Capitolo 3. Annabeth

«Hey Annie, sono le dieci e mezza», disse mio padre con tono dolce, sostando sulla soglia di camera mia.

Scostai il libro appena finito, lo poggiai sul pavimento e mi rimboccai le coperte.

«Lo sai anche tu che sono rimasta sveglia molto più a lungo senza problemi», ribattei sorridendo mentre attraversava la stanza e si sedeva ai piedi del mio letto, facendo piegare il materasso.

Allungò un braccio e mi alzò le coperte sopra le spalle col volto assorto. Negli ultimi tempi era stato molto impegnato col trasferimento, le occhiaie marcate e le borse sotto agli occhi ne erano la conferma.

Era in questi momenti che pensavo che avesse bisogno di qualcuno al suo fianco. Non come un amico, ma un compagno, qualcuno di cui fidarsi sempre... o quasi.

«Vorrei che la mamma fosse qui» sussurrai guardandolo. Lui sospirò e scosse leggermente il capo. «Anch'io cara.» Si alzò accarezzandomi la testa e si avvicinò alla porta. Spense la luce ed uscì sussurrando un 'buonanotte' sommesso, velato di stanchezza.

Impiegai un paio di minuti ad abituarmi al buio. Mi sistemai meglio, esausta.

Tra quelle coperte mi sentivo al sicuro, niente poteva ferirmi, niente poteva attaccarmi, ero finalmente salva sì, salva. Al sicuro dai malviventi e dagli "spiriti demoniaci" attorno al letto, da coloro che mi detestavano e che dicevano di volermi bene.

Ero al sicuro da tutti, ma non da me.

Perché era di me stessa che dovevo avere paura, quando i ricordi si incastravano nella mia mente e non volevano andarsene, divorando ogni gioia e soddisfazione.

Là, fra quelle coperte, le lacrime iniziarono a scorrere calde, accompagnate da piccoli singhiozzi silenziosi.

Aveva detto che mi avrebbe protetto.

Non era vero.

A svegliarmi fu un dannatissimo trillo metallico, emesso da un oggetto maledetto ogni mattina da studenti di ogni età, costretti ad abbandonare il proprio angolo di paradiso per recarsi in piccole aule piene di gente con la quale non si vuole parlare e professori barbosi. Lo stesso oggetto che venne scaraventato contro al muro perché non smetteva di perforarmi i timpani.

Scostai di controvoglia le coperte, per poi trascinare le gambe giù dal materasso.

Gettai lo sguardo fuori dalla finestra, il cielo era ancora scuro, ma senza nuvole; sarebbe stata una giornata soleggiata e fresca, perfetta per il primo giorno in una nuova scuola.

Una volta essermi preparata andai in cucina. Anche se l'idea iniziale era farmi delle crêpes, quello che avevo del piatto assomigliava molto ad una pastella bruciata ed informe.

Infilai una giacchetta di jeans ed uscii, zaino in spalla, per dirigermi verso la mia nuova scuola.

Il marciapiede era già affollato nonostante l'ora e il classico viavai di New York mi spingeva da un lato all'altro del piccolo spazio pedonale.

Uomini d'affari, donne in carriera e studenti mezzi addormentati si spintonavano formando fiumi che scorrevano lungo le strade, gremite di taxi ed automobili.

Finalmente riuscii a trovare una strada secondaria, completamente vuota se non fosse per qualche ragazzo con lo zaino in spalla. Mentre osservavo i palazzi che mi circondano, affascinata dalle svariate rifiniture e dalle linee moderne che caratterizzano Manhattan, qualcuno mi strisciò la mano sul braccio, tirandomi la manica, per poi cadere rovinosamente davanti ai miei piedi.

Sobbalzai e feci un piccolo passo indietro. Una ragazza giaceva sull'asfalto grigio del marciapiede lamentando un dolore al ginocchio; aveva i capelli lunghi e leggermente mossi, scuri ma tendenti al rossiccio, con piccole trecce che terminavano con delle piume. La pelle mulatta e i lineamenti duri ma aggraziati mi permisero di associarla subito ad una nativa, almeno d'origine.

Mi chinai, cercando di bilanciarmi col peso dello zaino che mi sballottava.

«Hey, tutto okay? Niente di rotto spero» le chiesi, porgendole una mano quando si voltò. Rimasi affascinata dai suoi occhi, erano verdi giada, ma con riflessi incredibili, tanto che sembravano quasi iridescenti. «Grazie.» Sussurrò lei, tirandosi su con le guance rosse e l'aria impacciata. Si strofinò il cardigan beige e i jeans, poi riportò la sua attenzione su di me.

«Piper McLean.» Affermò allungando una mano fine, con le dita affusolate, ornata da bracciali argentei e anelli. «Annabeth Chase, è un piacere», risposi ricambiando la stretta. «Piacere mio. Ah, e... scusa, per prima, di solito non travolgo la gente che passa per strada.» Disse sorridendo, ma con una nota di colpevolezza. Mi scappò una leggera risata e lei sorrise, il suo imbarazzò sparì di colpo, tanto che quando iniziò a parlare sembrava ci conoscessimo da sempre.

Mi fece le solite domande di routine, come io a lei, del tipo "di dove sei?", "quanti anni hai?", "dove studi?", quando risposi a quest'ultima, il suo sguardo si illuminò.

«Come? Alla Stallysant? Ma ci vado anche io!» Sorrisi radiosa, saremmo state nella stessa scuola, nella mia testa ci vedevo già prendere il diploma insieme.

«Veramente? In che anno sei?» domandai entusiasta, «Terzo» «Anch'io!». Scoppiammo a ridere, contente di essere nello stesso anno, probabilmente avremmo avuto dei corsi insieme.

Non mi resi conto di essere nel cortile fino a quando Piper non si fermò.

Eravamo circondate da studenti; vari gruppi si distinguevano fra la folla: cera una mandria di ragazze in minigonna e tacchi alti, le magliette succinte di colori sgargianti, gli zaini in tinta coi colori della scuola e i capelli perfettamente in piega. Una di loro, quella che sembrava la leader, aveva dei lunghi capelli color cannella e un trucco così pesante che stentavo a pensare ci fosse un volto umano al di sotto di quegli strati di fondotinta.

Piper seguì il mio sguardo, una volta notato chi stessi guardando emesse un verso di scherno.

«Lasciami indovinare,» dissi ammiccando verso quel mucchio di coni stradali sui trampoli. «Quelle sono le cheerleaders, vero?», lei alzò gli occhi al cielo annuendo, «Anche nella tua vecchia scuola erano delle barbie egocentriche e narcisiste?», domandò scherzosa. Scoppiammo a ridere di nuovo, mi piaceva quel feeling che si era creato fra noi, sembrava che fossimo destinate ad incontrarci.

Osservai l'edificio che mi trovavo davanti, era alto ed imponente, emanava sapienza, almeno secondo me. La facciata era dominata da un'infinità di finestre distribuite in modo identico su tre piani, più il pian terreno, messo in evidenza dall'ingresso principale, le cui porte in vetro donavano la visuale sull'atrio.

Riuscivo a scorgere un prato sul retro, insieme ad un edificio secondario, probabilmente la palestra, pensai.

«Che hai a prima ora?», mi chiese Piper mentre la prima campanella suonava alle otto e venticinque, avevamo cinque minuti per arrivare nelle rispettive classi. La folla si disperse sciamando verso i corridoi e Piper mi accompagnò verso l'aula di matematica. Avevamo la prima ora insieme, quindi una volta saliti i due piani di scale e trovato l'aula giusta ci sedemmo entrambe in seconda fila, abbastanza vicine alla cattedra da seguire la lezione ma abbastanza lontane da non avere il fiato del professore sul collo durante quarantacinque minuti di fila.

All'entrata della professoressa tutta la classe fece silenzio e si sedette composta; saranno stati i capelli raccolti in uno chignon perfetto sulla nuca, oppure il giubbotto di pelle malamente abbinato ad un vestito stile zia di campagna degli anni 50, ma quella donna aveva un non-so-che di inquietante. Rimase in piedi davanti a noi marcando a grandi passi lo spazio tra la cattedra e la porta. Non una mosca osava volare.

«Buongiorno ragazzi. Io,» esordì con voce lenta e con una nota di perfidia, «Sono Mrs Alecto Dodds,» qualcuno in fondo alla classe tentò di mascherare goffamente una risata con un colpo di tosse. «Professoressa Dodds per voi, prof. Dodds se le vostre povere menti d'adolescenti in tempesta ormonale non riescono ad elaborare parole di più di dieci lettere, - Professoressa ne ha tredici, tanto per la cronaca-.» Fece una piccola pausa mentre ci scrutava coi suoi piccoli occhietti malefici e stringeva le labbra velate da un rossetto rosso sbavato. Sempre restando in piedi diede un'occhiata al registro che si trovava sulla cattedra.

Aveva appena aperto la bocca per parlare quando bussarono alla porta. Dopo qualche secondo la prof andò ad aprire, trovandosi davanti un ragazzo riccio corvino con addosso una felpa blu, che entrò senza degnarla di uno sguardo.
Sentii una ragazza sussurrare "uno bono" ridacchiando dal fondo della sala, alzai gli occhi al cielo, che bambina.

Il ragazzo si guardò attorno, posò gli occhi sul banco vuoto in terza fila alla sinistra del mio; lo guardai mentre ci si avviava con passo sicuro, lo zaino penzolante su una spalla sola. Con fare distaccato osservai i lineamenti marcati del suo volto e lasciai cadere lo sguardo verso le spalle larghe da nuotatore, per poi tornare agli occhi di un verde mare che mi colpiva. Non potevo negarlo, era un bel ragazzo. Distolsi lo sguardo mentre lui lo intercettava e faceva un sorrisetto compiaciuto, alzando gli occhi al cielo.

Si sedette sbattendo la cartella a terra mentre la prof esordiva col medesimo tono saccente: «Jackson, che dispiacere vederla. In orario come al solito vedo.

-Come sempre prof, per non deluderla.» Disse con tono strafottente.

La prof. roteò gli occhi e finalmente si sedette alla cattedra, aprendo un libro spesso quanto la Bibbia. «Prendete pagina undici, Grace legge.»

Mezzora dopo stavo prendendo appunti sulle equazioni di secondo grado quando qualcuno mi picchiettò sulla spalla.

Mi voltai leggermente seguendo la lunghezza di una manica blu fino a trovarmi davanti il volto di Jackson; lo guardai incurvando le sopracciglia con fare disinteressato. Lui sorrise.

«Hey bionda, non è che hai una penna?» Lo disse sottovoce, ma il silenzio tradì la voce abbastanza profonda di un adolescente maschio appena uscita dalla crisi ormonale. La prof ci fulminò con lo sguardo mentre gli passavo una biro blu cercando di essere il più discreta possibile. Lui ringraziò ironicamente, facendomi l'occhiolino.

Sgranai leggermente gli occhi: trentacinque minuti di scuola ed avevo già incontrato uno dei classici ragazzi che si credono estremamente attraenti facendo i deficienti? Non poteva stare succedendo davvero.

Ripresi a scrivere, cercando di mettere quanta più precisione possibile nell'impostazione della pagina e nella chiarezza dei caratteri. Una volta finita la terza pagina di appunti guardai l'orologio: le nove e quattordici, un minuto e la lezione sarebbe finita. Guardai Piper e lei si portò due dita-pistola alla testa, per poi spararsi alla tempia.

Ridacchiai silenziosamente per poi tornare alle equazioni. Di nuovo, un picchiettio sulla spalla mi distrasse, quindi mi voltai leggermente irritata verso quel ragazzo una seconda volta.

Parlò subito: « Senti bionda, sei impegnata al momento?» Disse con un sorriso quasi timido ed un luccichio strano negli occhi, quello di un qualcuno che sa già che sarà soddisfatto. Non ricambiai il sorriso, ignorai la sua domanda mentre il suo viso si sostituiva ad un bellissimo, fantastico, volto da copertina, segnato da un'affascinante cicatrice sulla guancia sinistra che adoravo sfiorare con la punta delle dita.

Un velo di tristezza mi cadde addosso e cercai di non darci peso, volevo solo non pensarci, fare altro, tenermi occupata. Dovevo togliermi quegli occhi gelidi dalla testa, quel sorriso perfetto...
Di colpo la testa m'iniziò a girare ed il cuore a battere sempre più forte, il respiro si fece pesante e le dita tremolanti mentre gli occhi si riempivano di lacrime che tentai di cacciare indietro per paura che mi lasciassero ragnatele nere lungo le guance. Quel ragazzo non meritava i miei trentacinque dollari di mascara.

Per fortuna la campanella suonò prima che chiunque potesse accorgersi di cos'avevo e mi affrettai a ritirare tutte le mie cose nella cartella. Chiusi gli occhi e presi a fare dei respiri profondi, come avevo spesso visto fare a mamma quand'ero piccola. Andava tutto bene, dovevo solo respirare.

Piper si alzò e mi attese in piedi accanto al mio banco, le dissi di iniziare ad avviarsi e che sarei arrivata subito, ma dovevo prima andare in bagno. Lei sembrò titubante ma dopo un secondo di esitazione fece un sorriso smagliante e si allontanò lasciando dietro di sé un marcato aroma di Gucci Bamboo che mi inebriò le narici. Adoravo quel profumo.

Avevo appena varcato la soglia della porta, abbastanza sicura di essere l'ultima, quando qualcuno mi si affiancò. Mi voltai e, per l'ennesima volta, mi trovai davanti quell'indistinguibile paio d'occhi verdi.

«Che c'è ancora?» Chiesi brusca. Volevo sbrigarmi per andare in bagno e darmi una rinfrescata, anche se già sapevo che il bagno sarebbe stato pieno.

«Scusa bionda, ma non hai risposto.» Roteai gli occhi sbuffando mentre mi seguiva verso il bagno. «Stai veramente cercando di abbordarmi il primo giorno di scuola, Jackson?» Chiesi sarcastica bloccandomi, visto che lui non aveva intenzione di separarsi.
«Diretta la ragazza.
- Quanto un treno ad alta velocità.
-Che?» Replicò lui con aria confusa, «Comunque... Rispondi bionda. Sei impegnata al momento?»

Lo squadrai da capo a piedi per poi alzare un sopracciglio, risistemando la spallina dello zaino sulla spalla destra.

«Sì. Al momento sono impegnata con me stessa, quindi se non la pianti di chiamarmi 'bionda' ti faccio menare da me medesima.» Dissi dura, per poi aprire la porta del bagno delle ragazze e lasciarlo in corridoio solo come un cane.

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