capitolo 12





"She is used to this sort of thing.
Her blacks crackle and drag."







"A cosa stai pensando?" domandò l'uomo, alzando lo sguardo dal foglio che teneva sulle ginocchia per studiare accuratamente qualsiasi flebile movimento compiuto dall'adolescente davanti a sé. "A mia madre." rispose lei, senza apparire particolarmente scombussolata, mantenendo la solita espressione vuota delle precedenti tre settimane, battendo con insistenza il piede per terra, nell'attendere la fine di quella tortura giornaliera.

Occhi languidi, labbra secche e sudorazione sulla nuca. La stanza era troppo calda, non un singolo filo di vento passava dalla stretta apertura sotto la finestra bloccata dal tempo; il reparto psichiatrico dell'istituto non veniva modernizzato da quando gli unici pazienti raccolti erano anziani lasciati soli per un periodo di tempo esageratamente lungo e donne bipolari. L'orologio attaccato alla parete sembrava non voler smettere di ticchettare, aumentando la velocità ad ogni istante, per poi rallentare allo scatto del minuto successivo. Loop. Immensi vortici sovrapposti in cui ricadere e ricadere e ricadere.

Victoria McClair detestava quel posto, detestava essere associata a dei poveri individui a cui era capitata la sventurata sorte di nascere con gravi squilibri mentali, che ogni tanto sentiva gridare dal corridoio cercando di spaventare figure inesistenti proiettate dalle menti tortuose dov'erano costretti ad abitare. Lei aveva scelto di impazzire, consapevolmente era riuscita a diventare la peggiore versione di sé stessa in meno di sei mesi; tanto miserabile da preferire scomparire. In un soffio di vento, tutto finito.

"Perché non mi parli un po' di lei, di quel giorno?" domandò lui, facendo tintinnare la penna ad inchiostro nero, spostandola tra le dita. "Perché non posso mai parlare di cose belle? Tipo del mio fratellino che mi aspetta qui fuori come ogni mercoledì." Lo psichiatra sospirò. "Ne abbiamo già parlato, se non ti senti pronta possiamo rivederci domani." Chiuse il quaderno, con un'espressione di evidente disappunto. "No!...no. Va bene, sto bene, posso parlarne, anche se non ne vedo il senso. Era una giornata particolarmente uggiosa, piena di nuvole e con un vento freddo che entrava da sotto le porte. Mi sono alzata più tardi del solito, sono sempre stata piuttosto mattiniera, con un forte nervosismo dato dalla litigata della sera prima tra mamma e papà. Litigavano spesso in quel periodo, troppo spesso. Mi dava fastidio. Mamma era poggiata al bancone con una tazzina di caffè in mano, e stringeva una parte della vestaglia di raso rosa mentre guardava un punto fisso davanti a sé, mi ha fatto paura, ricordo. Non le ho dato il buongiorno- si interruppe, prendendo un lungo respiro e socchiudendo le palpebre, nel tentativo di non far sgorgare una serie di inutili lacrime.

"Cercava di parlarmi, ma io non le prestavo particolare attenzione, ero alterata a causa del suo comportamento immaturo ed ingenuo. Ero convinta che avrebbe dovuto lasciare papà, nonostante non le avessi rivelato dei tradimenti, anche per il semplice fatto che la trattasse come una perfetta imbecille. Ma non sembrava importarle. Deve sapere, anche se ormai penso lo abbia capito, che quando provo qualcosa lo faccio in modo alterato. Non sono mai felice, triste o arrabbiata. Sono entusiasta, affranta, incazzata. Posso dire incazzata? Ebbene, sentivo l'innocenza di mamma come un tradimento, e desideravo vederla soffrire. È agghiacciante da dire, ma è così. Volevo portarla con me a Parigi, dopo l'audizione che ero fermamente convinta di passare, ma prima avrei dovuto farle capire che non meritava tutta la sofferenza a cui si stava sottoponendo. Provò ad abbracciarmi, ma la respinsi brutalmente. L'ultima cosa che le ho detto prima di uscire è stata vorrei non doverti più vedere. Desiderio esaudito."

Concluse sistemandosi meglio sulla poltroncina in velluto grigio scuro, incrociando le gambe e posizionando i piedi coperti da calzini a righe uno sopra l'altro. L'uomo le sorrise di sbieco. "Sei stata molto brava, hai fatto enormi passi avanti in questi giorni, sono fiero di te." Scrisse un paio di frasi su un foglio e la congedò con il gesto di una mano, permettendole di lasciare quel buco soffocante e tornare all'aria aperta, dove non aleggiava alcun sentore di libertà.

Atlas la attendeva disteso sullo scomodo giaciglio, con le scarpe accuratamente penzolanti all'infuori del copriletto, giocherellando nel frattempo con l'ingranaggio della sveglia prima riposta sul comodino. Appena vide la sorella poggiata allo stipite della porta, con un pugno semi-alzato in segno di vittoria, il viso gli si illuminò. Da quando era stata ricoverata non aveva mai tirato fuori l'argomento mamma, peso che le pendeva sulla testa come la lama di una ghigliottina pronta a cadere. "Sono stata bravissima. È stata una settimana particolarmente produttiva, in generale. Ho scritto molto e comprato qualche costume online, probabilmente a papà sarà arrivata la notifica di qualche centinaio scalato dalla carta. Ma ho finito le sigarette, le hai portate vero?" asserì allegramente lei, guardando Atlas a faccia in giù dal pouf sul quale si era distesa al contrario, arrotolandosi una ciocca di capelli con l'indice.

"Mi ha detto Kent che puoi tornare a casa Vic, questa sarà l'ultima notte dentro questo posto di merda. Domani veniamo a prenderti e ce ne andiamo dalla terra ferma." disse sorridendo amabilmente, tirando fuori una sigaretta da un pacchetto di winston blue, passandola a lei. Questa la accese, ma non riuscì a gioire del tutto di fronte alla tanto attesa scarcerazione. "Che ti succede?" chiese lui preoccupato a causa dell'improvviso cambio d'umore. "Papà non è passato a trovarmi neanche una volta. Non so, probabilmente nell'ultimo periodo mi ero solo illusa del fatto che forse ci tenesse un minimo. Sai cosa? Non mi importa, anzi, tanto meglio. Che si faccia la sua vita."

Non necessitò di una risposta da parte dell'altro, che la guardava fumare vicino alla finestra, malinconica nell'osservare l'oceano dietro la squallida cittadina dentro la quale era stato costruito il centro. Nessuno dei due sapeva che per la maggior parte delle notti particolarmente buie, Nick aveva passato ore a guardare la figlia dormire pacificamente, senza però avere il coraggio di affrontarla da sveglia. Gli bastava avere la consapevolezza che fosse lì, viva, senza il rischio che scomparisse sotto il suo tatto. Si sentiva uno sconosciuto senza il diritto di soffrire per qualcosa che aveva dato per scontata i diciassette anni precedenti.

Non chiudeva occhio da quell'atroce sera. Ogni qualvolta appoggiasse la testa sul cuscino, il viso cereo della ragazza gli si palesava davanti, impedendogli di addormentarsi senza incubi. Continuava a domandarsi imperterrito, e se non fosse sopravvissuta? Se avesse preso tre pillole in più? Se l'ambulanza fosse arrivata cinque minuti più tardi? Tante, immense variabili che avrebbero potuto cambiare radicalmente il corso della vita di molti. Perché Victoria, che ancora faticava a rendersi conto di questo prezioso dettaglio, aveva avuto un enorme impatto sulla vita di chiunque l'avesse incontrata. Con il suo fare sicuro, le gote spesso arrossate ed il sarcasmo mai usato a sproposito, aveva fatto breccia addirittura nell'inespugnabile fortezza di un pogue dagli occhi blu.


Quando si subisce un forte trauma, si tende usualmente a voler dimenticare quel dolore, cancellare dai ricordi i particolari avvenimenti, fino a farli diventare racchiusi solo nelle memorie di qualcun altro. In tal modo, Victoria aveva preso l'assennata decisione di lasciarsi indietro il passato, specificatamente staccare la spina legata al momento in cui non svegliarsi le era apparsa come un'ipotesi più allettante di un'ennesima pillola ingerita o striscia tirata. Sarah Cameron, per sua sfortuna, non sarebbe mai riuscita ad obliterare la notte passata sul bordo di un letto d'ospedale, ad implorare che gli occhi dell'amica non rimanessero chiusi per sempre.

Ventuno giorni prima una chiamata aveva spezzato l'allegria del piccolo gruppo di kook, tutti brilli e ben vestiti, riuniti dietro le quinte del teatro per attendere l'arrivo della ballerina con cui complimentarsi e festeggiare bevendo dignitosamente. Siamo all'ospedale, Vic è in brutte condizioni. Non sappiamo se si sveglierà. Atlas pronunciò quella poca manciata di parole con una freddezza tale da risultare quasi menefreghista di fronte alla situazione, quando era talmente spaventato da non capire effettivamente cosa stesse accadendo all'esterno. Il mondo era rallentato. Teatro. Macchina. Ospedale. Victoria giaceva inerme, con un sondino ed una serie di elettrodi attaccati sul petto, in modo tale da monitorare il battito cardiaco.

Un paio d'ore più tardi, il macchinario era impazzito. Sveglia. Grida. Lacrime. Molte, lacrime. Non ha funzionato! Perché non ha funzionato? Voglio uscire di qui. Fatemi uscire di qui. Audrey stringeva la testa di Sarah tra le braccia, il cui mascara era colato fino a tingerle il volto di nero, contagiando anche le mani che si era portata sul viso per nascondergli la scena tanto angosciante. Aveva realizzato che Victoria desiderasse davvero morire, che il tutto non era solo uno dei suoi soliti capricci. L'espressione di pura disperazione che aveva rubato l'angelica innocenza del volto della diciassettenne trasmetteva una cieca paura relativa al fatto di essere sopravvissuta.


Era una bella giornata. I raggi del sole penetravano nel terreno e rendevano l'erba del giardino di una tonalità di verde particolarmente gradevole da osservare. Le margheritine raccolte in piccoli gruppi di adulte e bambine sembravano formare lo squadrone di una gita scolastica, tanto sorridenti di fronte alla condizione meteorologica piacevole. Un leggero venticello rendeva meno sgradevole il caldo torrido di metà giugno, consentendo di indossare una camicetta con le maniche a tre quarti senza squagliarsi sull'asfalto. Victoria decise di non accendere la sigaretta che teneva tra le labbra, quindi la rimise dentro il pacchetto e lo gettò, ancora quasi pieno, nel cestino affianco al portone d'ingresso del centro psichiatrico.

Decise di scegliere la vita, quel giorno. Certo, non sarebbe stata una passeggiata, ma avrebbe stretto i denti e rigato dritto. Non avrebbe sprecato la seconda possibilità che le era stata donata; buona salute, ultimo anno, danza, poesie, pranzi in famiglia, lavoro, abbronzatura, succhi di frutta, aria pulita. Tirare avanti. Niente droghe. Niente alcool. Niente nottate a sognare ad occhi aperti una vita che non avrebbe mai vissuto. Mettersi in gioco. Èlias? Niente Èlias. L'aveva lasciata, sofferente ma felice per la sobrietà di lei, promettendole che si sarebbero rivisti non appena lei fosse atterrata a Parigi per raggiungerlo. Una decina di mesi più tardi sarebbe finito nei sottotitoli della prima pagina di un giornale francese, come terribile esempio dell'ennesima morte per overdose della droga che stava prendendo possesso delle giovani menti che avrebbero dovuto cambiare il mondo. Niente più autodistruzione. Chiuse gli occhi, tirò un sospiro e sorrise di fronte alla grandiosa prospettiva. Scelse la vita.

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