo sguardo, serrando le palpebre per una frazione di secondo. Reagisce alle luci di non pochi focolai.
Ma poi, gli occhi, li sbarra.

«Ecco perché Lilith ha detto che noi ci conoscessimo...»
Deglutisce, completamente esterrefatta.
In ginocchio, su di un pavimento gelido e celeste.

Ma le è chiaro chi lei sia.
Conosce la donna che ha dinanzi a sé, adagiata su di un trono di ghiaccio con fare saccente e annoiato.
Quantomeno finché i loro occhi non si incrociano.


«... Ho preso parte anch'io alla Grande Guerra.»



Un palazzo la circonda, uno totalmente opposto all'oscurità e alla polvere in cui ogni giorno trova risveglio e sconforto.
Vita e morte, ma che mai sopraggiunge.
Questa non è la sua solita prigione.

Non è il luogo in cui Aurelia le segna giorni dolenti e tortuosi, e nulla delle luci, del lusso e dello sfarzo che le annebbiano ora la vista è anche solo vagamente associabile a quel fetido stanzino.
Non ha neppure ancora capito in che luogo sia, esattamente.

Ma forse, questo, è l'unico punto che accomuna il palazzo e la sua solita prigione.

Tuttavia... comprende all'istante non essere reale.
Purtroppo, non è improvvisamente fuggita alle barbarie di Aurelia riapparendo in un castello colmo di cibo e ricchezze.
O quantomeno, non nella realtà.
E i polsi le dolgono ugualmente, circoscritti da manette lignee e pesanti.

Si guarda attorno, e nella sua mente riecheggiano senza sosta le parole di Lilith, la donna apparsale dinanzi dal nulla.
La sorella di Aurelia.

Come è anche solo plausibile l'idea che tutto ciò che le ha detto abbia un senso?
Com'è possibile che lei, forse, le creda davvero?
Ma quelle parole, quell'avvertimento, lo percepisce ora.
Lo avverte, e ne è consapevole non appena osserva le figure sullo sfondo.

Coloro che la circondano, in lontananza, nonché la folla di persone che riempie la sala del trono.

Dunque è qui che si trova, realizza.
Si, è decisamente un sogno.
Le vesti delle persone sembrano irrealisticamente antiche, poiché strapiene di merletti e visivamente sfarzose... abiti decisamente pomposi e sgargianti per la sua epoca, oltre che dei volti così ignoti e vaghi che non saprebbe rammentarne neppure uno al suo risveglio.
D'altronde funziona così, quando nei sogni appaiono persone sconosciute, no?

Per quanto ci si sforzi di ricordarle, la memoria dei loro volti svanisce nel breve termine, appena dopo il risveglio. È certa di essere in un sogno, o qualcosa del genere, ma...
Dove, esattamente?

Osserva le proprie mani, annerite e in completo contrasto con il pavimento, in cui scintille di luce si scontrano con il suo opaco riflesso. Un pavimento, così come le pareti e ipotizza il restante castello, che sembrerebbe composto da ghiaccio.

Il tetto è estremamente lontano, l'intera sala riveste dimensioni esorbitanti e non osa immaginare l'intero palazzo, ma... chi è questa gente?
E perché sembrano tutti detestarla tanto?

Persino le proprie vesti le appaiono irriconoscibili. Sembra quasi abbia indosso un pigiama, leggero e d'un colorito verdastro,  particolarmente scuro.
Veste come una camicia priva di bottoni e dal collo a V, ma è invece la tuta da detenuta, ben suppone.

Realizza inoltre di avere le caviglie e i polsi immobilizzati, e alle sue spalle scorge la figura di un uomo dalla corporatura massiccia e la pelle più scura, forse olivastra, sorvegliarla, seppur indirettamente.
Non è lei che sta osservando, difatti, ma avverte i suoi altri quattro sensi pienamente indirizzati su di sé.
Sa di non poter compiere alcun passo senza la sua supervisione.

Deglutisce e, ignorando la marmaglia che la malgiudica armeggiandole contro parole d'odio, ruota il capo e pone la propria attenzione sui quattro troni che le si parano dinnanzi. 
Uno destinato al re, uno alla regina e uno alla principessa, affiancato infine da un altro minore e privo di stemma intagliatovi sopra.

In effetti, nota solo ora quanto questo simbolo le sembri familiare e quanto ricorrente sia, qui. Ovunque lei sia.
Persino sulle pareti, fra le tre colorate vetrate verticali che irradiano la sala, nonostante i pochi raggi di sole che sembrano passarvi attraverso, vi sono stendardi bianchi, color panna, che con orgoglio sfoggiano quello che quasi certamente è lo stemma del Regno o, a ogni modo, del castello.

Uno scudo biancastro, forse grigio, difatti visibile appena se sovrapposto all'immagine degli stendardi, che in sé porta la leggerezza e la resilienza di una fenice celeste dalle ali perfettamente spiegate.
Ma anche la gloria della guerra, del potere, racchiusa in due spade incrociate, quasi sguainate con l'intento di proteggere la fenice, difatti in secondo piano. Le spade appaiono come due semplici lame, eppure qualcosa attira e a tratti incanta Crystal.

Sembra potervici specchiare, seppur distante, poiché il loro materiale è il ghiaccio stesso su cui si fonda il Regno. Uno specchio assoluto e sincero, quando privo di opacità.
Ma il candore, cristallino, di quelle armi ha una parvenza di sporco.
Delle macchie, seppur microscopiche.
Sono su ogni stendardo; non può essere una coincidenza.

Forse, ipotizza la giovane, è un chiarore. Un bagliore, come quello delle fiamme avversarie, che viene riflesso.
Come piccole scintille di braciere.
O forse, teorizza ancora a causa del colore che a poco a poco identifica, sono gocce di sangue mai sbiadite del tutto.

A chi appartiene il sangue di cui le lame sguainate dal Regno hanno scelto di macchiarsi, pur di custodire la preziosa fenice celeste?
Pur di non macchiare il suo candore, la sua leggerezza e la sua resilienza?

Un solenne simbolo dalle incerte verità, merita davvero la cieca fiducia di quelle spade amiche?
D'un puro cristallo sbiadito nel tempo che, come lo scudo stesso che rappresenta, ha perso il proprio colore.
Da celeste, come la fenice per cui desistere e porsi in sacrificio, a grigio.
Un puro cristallo sbiadito nel tempo.

Ma poi, è la sua vista a cambiare colore.
Rosso sangue, forse, per lo shock.
Ma anche blu. Un blu che i suoi occhi, lapislazzuli, conoscono in ogni dove.
In ogni singola sfumatura celeste.
O che, a questo punto, credevano di conoscere.

«Ecco perché Lilith ha detto che noi due ci conoscessimo...»
Deglutisce, completamente esterrefatta.
In ginocchio, su di un pavimento gelido e celeste.

Ma le è chiaro chi lei sia.
Conosce la donna che ha dinanzi a sé, adagiata su di un trono di ghiaccio con fare saccente e annoiato; quantomeno, finché i loro occhi non si incrociano.

«N-non è possibile, io... no, non voglio crederci.» Sussurra, Crystal, in un flebile eco sottile e instabile.

Un eco che sfuma lontano, perdendosi nel vuoto della sala e nel giudizio delle lame amiche, ormai non più cristalline.
E nel giudizio della gente, degli ignoti colmi di pregiudizio.
E nel proprio, di giudizio.

Poiché, a quanto pare, colei che la malgiudica e disprezza più di chiunque altro, lì, dall'alto del proprio trono...
Altro non è che se stessa.

«Eppure non mi sembra difficile da comprendere.» Fa spallucce la donna, sbeffeggiando la giovane che ancora è in ginocchio sul gelido pavimento, e con tono pressoché saccente.

Non è di certo la prima persona che si prostra ai suoi piedi, ma è consapevole che ella non sia genuflessa, ma solo, per l'appunto, in ginocchio.
Non per devozione, ma per obbligo.
Ciò la irrita ulteriormente, forse, o compiace... il confine fra le due le appare così sottile da eccitarla.

«Sei qui perché hai commesso il crimine più atroce che la stirpe umana potesse anche solo... vagamente ipotizzare! Il più alto tradimento che le ombre dei caduti avranno modo di piangere, senza dubbio, ma ciò non resterà impunito.»

Tuttavia, per quanto la voce sempre più dura e sfacciata della regina scandisca ed elevi ogni parola, ciò non scuote Crystal.
Non è possibile.
Questo non può essere un frammento di ricordo, o qualsiasi cosa significhino i sogni di cui ha parlato Lilith.
Lei non ha commesso alcun crimine.
Mai.
Non ha mai rubato neppure delle caramelle e non conosce questa gente, non... non conosce nessuno, eccetto la donna che la sta accusando.

Tutto ciò non ha alcun senso.
Deve svegliarsi, fuggire, ma come?
Lilith ha davvero annullato "Verità Nascoste"? Non le ha mentito?
I sogni di cui ha parlato, la memoria che riaffiora e il suo potere... «È tutto fottutamente reale?»

I suoi occhi si anneriscono, forse svuotano, e il suo corpo diviene d'un tratto più leggero. Privo di materia, immagina.
Ma non può essere vero, così come non lo è questo stupido sogno.
"Proprio come le parole di questa stupida donna!"

Ma una voce maschile, alle sue spalle, la riscuote.
La riconduce alla realtà.
Quella in cui è al momento, quantomeno.

«Ti trovi presso la corte del Regno delle Alpi e hai dinanzi a te la sua unica regina: sua Maestà Crystal, nelle cui mani giace il dovere di giudicare le tue azioni e decretare il tuo futuro.»
Prende una pausa, ma la giovane non saprebbe stabilire se è per riprendere fiato, o per fornirne ulteriore a lei.

Un battito, un rintocco. Un ulteriore secondo.
Probabilmente la grande Torre di Highest City ha emanato il suo verdetto, le sue campane si scontrano in un tuonante frastuono.
O è la sua mente, o qualcun altro.

E infine eccolo, il verdetto.
Un ulteriore battito, un proiettile inserito nell'arma.
Ora è carica.

«È la sola e unica che può scegliere se vivi, o muori.»

Bang. Il proiettile è partito.

Ed è così che giustificherà un crimine di cui non rammenta neppure l'esistenza? Non lo ha ancora deciso.
Il proiettile è soltanto partito, d'altronde.
E non ha diritto a un avvocato? Probabilmente no.

Pensieri fini a se stessi, chiaramente. Basterebbe guardarsi intorno.

«La tua vita, ora, appartiene a sua maestà Crystal e ciò a causa del tuo alto tradimento nei confronti del regno e dell'intera umanità. Verrai giudicata per il peccato di cui ti sei macchiata.»

L'uomo dalla carnagione olivastra schiarisce la voce, mutando lievemente espressione. Crystal lo scorge con la coda dell'occhio, ma non si volta e non riesce a definirne la forma.

Tutto ciò che riesce a osservare è... se stessa?
Sua Maestà sorride, un sorriso di circostanza, o forse compiaciuta.
Per l'uomo che le porge un inchino, poco prima di sparire fra la folla? No, improbabile. Non dev'esserle uno scenario poi così nuovo.

"La tua vita appartiene ora a sua maestà Crystal."
Ah, ecco cosa. È solo sadicamente compiaciuta dall'espressione che quel servitore ha utilizzato. Che ha scelto di utilizzare.
Ma a lei, invece, non spetta più alcuna scelta.

È davvero così, dunque?
La sua vita appartiene all'ombra di se stessa?
Era prigioniera di Aurelia, ma ora lo è del proprio passato.

E pensare che avrebbe soltanto voluto liberarsene.
O comprenderlo.

In un certo senso, non fa alcuna differenza.
Non le spetta più alcuna scelta. In ogni caso.
In ogni prigione, mentale come fisica.

Eppure, avere dinanzi a sé una Crystal completamente opposta che gioca con la sua vita come fosse un giocattolo, come se allietare la propria monotona esistenza su di un trono valga più della sua intera esistenza... no, questo non le lascia comprendere proprio nulla, affatto.

Eppure spiega molte cose.










«Dunque?»
Inarca le sopracciglia Yelena, inumidendo le labbra con la lingua; allontana il piccolo bicchiere di carta dalla bocca, scuotendo lievemente il fumante caffè al suo interno.

La carta s'intinge di nero.
Il bianco perde la sua purezza.

Analogia interessante.

«Cos'è che vuoi sapere, ancora?»

Sospira Edward, conducendo solo in un secondo momento gli occhi sulla giovane. I due sono nel suo ufficio, in accademia, ove il bianco e il marrone regnano sempre sovrani.
Così monotono, così lineare. Fin troppo.

Sono recenti i quadri sulle pareti? Spesso, Yelena, li ha osservati. Ha osato farlo, ma non ha mai osato chiedere.
Sono persone, persone che è certa non vedano più la luce del sole da molto tempo, persone che è certa di non conoscere.
Eppure...

E i mozziconi di sigarette? Anche quelli sono recenti?
Una ceneriera marmorea sulla scrivania, all'incirca otto mozziconi.
Yelena ha una vista ottimale. Era un requisito per immatricolarsi, rammenta. Ma vorrebbe non rammentare alcunché.

«"Ancora"? Non mi hai detto proprio niente!»
E ha anche ripreso il vizio di fumare, a quanto pare.
Non glielo aveva detto.
Un'altra novità.

«Yel, ne abbiamo già parlato prima, venendo qui. Non sono cose che ti riguardano, devi starne fuori.» Sospira, una o due volte.
Troppe, secondo la giovane. Sono sufficienti ad irritarla.

«Hai finito? Se non sarai tu a parlarmene indagherò per conto mio. E non sono più una bambina, non c'è bisogno di nascondermi nulla.»
Getta un'occhiata al quadro di una donna, sulla parete, in alto, dietro la polverosa scrivania.

In piccolo, sopra la cornice, vi sono incise le iniziali.
Non vi ci sofferma. Non sono importanti.

«Proprio perché non sei più una bambina non dovresti fremere così tanto di curiosità, no? E, proprio perché non sei più una bambina, dovresti anche saper accettare i no, di tanto in tanto.»
Sforza lievemente la voce sull'ultima espressione, facendo per sedersi sulla corvina sedia di pelle.

Ma non deve davvero sforzarsi per piegare il busto, o le gambe, e Yelena lo sa. D'istinto vorrebbe incurvare le labbra, ma tronca il movimento sul nascere.

Edward non è di certo così anziano, anzi. Guida pur sempre uno squadrone, oltre l'Accademia, e nasconde pettorali, polpacci e bicipiti non indifferenti.
Ma ha da sempre, in determinate situazioni, finto il contrario.
È "quella cosa loro".
Quella per cui la vista s'incrina e frammenta in luci riflesse.

La piccola Yel era solita salirgli sulle spalle, e quando l'uomo non ne poteva più di farle da "trenino" partiva con i piccoli lamenti, con improvvisi e recitati dolori qua e là e voce gracchiata, se necessario. Solo quando la piccola non voleva proprio saperne di scendere, quantomeno.

Ma lei lo ha sempre saputo, persino in tenera età.
Le piaceva immensamente la vista, lì, sulle spalle di un uomo grande e robusto. Il punto di vista di qualcuno che ancora le voleva bene, persino dopo aver perso chiunque altro.
Lassù, la vista era fenomenale. Irraggiungibile.
Le sembrava di toccare il cielo con un dito, quando ci provava.

Da sola non ne era in grado.
Ma sulle spalle dell'improvviso padre che il fato le aveva donato, si. Con lui ci riusciva sempre.

Ogni tanto le manca, quella "magia". Ora ha la sua stessa altezza, forse poco meno, eppure il cielo le risulta così distante.
Una meta impossibile da raggiungere. Persino in punta di piedi.

Con o senza mezzi. Con o senza amore.
Chi ha varcato quella soglia non è lì per raccontarlo, e lei non può più toccare il cielo con un dito.
È impossibile, ora lo sa.
Loro lì, lei qui.

Edward tossisce, schiarendosi la voce, e la giovane sembra crollare inesorabilmente giù assieme alla amara nuvola immaginaria sulla quale fluttuava, che difatti svanisce.

«Tutto ok? Che ti è preso?»

«Niente, perché?» Scuote impercettibilmente il capo, lei.
È tornata al presente. Non è certa di esserne gioiosa.
Ma non rimpiange il proprio passato.
Solo pochi attimi.

Edward corruga la fronte, osservandola sottecchi.
«Beh, è sempre un'impresa zittirti. Anzi, a dire il vero solitamente fallisco quando oso provarci. A che pensavi?»

La giovane curva le labbra, lievemente, schiarendosi la voce a sua volta non appena rammenta di avere ancora il bicchierino colmo di caffè fra le dita. Non scotta più, o deve essersi abituata a quella temperatura, ipotizza. Lo conduce alle labbra, e ingerisce quanto rimasto.
Amaro.

«A nulla, mi hanno solo incuriosito i quadri sulle pareti. Nell'accademia ci sono diversi segni, scritte incise nei vari corridoi e forme forse geroglifiche nelle aule, ma... questi quadri sono solo qui, in ufficio, dico bene?» Inclina lievemente il capo, pronunciandosi in un accennato sorriso; a un punto di non ritorno fra la ritrovata curiosità e la sua solita sfacciataggine.

«Uhm, sì... se non erro sono sempre stati solo in quest'ufficio. O almeno, lo sono da quando c'è mio padre al governo, di questo sono piuttosto sicuro.» Si guarda attorno con aria attonita, o forse infelice. «Mah, a me sinceramente non piacciono.»

«Dunque è per questo che spesso sparivano!» Ride Yelena, risplendendo negli zigomi alti e nella chioma corvina, ondeggiante. Anche le sue ciglia lunghe, forse, contribuiscono a rendere quegli occhi astuti e felini così dolci e letali.
Quantomeno all'apparenza.

«Ah, sì.» Sospira divertito, il Generale.
Ogni volta che qualche addetto pulisce il suo ufficio, oltre a spostare carte in ogni dove come fossero semplici foglietti, puntualmente, riappaiono magicamente quei maledetti quadri.

E ogni volta assumono posizioni diverse.
Facce, volti, sguardi antichi e profondi, saggi ma mai polverosi.
E lo scrutano, colmi di giudizio e opinioni taciute.
Si sente osservato; Edward li detesta.

«Continuano ad appenderli, sono insopportabili. Non li brucio solo per non far arrabbiare inutilmente mio padre, che a questo punto suppongo ci tenga. Non so dirti nulla al riguardo, comunque, se non che da quando ne ho memoria loro sono qui.»
Osserva uno di loro, uno dallo sguardo particolarmente saccente, e arriccia il naso in una smorfia di fastidio, indispettito, nonostante dal quadro non possano giungere risposte.
«Mi spiace.» Conclude, infine, schiarendosi la voce.

«Per cui hai dedotto siano qui da quando c'è Guzman al potere, giusto?» Riprende Yelena, rifacendosi alla sua prima affermazione che vedeva il Capo del Governo come diretto interessato alla presenza di questi quadri.

«Si, perché se non erro... oh si, credo che sia andata proprio così. Quando salì al potere mio padre ci fu molto trambusto per varie, credo, indiscrezioni. Instaurò fin da subito diverse riforme, prese non poche decisioni drastiche e fra quelle vi era una ristrutturazione, se così la si può definire, dell'Accademia militare. Li vidi con i miei occhi, erano in un grande scatolone polveroso.» Si gratta il mento, perdendosi in un punto casuale del vuoto con fare pensieroso.

La giovane non saprebbe se etichettare quel gesto come un tentativo di fuga, quella-cosa-loro, o come un reale modo di immergersi nei propri ricordi, polverosi quanto quegli stessi scatoloni. Decide tuttavia di seguire il suo flusso mentale.

«Il giorno in cui ottenesti questo ufficio in quanto Generale, dico bene?» S'acciglia lei.

«Si, li vidi, ora lo ricordo. Suppongo fossero fra gli oggetti vecchi... ma non so perché mio padre abbia voluto a tutti i costi appenderli qui. Non so dirti altro, comunque.» Fa spallucce, sospirando.

«E sulle accuse che ti vedono come il colpevole pluriomicida di quei poveri studenti, deceduti il primo giorno di scuola per quella che sappiamo essere la loro, ormai ex ma fuggitiva, preside? Sai dirmi qualcosa al riguardo, invece?»
Lancia, senza neppure osservare il cestino poiché ha lo sguardo fisso su Edward, il bicchierino di carta.
Centra il secchio della spazzatura.

«Touchè!» Fischia a se stessa, udendo il classico suono della carta a contatto con la parete del cestino, ricoperta dalla plastica della busta.

«Yelena, ti ho gia detto che-»

«Non mi hai detto un cazzo, finiscila e dammi dei chiarimenti.» Si avvicina alla scrivania, poggiandovi su i palmi delle mani.
Lo cattura nel proprio sguardo, non scrollandogli gli occhi di dosso.
«Giuro su Aphrodite che non farò nulla, non interferirò, ma necessito di sapere cosa mi stai nascondendo!» Inarca le sopracciglia, apprestandosi ad assottigliare la voce e sfarfallare le palpebre. Inizia.
«Non sopporterei di perderti all'improvviso, senza saperne nulla, senza avere la minima idea di cosa cazzo succeda a chiunque io voglia bene, ancora. Me lo devi, Edward, non puoi permettere che accada quindi devi spiegarmi tutto, e subito!»

La contraddizione e la dualità che aleggiano fra il tono imperativo, gli occhi dolci e la voce incrinata di Yelena spezzano in due l'uomo, che si ritrova, ancora una volta, vittima della sua subdola trappola.

Edward innalza gli occhi al cielo in un sentito sospiro, ma poi, pur inclinando il capo verso un angolo dell' ufficio casuale, in alto, riconduce i propri occhi sulla giovane.
«Yel, sai bene che non vanno fatti giuramenti su Aphrodite, diamine. Lei non è considerata un Dio creatore!»

«Su, su, che importa! E poi non ha alcun senso. Solo perché donna non ha diritto a qualche titolo in più? Se gli uomini lassù si sentono minacciati da una gran figa potente, nonostante siano anche loro rinomate divinità, devo dire di esserne davvero delusa. A questo punto suppongo siano più infimi e piccoli di qualunque uomo terrestre, e diamine se ce ne vuole! Fanno a gara con il mio ex.»
Scrolla le spalle con superficialità, consapevole di aver immesso una satirica critica patriarcale laddove non ve ne era affatto il bisogno.
Ma ne è compiaciuta.

Lo fa spesso, e con il solo intento di irritare l'uomo con cui dibatte. Non perché ci creda davvero. Non in questo caso, perlomeno.
Lo sfortunato fato di Edward ha voluto che fosse proprio lui, oggi, il suo malcapitato.

«Supponi male, ma non ho tempo per rispondere alle tue... affermazioni. O diffamazioni. Piuttosto, a breve avrò da fare e tu farai meglio a scorrazzare lontano assieme a Yvette, che "suppongo", e ora sarò io a farlo, stia origliando tutto da dietro la porta.» Inarca le sopracciglia e indica la porta, pur mantenendo il contatto visivo con la giovane.

Dopo un attimo si appresta a riordinare dei fogli, che agita fra le mani per impilarli l'uno all'altro.

Odono entrambi un guizzo, seguito da uno starnuto.
Forse Yvette accovacciata dietro la porta. Forse per lo spavento, sentendosi d'un tratto nominata dall'uomo, sarà caduta.
Casca spesso al suolo dalla paura, in effetti.

Edward sorride. «Ho supposto bene, quindi.»

«Di cosa stai parlando? Io non ho sentito nulla.» Solleva le braccia e le spalle, Yelena, inarcando le sopracciglia con fare innocente. Eppure estremamente bugiardo.
«E non ho ancora sentito nulla nemmeno da te, fra l'altro! Non una spiegazione! Sputa il rospo, forza.»

Edward sospira, esausto. «Sarò breve, ma poi sparisci.»
Inspira, serrando per un istante le palpebre. Si appoggia allo schienale della poltrona.

Yelena si zittisce, ansiosa.

«In teoria...»

Yelena annuisce, invitandolo a proseguire.

«Se tutto va come dovrebbe, e mio padre interviene...»

Yelena annuisce ancora. Deglutisce, ma non c'è molto da deglutire.
Yvette comprime un orecchio contro la parete della porta.
Teme possa fondersi al legno, a momenti.

«La denuncia, anzi, le denunce sono rivolte alla scuola come istituzione, e al governo, per la mancata tutela degli studenti.»

Le ciglia annerite dal mascara di Yelena sbattono, scandendo lo scorrere del tempo.
Scorre più in fretta, più di quanto dicano le lancette.

«Tuttavia, serve un capro espiatorio, che... probabilmente non sarò io, ma mio padre. Io mi limiterò a porgere delle scuse pubbliche alle famiglie coinvolte. Ma è più complicato di-»

Yelena lo interrompe, furente.
«Che preoccupazione inutile, cazzo! Rischiavo l'infarto perché a volte dimentico che hai il padre ricco e influente! Fanculo, a pensarci avresti potuto non dirmi nulla.»

E se ne va.
Yvette si scosta di colpo dalla porta non appena la maniglia viene ruotata dall'interno, da Yelena.

«Ahi! Stavo per cadere di nuovo!» Sbraita corrugata all'amica, scuotendo la propria chioma rosata.
«Oh...» Il suo sguardo incrocia quello del Generale, che si sporge lievemente dalla scrivania per intravederla.

«Ciao Generale Edward! Che coincidenza incontrarla quii!» Lo saluta animatamente, Yvette, scuotendo la mano.
Sfoggia un ampio sorriso, proseguendo con il saluto... per circa altri tre minuti.








La regina abbandona il proprio trono e le sue lunghi vesti, un lungo abito turchese ornato da dodici zaffiri blu che le circondano la vita e risaltano, forse impreziosiscono, il seno.

«Dunque... ti sei schierata contro i tuoi stessi alleati, ti sei lasciata abbattere e manipolare da una perfida macchiata dal sangue demoniaco, che è per eccellenza la perdizione e lo scarto più deplorevole di questo mondo, e infine ti sei arresa. Sei diventata a tua volta uno scarto, una deiezione, uno... sì, perché no, uno sterco! Sei l'equivalente dello sterco di un fetido suino da macello!» Crystal, la regina, annulla la distanza che la separava da Crystal, la prigioniera.

La guarda dall'alto, le sorride.
La deride.

«Santo cielo da quanto va avanti e quando terminerà quest'incubo!» Sospira la giovane, al suolo, volgendo lo sguardo al tetto del palazzo.
Non ne può più.
Non l'avrebbe mai detto ma vuole tornare da Aurelia.

È meno irritante di se stessa nei panni della regina stronza.
Chissà se tutto ciò corrisponde alla realtà, pensa.

«Quest'incubo? Oh cara, tranquilla, avrà presto fine. Cesserà quando cesserai anche tu di esistere!»
Le sorride, ancora. La deride, ancora.

O forse è semplice disprezzo. Non comprende come questa traditrice possa somigliarle tanto.
Non hanno nulla a che vedere l'una con l'altra, in fondo, ma ciò la irrita.

«Io non so di cosa tu- lei, stia parlando! Non sono io la persona che state cercando, non conosco nessuno di voi e non posso aver tradito qualcuno che neppure conosco!» Scuote il capo amareggiata, conducendo i propri occhi in quelli della regina.

Sono troppo simili per non appartenersi.
Ma non sono uguali, no. Qualcosa le differisce.
E non sono solo gli occhi, ma tutto.
Forse il mondo stesso, forse ciò che ognuna nasconde, forse altro.

«Ah, no? Sono certa che il rosso del fuoco ti doni... dicono anche che riaccenda emozioni e ricordi, sai? Magari in tal modo rammenterai qualcosa.» Arriccia il naso e socchiude appena le palpebre, sua Maestà, sprezzante.

«Il... cosa?» Crystal strabuzza gli occhi, avvertendo d'un tratto la presa gelida di due mani sulle braccia. Si volta di scatto su entrambi i lati, scorgendo due guardie differenti afferrarla e costringerla ad alzarsi con la forza.
«No, no un- un momento cosa volete farmi, lasciatemi stare ho detto!» Le guardie, come apatiche, neppure reagiscono alle sue grida stridule.
«Lasciatemi, fermatevi, basta v-voi non potete farlo! LASCIATEMI ANDARE VI SCONGIURO!»

Nonostante gli strattoni lei prosegue a dimenarsi e a lacerare ogni squarcio vitale con le proprie urla, fendenti, e i due uomini a trascinarla inesorabilmente verso una luce che mai, in vita sua, le era parsa tanto spenta.
Una luce priva di candore, ma non di calore.
Una luce priva di speranza, una luce priva di vita.

È davvero solo un sogno?
Cosa accadrebbe alla vera sé, se ora... morisse?
Per mano di Crystal, fra l'altro. Di se stessa.

L'ombra, il riflesso taciuto e polveroso che sino ad ora solo lo specchio era in grado di scorgere, che riemerge alla luce del sole.
Che uccide l'entità riflessa, quella considerata reale.

«La voglio arsa viva! È necessario, poiché solo così quest'incubo potrà giungere al termine. In quanto Regina del Regno delle Alpi condanno la giovane traditrice a morte! Perirà fra le fiamme del rogo, e questo serva da lezione a ognuno di voi!»
E la sentenza è stata emessa. Morte.

La voce gelida della donna riecheggia nel castello in tuonante frastuono, sotto lo sgomento dei presenti, dei sudditi, e d'una fra loro. Si volta con classe, riprendendo posto sul proprio trono, ben lucidato. Getta un'occhiata ai posti vuoti accanto a sé, poi osserva l'appena condannata crogiolarsi e piegarsi sulle ginocchia nel tentativo di sfuggire alla propria sorte.

«Quell'abominevole creatura ha macchiato l'umanità, la mia famiglia e persino la mia dinastia di eredi al trono... compresi i prescelti dal potere del Ghiaccio Eterno. Non merita un briciolo di pietà, non un istante di vita...» Sussurra, ancora, contorcendo i propri muscoli facciali dall'evidente rancore. Il sangue le ribolle nelle vene con ostilità.
«Che perisca fra atroci sofferenze per la divina iustitia, a morte!» Ribadisce, in risposta alle grida dell'altra.

Pochi sudditi osano avvicinarsi nuovamente al trono, ma in un gesto di devozione. Non osano esporsi al riguardo.
Tuttavia, una fra loro nota un dettaglio: la mano sinistra che sua Maestà ha posato come suo solito sui braccioli del trono, richiusa in un pugno, trema.
Persino il suo volto ribolle di rabbia. O forse paura.

«Quest'incubo potrà... giungere al termine?» Crystal sussurra, ripetendosi le parole della Regina di poc'anzi.
La legge e la sorte, l'una l'analogia dell'altra.
Quasi sobbalza, realizzandolo, ma smette di opporsi ai due uomini che la stanno trascinando via.

Finirà?
Cesserà davvero?
Ma cosa c'è dopo la fine?

Un risveglio? È davvero possibile?
"Dicono anche che il fuoco riaccenda emozioni e ricordi."

E se... se fosse questa, la sua "prova"?
Bruciare, consumarsi, accartocciare una parte spirituale di sé per farne tornare un'altra?
Un ricordo per un altro, una vita per un'altra.
Una parte di sé in scambio, come una moneta.

Per uno e un solo istante la giovane smette non solo di dimenarsi, ma persino di pensare.
Il mondo le vortica rapidamente attorno, rapido, rapidissimo, semplicementetroppomadavverotroppovelocevelocissimo.

Fine.
Blackout.

«Lilith?»






SPAZIO AUTORE. TW: Lunghezza e problemi personali, famiglia, e bho... me.

Ciao, amici, amiche, amic*. Come va?
Come state?
Io... beh, sto. Ho spesso detto di essere in periodi difficili, ma stavolta credo davvero che lo sia.
Non siete costretti a leggere e non so chi arriverà qui, e dubito che ne parlerò anche nelle storie di ig o su tik tok.

Non so come dirlo, quindi lo dirò e basta:
a mio padre è stata diagnosticata l'epatite, e non è tutto, ma non entrerò nei dettagli al momento.
Ciò che intendo è che io non sono a casa.
Da un bel po'.

Non mi va, almeno per ora, di stare da mia madre [non perché sia un mostro o abbia fatto qualcosa di negativo, nello specifico, ma non è la persona con cui vorrei vivere] e dunque sono da mia zia, con mia cugina e mio cugino.
È tutto, troppo, estremamente difficile per me, e lo è anche scrivere queste parole così come lo è stato terminare questo maledetto capitolo, che mi ha fatto esasperare e non poco.
A breve, a quanto pare, dovrò anche traslocare.
Non vedo casa mia da quasi due settimane, ma quando la rivedrò sarà, probabilmente, per fare scatole e scatoloni.

E poi? Non lo so.
Non posso pretendere ospitalità a vita e non vorrei neppure trasferirmi integralmente da mia madre.
Per cui... ho fatto molti colloqui. Ne farò ancora, per un lavoro nello specifico, ma nel frattempo ne ho trovato uno.

Riuscirò a prendermi una casa in affitto? Non lo so. Ho diciott'anni e sapevo che, una volta terminato il liceo e iniziata l'università, avrei attraversato un periodo di rinascita.
E lo dico per me, perché avevo stabilito io dei paletti e dei nuovi traguardi da raggiungere, nuove vesti da ricoprire.

Ma non queste.
Non mi aspettavo di dover ricominciare TUTTO da capo.
Non so cosa ne penso, non so come sto.
In un momento sono molto felice, canto diva di Beyoncé sculettando e fantasticando su storie da scrivere e sulla mia vita differente.

Poi, però, in quello successivo mi ritrovo mia madre che non riesce a dirmi altro che "ma tu lo sai che dovrai traslocare? Quando prendiamo i mobili? Ti avevo detto di andare stamattina, se fossi venuto..."
"Zia quando chiama la padrona di casa, lunedì?" [Gliel'ho detto circa 5 volte al giorno in due cazzo di giorni. Ma che hai, l'alzheimer?]
Oh e un'altra meravigliosa uscita: "ma tu lo sai che tuo padre ha rischiato di morire, vero?"

No, mamma, non lo so. L'ho portato in clinica piangendo e ora è stato trasferito in ospedale così, per passatempo.

Poi si lamenta se le do della rincoglionita.

Dunque ecco, ecco cosa si nasconde dietro ai miei silenzi e ai post diminuiti, alla frequenza di capitoli che va scemando.
Ma non mi fermo, non ne ho alcuna intenzione.
Sta cazz di revisione finale dovrà pur finire, e io ho intenzione di metterci tutto me stesso nello scrivere, cancellare, riscrivere e rileggere ancora e ancora, perché questo è il mio modo di esprimere la mia arte, o ciò che vorrei che un giorno venisse considerata tale.

E questo nonostante adori mia zia e i miei cugini, ma faccia fatica a scrivere e mettermi soprattutto nel mood e nella condizione di farlo [io amo stare da solo e dovendo uscire più spesso, non avendo tutte le mie cose, i miei cibi e bevande di fiducia, i miei spazi in ogni momento perché prima ero quasi sempre solo, il mio aerosol di fiducia poiché sì, giudicatemi pure ma io amerò farlo senza medicina a vita perché mi rilassa da morireeee, la mia musica a palla costantemente messa, il mio guardare video di elisa true crime, grace on your dash e TheLady mentre mangio ogni 2 ore al giorno eccetera eccetera...] [E i video bene o male sto trovando escamotage per guardarli!]

Poiché, per quanto disastrosa fosse la mia vita negli ultimi mesi, per certi versi, a volte, un po' e un po' tanto, mi manca.
E un po' tanto.

Ma non piangerò sulla tastiera anche ora.
L'ho scelto a fine agosto, che da settembre avrei iniziato la mia rinascita, per vari motivi.
Non per questi, no, non era ciò che mi aspettavo.
Ma avevo, ad esempio, già scelto di lavorare, dunque cosa cambia?

Nessun problema. Posso farcela.
Posso sempre farcela, come tutti.

L'ho scritto nella dedica a inizio VN, la stessa nata in un momento di fondo che ho creduto essere estremamente elevato, nonché, appunto, a inizio settembre. Quando forse, qualcosa, lo avevo intuito.

L'ho detto lì, lo ridico qui.
Ho paura per la vita di mio padre e per i miei rimpianti, per la mia vita, per la mia intimità, per la mia arte, per il mio futuro.
Forse, ho paura della vita.

Ma ho capito di essere l'unico a cui dover dimostrare qualcosa, e che chi come me ci è arrivato tardi, avrà la propria rivincita.
E che la mia, inizia ora.

Possiamo farcela, se stai leggendo e per un qualsiasi motivo soffri, non mollare.
Ti scongiuro, non lo fare, perché io non lo farò.
Urla, piangi, ignora, evita, lamentati, sfogati, trattieni, sorridi e riparti.
Io non mi fermo ora.

Concilierò le mie due passioni principali, in un qualche modo, e ci sto lavorando, sto lavorando a tante cose.
Ma possiamo farcela.

Sia io, che tu che leggi, che chiunque altro.
Oh, e spero che il capitolo ti sia piaciuto, ad ogni modo!

Ci ho provato, forse ci ho messo un po' di me, forse no, ma spero sia stata una bella lettura.
Ci rivediamo al prossimo! Non so quando, ma spero presto. <3

Love u. ♡
Your's truly.

A presto!❤️‍🩹🫧
Stay tuned.

-Sariel

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