Capitolo 2. Annabeth

Volare.

Secondo il dizionario: librarsi e muoversi in aria prima di ricadere.

Posso dire di aver volato davvero, in tutti i sensi. Ho preso l'aereo, ma non la definirei chissà quale sensazione. Posso dire di aver volato stando a terra.

Ho volato a cinque anni, quando mio padre mi comprò un giocattolo che volevo da mesi. Sentivo di fluttuare ed ho letteralmente saltato dalla gioia. Sono caduta qualche settimana dopo, quand'ho dovuto dare l'ultimo addio a mia madre. Non avrei mai scordato quanto il suo sguardo fosse spento, prima che chiudesse gli occhi per l'ultima volta.

Ho volato al mio primo saggio di pianoforte, al seguito del quale sono andata al McDonald's con mio padre per festeggiare. Sono caduta la sera stessa, quando vomitai tutto ciò che avevo ingurgitato a causa dell'influenza.

Ho volato a dieci anni, quando finii le scuole elementari con il massimo dei voti e vidi lo sguardo fiero di mio padre, che per l'occasione si era fatto la barba e aveva messo una camicia azzurra con la quale cercava di nascondere la pancetta alla birra che gli era venuta da quando era morta mamma. Sono caduta alla mia prima insufficienza in prima media, ricordo ancora quella vecchia strega, con i capelli grigi raccolti in uno chignon strettissimo, gli occhiali rossi e i tailleurs ogni giorno di un colore diverso. Si chiamava Mrs. Jacobs e sono sicura che mi detestasse.

Volai a quattordici anni, quando in preda al panico mi dichiarai a quel ragazzo che aveva fatto breccia nel mio cuore e lui accettò. In quell'assurdo periodo nel quale il primo pensiero andava a quegli occhi azzurri e a quel sorriso che mi scaldava il cuore. Caddi dopo due anni e mezzo, quando capii che in fondo non ero poi così importante.

Eravamo appena atterrati, ero con mio padre ed attendevamo le nostre valigie al nastro. Accanto a me una coppia ridacchiava e si stuzzicava. Lei si pavoneggiava abbastanza nel suo cappottino rosso, e agitava la mano sinistra, tenendola sempre in mostra, per far vedere a tutti il gioiello con annesso di diamante che l'ormai fidanzato le aveva donato, una volta detto "sì". Lui invece, era piuttosto silenzioso, la osservava divertito, con un sorriso sincero e orgoglioso stampato in volto. Le passò una mano tra i lunghi capelli biondi e le sussurrò qualcosa all'orecchio; doveva essere una battutina a sfondo erotico, perché la ragazza arrossì di colpo, dondolandosi sugli alti tacchi a spillo, che non le permettevano comunque di raggiungere la spalla del suo amato.

«Ehi Annabeth, hai anche intenzione di aiutarmi o continuerai ad osservare la gente?» Il vocione divertito di mio padre mi fece voltare verso di lui. Le nostre valigie erano arrivate e lui aveva già messo quasi tutto sul carrello, non senza sforzo, a giudicare dagli aloni di sudore che spuntavano da sotto le ascelle della T-shirt grigia.

«Scusa papà, mi sono distratta.» Ammisi mentre spostavo la roba. Mi strinsi nella felpa scura e tirai su i pantaloni, dato che avevo dimenticato la cintura continuavano a scivolare. MI affrettai dietro mio padre, che con passo spedito si diresse verso l'esterno.

Ad attenderci c'era un taxi che mio padre aveva chiamato appena sceso dall'aereo. Senz'alcun'esitazione, mio padre mi afferrò il braccio e corse verso il veicolo giallo, zigzagando tra le decine di persone che entravano ed uscivano dall'aeroporto. Una donna di mezza età mi urtò abbastanza forte con una gigantesca borsa, causandomi un discreto dolore al braccio, però non ci fece caso e mi passò avanti come se nulla fosse.

Per il momento New York non aveva fatto la migliore delle impressioni.

«Il signor Chase?» Domandò l'autista quando mio padre aprì il bagagliaio per depositare le valigie. L'uomo -o forse sarebbe meglio dire 'il ragazzo'- al volante, avrà avuto al massimo venticinque anni. Sul volto mal rasato spiccavano due occhi chiarissimi, le cui iridi azzurre tendevano al grigio. La mascella pronunciata era contratta e i capelli spettinati. Non riuscivo a vedere i pantaloni, ma non sembrava un uomo dei più professionali: sopra alla T-shirt, che in origine doveva essere bianca, indossava una felpa nera, macchiata di ketchup lungo tutto il lembo sinistro. A quanto pare la pausa pranzo non era andata granché.

«Proprio io.» Rispose mio padre salendo frettolosamente nel bugigattolo che odorava di sudore e fast- food. «Vieni cara, non abbiamo tutto il giorno.» Mi spronò mio padre, picchiettando con la mano sul sedile accanto a lui.

Come richiesto, mi infilai nell'autovettura e salutai l'autista con un semplice ed educato 'buongiorno'. Lui mi sorrise con un luccichio strano negli occhi e quello che poteva essere un sorriso affascinante mi fece venire i brividi lungo tutto il corpo. Quell'uomo era leggermente inquietante.

Mio padre gli donò l'indirizzo e il taxi partì lentamente, muovendosi appena nel traffico pomeridiano. Osservavo decine di uomini e donne d'ufficio correre da una parte e dall'altra verso i differenti palazzi che dominavano la visuale. Due uomini su tre erano in giacca e cravatta e tenevano in mano una valigetta che poteva contenere un mucchio di scartoffie o anche un bomba, come insegnavano gli innumerevoli film hollywoodiani che avevo visto con mio padre. Qualche segretario sgobbava con in mano bicchieri di caffè di Starbucks e scatole di varie pasticcerie, accompagnate dalle buste di differenti Take-Away. A quanto pare non c'era anima viva che oziasse un po' nella Grande Mela.

Dopo un'ora e mezza, il taxi si arrestò. Ci trovavamo in una zona residenziale, svariati palazzi si ergevano, la maggior parte di costruzione abbastanza recente.

«È questo qui.» Affermò mio padre indicando uno di quelli. Mi porsi verso il finestrino e pagai l'autista. «Domani che fai, bellezza?» Fece lui, con un tono lascivo che mi fece innervosire. Di colpo mio padre mi si parò davanti, mi nascose leggermente dietro di lui e poggiò una mano contro al finestrino semi aperto. «Domani,» sputò, con il disprezzo nello sguardo, «mia figlia va a scuola. Mi pare ovvio, visti i suoi sedici anni.» Mio padre rispose per me, continuando a guardare in cagnesco l'autista del taxi.

Io mi strinsi le braccia al corpo, imbarazzata all'improvviso, e mi ciondolai sui piedi che dolevano, stretti nelle mie Converse bordeaux nuove. Mio padre non mi difendeva da quando avevo sette anni e mi sentivo come sottovalutata dal suo comportamento. Non che non capissi perché lo avesse fatto, io gli avrei direttamente tirato un schiaffo se ci avesse provato seriamente, però ero consapevole di potermi benissimo difendere da sola.

Il ragazzo tossicchiò, imbarazzato da quella reazione, per poi ripartire e sparire dietro l'angolo.

Udii mio padre borbottare qualcosa che faceva rima con "piccione", ma non ci feci molto caso.

Dopo aver fatto le scale -eravamo al terzo piano-, armeggiò con la serratura e una volta aperta la porta sfrecciai dentro.

La prima impressione è quella che conta, no? Be', dovevo ammettere che non era male, allora.

Le pareti erano sui toni del grigio e del crema, colori che si accostano perfettamente con il nostro divano ed il salotto stranamente spazioso. Il parquet scuro e le pareti chiare ma non troppo creavano un contrasto piacevole e visualizzai subito come sarebbe stato una volta arredato. La stanza era largamente illuminata naturalmente da due grandi finestre che si affacciavano sulla strada e sugli altri edifici. La cucina non era separata dal soggiorno, il che donava un effetto open space niente male. Il piano da lavoro in marmo chiaro spiccava vicino agli armadietti inferiori di un grigio particolarmente scuro, e si intonava agli armadietti a muro, bianchi e con finiture moderne. La zona living è separata dalla cucina da una grande isola, in tono con gli armadietti e il piano da lavoro, con un lavandino e quattro sgabelli per la colazione, una delle poche cose che i nonni ci avevano lasciato.

«Allora, che ne pensi?» Mio padre mi affiancò e si mise ad osservare il grande spazio. Mi appoggiai all'isola in cucina e mi coprii di brividi quando le mie mani entrarono in contatto con il freddo marmo di quest'ultima. «Sono sicura che è stata la nonna ad occuparsi della ristrutturazione.» Affermai sorridendo a mio padre, che si asciugò un rivolo di sudore dalla fronte, guardandomi con i suoi caldi occhi scuri. «Ha sempre avuto un senso estetico migliore di quello del nonno, sono sicura che lui avrebbe messo piccole statuine di cherubini ovunque e mobili d'epoca in ogni angolo.» Ridacchiai, ripensando alla casa dei nonni, o meglio, del nonno, in quanto eredità dei suoi genitori.

«In effetti,» ammise mio padre facendo spallucce, «che ne dici di andare a vedere le camere? I traslocatori dovrebbero essere qui da un momento all'altro.» Propose con un sorriso stanco, spingendomi leggermente verso il corridoio.

Annuii e sorrisi, mentre mi dirigevo verso quella che da quel momento sarebbe stata la mia camera, ovvero il luogo in cui avrei passato più tempo fino a quando non avessi finito le superiori.

Alla fine del corridoio, a destra, aprii la porta, che non emise nemmeno un piccolo cigolio, il che mi piacque ma mi mise un po' di nostalgia: la porta di camera mia nell'altra casa cigolava sempre, mi era impossibile scappare di nascosto proprio per quel motivo. Non che ci avessi mai provato, ma se lo avessi fatto mi avrebbero beccato immediatamente.

Mi trovavo in una stanza dalle pareti bianche, che ad occhio e croce misurava quattro metri per quattro, il che non mi dispiaceva affatto. Visualizzai immediatamente la disposizione dei mobili e gli accessori estetici vari. Il letto sarebbe andato vicino alla finestra, con lo schienale leggermente inclinato verso l'altro angolo, dove avrei messo la mia grande scrivania ad angolo, insieme al computer ed al materiale da cartoleria. La parete che separava il letto e la scrivania avrebbe ospitato la libreria e dall'altro lato, sull'unica parete libera, il mio armadio a muro. Feci un paio di passi nella stanza vuota, immaginando già le serate che avrei passato chiusa lì dentro a leggere o guardare film e serie TV su Netflix.

Socchiusi la porta e percorsi la stanza, ascoltando il rumore che le suole causavano quando camminavo.

Mi fermai davanti alla finestra e un attimo di nostalgia mi colse. Da quella finestra potevo vedere un bel giardino, con un grande pino che arrivava fino alla mia finestra, le strade che si intrecciavano e la gente che passava, senza tuttavia la possibilità di essere osservata da quest'ultima ma non c'era nessun vialetto di ghiaia. Non sarei più corsa lungo il marciapiede per raggiungere Talia alla fermata dell'autobus e non sarei rincasata passando dal prato per non fare rumore la sera tardi.

«Non sarà lo stesso.» Sussurrai a nessuno in particolare, guardando il viavai di auto e passanti.

Non sarebbe stato lo stesso, in nessun caso. Non solo non c'era il vialetto, ma neanche il piccolo sole viola, né la trave. Inoltre non c'era più l'albero al quale Luke si poteva arrampicare per raggiungermi... senza che i miei lo sapessero.

Una morsa mi strinse lo stomaco e mi sentii mancare il fiato. Di cosa mi preoccupavo, se tanto sapevo che non sarebbe servito a nulla? Quell'albero avrebbe solo tolto luce, perché lui non sarebbe passato. Lui non mi avrebbe più cercato nel cuore della notte e non avrebbe più lanciato sassolini alla mia finestra, svegliandomi alle cinque del mattino, con la scusa che voleva vedermi.

Sembrava così sincero, con quel suo "mi mancavi".

Non mi resi conto che le lacrime stavano di nuovo rigando il mio volto fino a quando una di esse mi cadde sulla mano. Senza pensarci troppo, le asciugai con la manica e scossi la testa, cacciando quel pensiero. Lui non si meritava le mie lacrime.

Sospirai, cercando di liberarmi di quel senso di solitudine.

«Annabeth! Vieni a darci una mano!» Gridò mio padre dal soggiorno, salvandomi dai miei pensieri.

Corsi di là e lo trovai insieme ad uno dei traslocatori, intenti a spostare il divano.

«Aiutaci a posizionarlo, sei tu quella col gusto estetico in casa.» Disse annaspando, reggendo il mobile con uno sforzo che gli imperlava la fronte di sudore e arrossava la faccia.

Dopo qualche ora avevamo sistemato divano e televisione e portato in casa tutti gli scatoloni. Il giorno dopo sarei andata a scuola e una volta tornata avremmo svuotato tutto il resto.

Portammo in camera mia un materasso, avrei dormito lì per la notte, e una lampada.

«È tardi cara, dovresti andare a letto.» Affermò mio padre guardando l'orologio. Feci la stessa cosa e lo guardai scettica. «Sono le otto papà, non riesco a dormire così presto.» Lui fece spallucce, però mi lanciò uno sguardo del tipo 'se domani non riesci a svegliarti non dare la colpa a me'.

«Penso leggerò un po'.» Affermai agguantando Cercando Alaska di John Green e scappando in camera.

Ero tornata nel mio mondo, anche se per poco. Non c'erano più viali, soli o travi, ma un libro e una lampada che mi avrebbero fatto sentire a casa.

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