Capitolo 1. Annabeth
Erano secondi? Minuti? Magari ore?
Non sapevo da quanto tempo fossi lì, sdraiata sul pavimento della mia stanza, a fissare il soffitto bianco.
So solo che il mio corpo non rispondeva più ai comandi.
Ero diventata un tutt'uno con il laminato scuro, ogni singola particella che componeva quello che, purtroppo, era il mio corpo, desiderava rimanere così per sempre: senza pensieri.
Non il "senza pensieri" di Timon e Pumbaa, niente Hakuna Matata per me. Semplicemente, il nulla totale.
Lasciare che lo sguardo si bloccasse in un punto qualsiasi era diventato il mio passatempo più frequente.
Era quasi piacevole estraniarsi momentaneamente dalla realtà, per rimanere in uno stato di trance, senza stupidi pensieri per la testa, senza preoccupazioni o rimorsi.
Mi sentivo meglio quando non pensavo, quando mi isolavo da tutto e tutti.
Finalmente, in quei momenti, potevo essere in pace, almeno un po'.
Proprio per questo motivo, essi diventarono sempre più frequenti.
Magari, mentre stavo intrattenendo una conversazione, perdevo il filo, ritrovandomi poi a scusarmi per la disattenzione. Mentre stavo facendo qualcosa, mi bloccavo e rimanevo lì, impalata, totalmente inerme.
Quando ero a cena con mio padre, fissavo il piatto, giocherellando con ciò che esso conteneva, mentre lui cercava in tutti i modi di aprire un discorso, senza alcun risultato.
Aveva intuito che qualcosa non andava ma non faceva domande e, dopo un paio di tentativi, lasciava perdere con un sospiro, per poi tornare a quello che stava facendo.
Adoravo mio padre, c'era sempre stato e gli dicevo sempre tutto, solo che, non me la sentivo ancora di raccontare tutto a qualcuno.
Dovevo elaborare da sola.
Mi alzai, sentendo ogni cellula gridare contrariata, e osservai la stanza per un'ultima volta.
Le pareti verde pastello, che avevano la stessa tinta di quando avevo tre anni, con il disegno a pastello di un piccolo sole viola in un angolino dietro l'armadio. La grande finestra che si affacciava sul vialetto di ghiaia, dove avevo imparato ad andare in bicicletta da sola, con qualche taglio come ricordo. La trave rotta sotto la quale nascondevo il mio diario, cui avevo potuto confidare senza paura tutti i miei più tetri e oscuri segreti da dodicenne innamorata.
Non ci sarebbe stata nessuna trave rotta d'ora in poi, nessun sole viola e nessuna grande finestra che dà sul vialetto. Dopo sedici anni, traslocavo.
Nelle ultime settimane, avevo messo vestiti e libri negli innumerevoli scatoloni e assistito allo smantellamento dell'intera casa.
Ogni mio ricordo più caro era legato a quel posto.
Le favole della buonanotte che mamma mi raccontava, sdraiata al mio fianco, prima che mi addormentassi erano fra questi.
Avevo messo i ricordi di mia madre in un'immaginaria cassaforte e qui rimanevano immacolati e puri.
Proprio come lei.
«Annabeth,» bussarono alla porta e sorrisi quasi nel vedere mio padre sbirciare da uno spiraglio. Entrò con un sorriso soddisfatto, ma non tentò neppure di nascondere la malinconia che provava.
«Partiamo tra cinque minuti, forse è meglio scendere ora.» Disse con la voce stanca di chi ha passato la settimana a imballare e impacchettare tutti i suoi averi in valigie e scatoloni.
Gli occhi mi si appannarono leggermente, ma non piansi, non potevo permettermelo. «Mi mancherà questo posto.» Affermai, guardando quello che per me era un pilastro, corrugare la fronte e strofinarsi gli angoli degli occhi. Annuì e mi mise un braccio sulla schiena. «Lo so Annie, anche a me.»
Dopo aver gettato un ultimo sguardo alla stanzetta, mi lasciai condurre fuori da mio padre.
Chiuse a chiave la porta, per l'ultima volta. Sul marciapiede, accanto al camion del trasloco e alla nostra auto, Talia, Grover e Silena parlavano sommessamente con un velo di tristezza calato sul volto.
Nonostante tutto ciò che era successo negli ultimi giorni, non riuscii a non sorridere. Erano gli amici migliori che potessi desiderare. Corsi loro incontro e in un secondo mi ritrovai stretta nell'abbraccio di Silena. Mi abbandonai subito al suo profumo di rose e ricambiai la stretta, sapendo che sarebbe stata l'ultima per molto, moltissimo tempo. «Mi manchi già» Disse infossando il viso nei miei ricci, che avevo lasciato liberi sulle spalle. Restammo immobili per un paio di secondi, poi si staccò e notai che aveva gli occhi lucidi e le guance arrossate, non potei fare a meno di commentare: «Incredibile come tu sia bella anche quando piangi, perché ho solo amiche fighe?»
Lei sorrise e fu il turno di Grover, che dopo un breve abbraccio mi porse un capellino di lana. Era giallo, verde e rosso, come quelli che portava di solito lui. «Oddio, grazie Grover! Sai benissimo che non dovevi.» Esclamai infilandomelo velocemente. «Ma guarda come ti sta bene, sembra fatto apposta per te.» Affermò mentre mi cingeva le spalle e mi lasciava un piccolo bacio sulla fronte, la barbetta ispida che portava sul mento mi solleticò il naso e mi scappò una risatina che mi alleggerì il petto.
«Mi mancherà la tua risata, ma soprattutto farti ridere mentre dovresti leggere davanti tutta la classe.» Affermò con un sorriso storto, felice e triste assieme. «Smettila, altrimenti mi metto a piangere e non la smetto più.» Sbottai mentre gli gettai le braccia al collo e affondavo il viso nel suo maglioncino cento percento cotone. Inspirai il profumo di fattoria che emanava e sentii il naso pizzicare.
«Ragazzi, basta monopolizzarla! Esisto anche io eh.» Mi staccai da Grover e incrociai quegli occhi blu elettrico che mi avevano confortato anche nei momenti più duri. Non si era messa in tiro, non aveva scelto "un outfit perfetto per l'occasione"-come se ci fosse un outfit 'la tua migliore amica si trasferisce dall'altra parte del continente'-, era sempre la solita Talia. Fece un passo verso di me nelle sue solite Dr. Martens nere e la sua giacchetta di pelle scura, nonostante ci fossero diciassette gradi e la temperatura permettesse tranquillamente una T-shirt. «Allora Chase, è arrivato il momento, vero?» Il suo tono di voce tradiva spudoratamente il suo tentativo di restare indifferente. Nei suoi occhi un'ombra che cercava malissimo di nascondere. Mi tremò il labbro inferiore e annuii senza distogliere lo sguardo da quei diamanti blu. Socchiuse gli occhi senza interrompere la connessione e mi buttò le braccia al collo, stringendomi forte, come se stessi per sparire. «Io ti giuro, giuro sulla mia stessa vita, che se provi a dimenticarti di me vengo lì a New York e prendo a calci quel tuo bel sedere.» Non ce la feci più. Mentre la stringevo a me, provando a scolpirmi il suo profumo nella pelle, piansi. Le lacrime scorrevano calde sulle mie guance ed andavano a depositarsi sulla spalla della sua giacchetta. «E io ti giuro, giuro sulla mia stessa vita, che mai e poi mai ti dimenticherei, domani come tra cent'anni.» sussurrai singhiozzando impercettibilmente contro la sua pelle fredda.
Restammo avvinghiate l'una all'altra finché sentii una mano poggiarsi pigramente sulla mia spalla. Mio padre, che ci aveva osservato con le lacrime agli occhi, mi prese per mano e mi accompagnò alla macchina. Non riuscivo più a frenare le lacrime, pensare che non li avrei rivisti prima di tre mesi o più mi provocava un peso sul petto, che si sommava solo alla sala di pesistica agonistica che mi premeva le costole e mi impediva di respirare a pieno.
Mio padre mise in moto e salutai con la mano tutto ciò che aveva costituito la mia vita fino a quel giorno.
Dopo quindici minuti di viaggio le lacrime scorrevano ancora indomabili. Abbassai lo sguardo sui miei jeans chiari, sui quali avevo giunto le mani, incrociando le dita. Una mano esterna entrò nel mio campo visivo e si poggiò sulla mia coscia. Di colpo, un lampo mi riportò a qualche mese prima.
«La prossima volta guido io.» Affermai mettendo il broncio, incrociando le braccia al petto e fingendomi offesa. Una risata profonda mi fece scappare un sorriso e alzai lo sguardo, sentendo il cuore battere sempre più veloce.
Un paio di meravigliosi occhi azzurri mi stava osservando e allungai la mano per poggiarla sulla calda guancia del ragazzo migliore che conoscessi. Luke poggiò la mano sulla mia e tracciai col pollice il contorno della cicatrice che gli rigava il volto. «Non posso rischiare di perderti.» Ribatté lui, spostando la mano sulla mia coscia, lasciata scoperta dai miei pantaloncini. Mi avvicinai leggermente a lui, che fece altrettanto. In pochi attimi, le mie labbra erano premute sulle sue e mi sciolsi sotto al suo caldo tocco. Quando mi staccai, un sorriso ebete mi si era disegnato sul volto. «Se non mi baci subito mi perderai ugualmente.» Insinuai maliziosamente; una scintilla illuminò i suoi occhi e si avvicinò rapidamente, ma sempre con una dolcezza indescrivibile. Mi baciò di nuovo e avvertì il mio corpo alzarsi e fluttuare a trenta centimetri da terra.
«Annabeth,» la voce di mio padre mi riportò bruscamente alla realtà. Mi sentii una stupida più di prima e una nuova ondata sgorgò dai miei occhi. Mi portai le mani al viso e asciugai subito quelle lacrime che oramai erano solite rigarmi le guance. Ci era riuscito di nuovo, era riuscito ad entrarmi in testa. «So che non sarà facile, tesoro, ma vedrai che andrà bene. Incontrerai gente nuova, ti farai nuovi amici, se il problema è il ragazzo, Luke potrà sempre venire a trovarci, non ha dei parenti che vivono lì vicino?» Come una freccia, quelle parole mi trafissero il petto. Dovevo dirglielo subito, oppure avrebbe continuato, e io non sarei mai riuscita a dimenticarlo. Però non volevo mostrarmi sofferente. Asciugai il viso con un gesto non curante e scrollai le spalle, dopo aver preso un respiro profondo, guardai mio padre, che però volgeva tutta la sua attenzione alla strada.
«Lo so papà, sono sicura che incontrerò delle persone fantastiche,» mentii, non ero convinta che avrei legato con molte persone, «solo... potresti evitare di nominare Luke?» Quelle parole mi fecero più male di quanto pensassi, però cercai di non darlo a vedere, forzando un sorriso. Mio padre mi guardò con la coda dell'occhio, sulla sua fronte si formarono delle piccole rughe di comprensione e sospirò.
«Oh.» Disse solo, senza aggiungere altro. Gliene fui grata, non volevo parlarne, soprattutto non in un'auto e con il possibile rischio di finire in ospedale. Se mio padre avesse saputo, sarebbe stato difficile fargli mantenere il controllo.
Iniziò a piovere e lo sguardo mi cadde fuori dal finestrino. Osservai scorrere i grattacieli e le persone che passavano, ignare della mia esistenza.
Molte volte mi ero ritrovata con pensieri simili. Siamo in miliardi, nella nostra vita abbiamo visto milioni di persone, delle quali non ricordiamo nemmeno il volto; viviamo nella stessa città di qualche migliaio di persone eppure sappiamo il nome di appena un centinaio di esse. Ma nonostante tutto, conosciamo davvero due o tre di queste anime. Facendo un piccolo rapporto, se di sette miliardi e passa di persone ne conosciamo un paio, si può giungere alla semplice conclusione che nessuno sa della nostra esistenza, tranne quelle due. In fondo, nonostante tutti quelli che ci salutano in corridoio quando raggiungiamo le giuste classi, siamo soli.
«Ti prometto che in me troverai un amico, un ragazzo e una famiglia. Non sarai mai sola.» Mi aveva detto, dopo anni di amicizia e un paio di settimane di relazione. Ora, dopo due anni passati a pendere dalle sue labbra, innamorata di quel sorriso freddo, avevo solo un pensiero riguardo a quelle sue parole: che gran stronzata.
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