Track XXXV - Je 'o tteng e t'o ddòng
Siamo affacciati al terrazzo del Museo Hermann Nitsch, io e Teresa. È l'11 novembre 2022 e il sole è tornato a splendere su Napoli. Assafamaronn'.
Sono mesi che butto il sangue nella progettazione di ogni dettaglio, affinché potesse essere tutto pronto esattamente per la sera del 4 novembre ma, com'è noto, essendo questo il mese più di merda dell'anno, l'allerta meteo emanata la settimana scorsa me l'ha impedito.
Che intossico.
Quando Brandon Lee disse che non può piovere per sempre, non aveva tenuto conto di Napoli a novembre.
Le tempistiche sono importanti, Cristo! La simbologia è tutto per noi napoletani.
La notte del 4 novembre 2018, a Torino, mi ero costretto a dire addio a Elena una volta per tutte. Oggi, quattro anni dopo, sono pronto a ritrattare quella decisione e a fare l'esatto contrario.
Questo venerdì, per fortuna, ha quasi l'aria di essere una raggiante giornata di primavera. Altro che "sesso, droga e rock-and-roll", saranno gli sbalzi termici a uccidermi. Ho perfino avuto l'ardire di uscire solo con una camicia di cotone chiara, sbottonata quasi fino a sotto lo sterno.
Teresa si distrae guardando lontano verso la sagoma blu del Vesuvio che sovrasta Montesanto oltre la balconata, quasi più emozionata di me, in contemplazione della sua missione.
– Devi essere discreta, Tere' – mi raccomando, per la millesima volta, un dito ondeggiato a pochi centimetri dalla sua faccia per attirare la sua attenzione – Se ti accorgi che si perde o ha tentennamenti, chiami prima me e ti dico cosa fare.
Lei annuisce con santa pazienza e lancia uno sguardo svelto all'orologio sul suo telefono.
È la mezza.
Si rigira la lettera tra le mani e mi sorride: – Jamm' bell! – esclama – Si comincia.
Invece mi viene l'ansia.
Una morsa allo stomaco ferocissima.
Le afferro un braccio e la fisso dritto nella profondità dei buchi neri delle sue iridi, da cui non sfugge alcun raggio della luce che li attraversa: – E se non fosse il momento adatto? Sai, dopo il modo in cui sono andate le elezioni a settembre...
Lei alza un sopracciglio e ride: – E che c'azzecca, Lì? E spis' già nu sacc'e sord' pe' sta strunzata, mo vir'e te movr!
La solita, infallibile, incarnazione del pragmatismo.
Mi indica la direzione del golfo con un cenno della testa, poi mi fa l'occhiolino. Dei visitatori del museo ci scrutano dalla finestra della saletta principale come se fossimo degli alieni.
Inforco il motorino in un moto di coraggio, più per togliermi da mezzo alle occhiate indiscrete degli sconosciuti che altro, e le faccio segno con un pollice in su che sono pronto.
– Curre, curre, guagliò – intona lei, con mano svelta mi sprona ad andarmene – Tengo tutto sotto controllo, staje senza pensier'.
Do gas e parto, scendo piano piano verso i Quartieri.
Non c'è fretta.
Teresa sta per consegnare la prima busta a Elena.
Sembra una semplice busta da lettera, quadrata e bianca, ma al suo interno si cela l'hint iniziale di una caccia al tesoro. Anzi, potrebbe essere improprio chiamarla così. Comunque, è la prima tappa di un percorso di enigmi che solo Elena può risolvere.
Chissà se la sorpresa finale le piacerà. Da quello dipenderà se sia giusto o meno definirla una "caccia al tesoro".
Beh, in ogni caso quello che sto per darle non è certo costato poco.
Le uniche istruzioni che ho impartito a Teresa sono di consegnare la missiva e andarsene, tutto rigorosamente in perfetto silenzio. Se anche Elena dovesse fare domande, lei non risponderà. L'ha promesso.
Poi dovrà nascondersi e seguirla con discrezione, giusto per controllare che tutto vada come spero che vada e nei tempi preventivati.
Dentro alla prima busta, Elena troverà un foglietto macchiato di caffè. È lo scontrino di un conto battuto sbagliato e coperto da una scia scura, amara e profumata. L'interno riporta delle lettere cubitali che lanciano un comando: "SEGUIMI", con tono un po' pretenzioso e subdolamente semi-nascosto.
Ma lei saprà già dove dirigersi. Non ho dubbi che colga quel messaggio al volo.
Lì dove tutto è cominciato: al bar di via Toledo, di fronte al negozio di sua madre.
Un'altra busta anonima e candida è camuffata in mezzo alle piante anemiche dell'aiuola incolta, piazzata scompostamente davanti al locale. La stessa da cui sbucò fuori lei quando mi diede il nostro primo bacio.
All'interno, stavolta, nessuna scritta. Solo l'immagine di uno smacchiatore.
Neanche Teresa, l'angelo che mi ha aiutato a mettere su 'sto teatrino di buste in giro per Napoli, conosce con esattezza i retroscena di tutti quei piccoli indizi. Nel remoto caso in cui Elena dovesse perdersi oppure non capire qualcuno dei suggerimenti, la caccia al tesoro si interromperebbe perché nessuno potrebbe darle ulteriori aiutini.
Ma sono certo che non succederà.
La seconda tappa, ovviamente, è alla Sanità.
La terza busta giace proprio sul vecchio divano rosso della nostra prima volta: dall'aspetto ancora elegante, vissuto e malizioso come la navigata attrice di teatro che ne è padrona. Mi sono fidato della parola di zia Letizia che ha giurato e spergiurato che mai vi avrebbe sbirciato dentro, e che non si sarebbe prestata a rispondere a nessuna richiesta di chiarimento della nipote.
Dalla lettera sul divano uscirà la foto di una tartaruga.
Il nostro rifugio preferito: la Floridiana.
Tagliando per la boscaglia che ospita gli alberi più fitti del parco, dove andavamo a fare l'amore, fino a giù alla scalinata verso il belvedere, su una delle panchine di fronte alla fontana con la colonia di carapaci si trova la penultima lettera.
Contiene un ritratto della famiglia Addams.
Eravamo vestiti da dei Gomez e Morticia molto poco credibili, all'Halloween party del Mezzocannone Occupato dove le avevo detto "Ti amo" per la prima volta.
Via Mezzocannone quindi: penultima tappa, ultima busta.
Attaccata alla stella rossa sul muro con il bel faccione epico di Fidel.
Dentro: un quadrifoglio.
Un quadrifoglio vero, pagato molto più di quanto sia umanamente ragionevole, da mano a un pazzo di Torre Annunziata che lo vendeva su Facebook Marketplace.
Mi recriminerà di certo tutti i soldi che ho buttato per la realizzazione di quest'esperienza surreale, la vedo già col ghignetto dispettoso in viso. Ma io spero solo che si diverta.
La sto già aspettando sul piccolo molo della Gaiola, con la schiena dritta nella morsa della tensione, quasi quanto il palo infracidito di fianco a me.
Secondo i miei calcoli, ma molto dipende da come sceglierà di percorrere la distanza tra le tappe, ci potrebbe mettere anche più di due ore.
Giuro che non ho nessuna fretta. Anzi.
In realtà ho paura di cosa succederà quando arriverà.
Se arriverà.
Perché la conosco bene e so già quanto sia un azzardo enorme quello che sto facendo.
Lo scenario più probabile è che mi scoppi a ridere in faccia e sdrammatizzi, recitandomi uno dei versi del suo cantante preferito: "Ma perché vi coniugate, a che serve? Mica siete dei verbi!".
Sì, ok. Lo capisco. Se anche andasse così, magari ci faremo una risata insieme e volteremo pagina.
Ma un uomo può sognare, no?
Quando ero piccolo, alla domanda imbarazzante che ogni bambino si è sentito porre almeno una volta da un adulto disagiato, "Filippo, cosa vuoi fare da grande?", la mia risposta entusiasta era "Mi voglio sposare con una ragazza bellissima".
Chissà, forse è davvero l'influenza dei film Disney che ci macera il cervello, come crede Teresa. O, forse, ero stranito dal fatto che i genitori di tutti i miei compagni di classe fossero sposati, mentre la mia giovane e bella madre non lo era.
Bah.
Passava manc' po' cazz' se quello che amici e parenti si aspettavano di sentire fosse, in realtà, relativo ai sogni di carriera di un creaturo che al lavoro, com'è ovvio, non ci pensava neanche per sbaglio.
Chissà cosa rispondeva la piccola Elena, invece, a quella domanda di rito. Posso immaginare che fosse qualcosa di molto più ambizioso ed elaborato ma, in cuor mio, spero nulla che finisca con l'andare in conflitto con la mia proposta.
Il tempo sembra non passare mai quando stai con le budella accartocciate, la testa annebbiata, gli occhi lucidi e le mani sudate strette attorno a un mazzo di rose blu, ordinate con una quantità spropositata di mesi di anticipo.
Mi tengo impegnato con Andrea Tartaglia che mi rimbomba nelle cuffie, perché ho bisogno di smorzare il romanticismo incalzante del momento con un po' di cruda realtà.
Faccio annanz e aret', con le ginocchia tremanti, sul metro quadro del ciglio del muretto, distratto di tanto in tanto dai pochi turisti invernali che si scattano foto con lo sfondo dell'isola della Gaiola da sopra alla terrazza.
Chissà se stanno pensando a quanto io sia sospetto, piantato qui così per ore, con tutte le funzioni vitali bloccate dall'ansia. Visto dall'esterno, del tutto decontestualizzato, mi sa che somiglio a un personaggio tormentato e allucinato di un film dei Manetti Bros.
Tra l'altro, continuo a guardare il cellulare a ritmo febbrile.
Dopo una fugace e apprensiva occhiata alle notifiche push sul salvaschermo, lo infilo in tasca. Aspetto due minuti e lo caccio di nuovo fuori. Me lo riporto davanti al naso, altri due minuti e poi nuovamente dritto in tasca. Ripeto, ancora e ancora, gli stessi tre movimenti in loop come se fosse la mia pena infernale per chissà quale legge del contrappasso mentre, chi mi vede da fuori, probabilmente lo scambierà per il mimo di un eccentrico allenamento di sollevamento pesi con un aggeggio da neanche trecento grammi.
Teresa mi tiene aggiornato in maniera più scostante di quanto avessi sperato, alimentando la mia angoscia molto più del dovuto. Erano messaggi così piccerelli che sembrava quasi che qualcuno l'avesse convinta che fossero dei telegrammi a pagamento. Una telecronaca molto rapida ed ermetica di quello che riusciva a vedere dai suoi nascondigli.
"Ha riso" recita l'sms che mi annuncia la reazione di Elena all'indizio dello smacchiatore davanti al bar.
"Stiamo in funicolare" mi prefigura il ritrovamento della busta alla Floridiana da lì a poco.
Il tutto a distanza di una quantità di tempo per me, ormai, sempre più insopportabile.
Mancano dieci minuti alle 16, il sole inizia a calare e di gente nei dintorni non se ne vede più. Mi decido a sedermi, perché le ginocchia e i polpacci hanno iniziato a urlare pietà.
Invece, all'improvviso, proprio quando quasi non ci speravo neanche più, vedo muoversi qualcosa in lontananza. Una figura agile che corre a velocità impressionante.
Mi rimetto subito in piedi, seguendo con gli occhi i rapidi movimenti di quella che, spero con tutto il cuore, sia davvero Elena e non Teresa che, ahimè, viene a dirmi che quella si è rotta il cazzo e se n'è tornata a casa. Oppure che si è persa proprio all'ultimo a tutto.
Deglutisco un grumo di saliva, grosso come la cupola della galleria Umberto, quando noto che i capelli sono troppo chiari per essere quelli di Teresa.
È Lenuccia.
Finalmente mi viene incontro, anche lei con gli occhi lucidi e il fiatone. Il mio stesso stato d'animo, pur senza aver corso per ore in lungo e largo per la città.
Il cuore mi fa un salto carpiato fuori dal petto, finisce dritto dentro al freddo e placido mare che lambisce la spiaggia del nostro primo appuntamento.
Muoio di tenerezza ogni volta che incrocio i suoi begli occhi di cristallo. Ancora, dopo così tanti anni, come la prima volta che si è voltata verso di me alla cassa del bar.
– Ciao – esordisco, senza avere idea né di come iniziare né di come finire quello che voglio e che devo. Mesi e mesi di organizzazione e prove buttati nel cesso in un nanosecondo.
– Ciao – ripete lei, trafelata, ma con un sorriso timido ed emozionato sulle labbra. Stringe forte tra le mani tutte le buste – Tieni proprio la capa gloriosa tu, né?
– Seh – sospiro e mi stringo nelle spalle con un po' di rammarico misto a vergogna – Mi ero preparato anche un discorso, ma ho già dimenticato tutto – ammetto.
Ci fissiamo.
Seduti su questo stesso muretto, cinque anni fa, era finita la nostra breve ma intensa storia d'amore giovanile.
"Una storiella tra adolescenti", avranno pensato tutti quelli che ci conoscevano all'epoca. Chi poteva immaginare che fosse stato un "lasciarsi" a parole che però, in tutto quel tempo, non si era mai imposto davvero nei nostri cuori?
Elena, oggi siamo adulti e io ti amo ogni giorno di più. Ti prego, scegli me. Sceglimi, come io non ho mai smesso né mai smetterò di fare con te.
Mi obbligo di trovare almeno il coraggio per porgerle le rose, profumate e altezzose, dello stesso colore dei suoi occhi.
Il sorriso che le si è congelato in volto tradisce il suo evidente stato di imbarazzo e turbamento emotivo.
È paonazza.
Prende tra le braccia il mazzo con vistoso disagio, come se fosse un neonato.
Chiede dove cazzo le ho trovate.
Rido, confuso. Forse non ricordo più la corretta replica a quella domanda così semplice.
Non rispondo.
Non so se sia la brezza fredda che ci lancia addosso il mare a farmi venire la pelle d'oca, perché sono stato così imbecille da non portarmi appresso un giubbotto, oppure se è solo la naturale conseguenza di come mi sento in questo momento.
Penso che, crescendo, la vita mi abbia costretto a diventare sempre meno sicuro del fatto di riuscire a coronare il mio buffo sogno d'infanzia.
Ci chiamano "generazione Tinder", ci recriminano il fatto di sposarci tardi o di non sposarci affatto. Dicono che non crediamo più nell'amore, nelle relazioni durature, nel giurarsi fedeltà e riservarsi completamente a una sola persona per tutta la vita.
Bullshit, dico io.
L'amore (o le svariate sfumature di esso) tra le persone non è mai cambiato, in millenni di storia. Neanche quello oltraggiato e ostacolato come quello omosessuale. Vedi tu se mo, solo perché c'è Tinder, la gente non si vuole più impegnare.
Se la gente ha smesso di sposarsi è perché non crede più al fantasioso aspetto religioso dell'atto, alla burocrazia che lo rende un calvario, alle catene sociali che ne derivano, alla valanga di soldi che si buttano per far divertire gli invitati mentre gli sposi si intorzano ogni singolo dettaglio dell'organizzazione che non riesce come avrebbero voluto.
Lo so bene che il matrimonio non è una necessaria conferma o tappa obbligata dell'amore. Tantomeno il traguardo finale a cui aspirare. Però può esserne un simbolo efficace.
Voglio sposare Elena perché è l'unica donna con cui voglio passare il resto della mia vita. Lo voglio perché ho bisogno di darle la più ferma delle conferme che non esiste nessun'altra al mondo con cui farei questa colossale cazzata.
Punto.
Le storielle di contorno non ci servono.
Molti anni fa, da ragazzini, le avevo detto che l'avrei sposata se l'avessi messa incinta per sbaglio. Lei mi aveva riso in faccia, umiliando un po' le mie innocenti buone intenzioni da guaglioncello dei quartieri bassi, figlio unico di una giovane donna single diventata madre troppo presto.
Ora, invece, glielo sto per chiedere perché mi sembra la naturale conseguenza di tutti questi anni d'amore incondizionato. Perché il bambino che risiede vivo e vegeto nello stanzino più remoto del mio cervello ci spera ancora.
Ci crede ancora.
I dubbi e le paure del piccolo Filippo hanno avuto tutto il tempo di maturare nelle assolute certezze (o apparenti tali?) del Filippo che, ora, guarda negli occhi la sua ragazza dopo averle fatto fare un articolato tour della città per raggiungerlo.
Il Filippo adulto, sì, ma che sta ancora impalato a rigirarsi il grazioso bauletto di velluto blu nella tasca del pantalone, con il nervosismo che gli annebbia i pensieri.
Forse è la paura del rifiuto, che mai mi abbandona, ad avermi strozzato in gola tutto il discorso faticosamente preparato per mesi interi.
Vabbè, è andata così. Facciamo anche senza il discorso.
Tanto che la amo dal primo momento che l'ho vista, già lo sa. Che ho scritto fiumi di parole per lei quando credevo di averla persa per sempre, pure lo sa. Che sono stato in viaggio per il mondo a Nord, Sud, Ovest, Est e tutte quelle strade vicine o distanti mi hanno sempre e solo riportato a lei. Che ho provato persino a dispensare il mio affetto ad altre, ma senza mai riuscire a liberare il mio cuore dalla sua briglia. Anche questo lo sa.
Con le gambe instabili e le mani che mi tremano, mi piego davanti a lei.
I suoi occhi di vetro mi guardano come se fossi pazzo. Si morde il labbro inferiore e si porta una mano davanti alla bocca, come nel più classico dei polpettoni romance.
Mi schiarisco la voce.
Cos'è che volevo dire?
– Lenù – la lingua si muove da sola – Su questo molo, anni fa, mi hai detto addio dall'oggi al domani. Per tutto il tempo che ne è seguito, ho cercato di andare avanti per la mia strada, convincendomi che l'essere così disperatamente innamorato di te fosse diventata una parte di me per abitudine, senza sapere se lo fossi ancora davvero oppure no.
Un suo sopracciglio si inarca con scetticismo, quasi come a chiedermi se la sto prendendo in giro.
– Tanto non mi è stata più concessa l'occasione di rivederti per tantissimo tempo. Invece poi, quando ti ho rincontrata, lo stupore più grande è stato il constatare che non era affatto abitudine. Al contrario, il mio assoluto amore per te è così tanto integrato nel mio cervello... o nel mio cuore, insomma, in tutto me stesso, che non riesco più a ricordare come mi sentivo prima che mi innamorassi di te. È come se ci fossi nato, con questo sentimento già installato, come marchio di fabbrica.
Una lacrima le sfugge dal bordo dell'occhio destro. La sento deglutire ma non prende la parola a sua volta, quindi capisco che è ancora il mio momento.
Tiro fuori la scatolina.
Aspetto.
E che sfaccimma! Ho troppa paura di aprirla.
Ma ormai sono in ginocchio, che cazzo faccio?
Va bene, potrà anche dirmi di no, ma mica mi lascerà solo per questo?
Chiaro che, conoscendola, sono già perfettamente cosciente di rischiare in concreto una plateale risposta negativa, pesante e ingombrante come il Vesuvio che si sta mimetizzando nel buio in espansione dietro di noi.
Non fa niente, è uno dei possibili finali che ho preventivato.
Il rumore delle onde del mare alle mie spalle mi distrae. Il loro moto continuo inizia ad accrescermi l'ansia, perché mi ricorda tutto il tempo che sta passando senza che io riesca a fare nulla di quello che devo.
I gabbiani sembrano volarci attorno come avvoltoi. Non so se ce l'hanno con me per colpa della mia insostenibile titubanza oppure se stanno urlando a Elena di lasciarlo perdere 'stu scem ch'e mmane ca tremmano e a voce stretta 'ncanna.
Rinvengo.
Come se avessi fatto un inaspettato viaggio spirituale fuori dal mio corpo per non so quanto a lungo, e avessi avuto la prontezza di tornare in me appena in tempo per non fare una figura di merda irrimediabile proprio davanti all'amore della mia vita, in uno dei momenti più cruciali della nostra storia.
La guardo di nuovo fisso in faccia, stringo lo scrignetto nel pugno come se volessi fracassarlo invece che donarglielo.
Ma niente, non riesco mai a interpretare con la necessaria chiarezza il flusso di pensieri in fondo ai suoi occhi trasparenti. Ogni sua reazione è sempre una sorpresa.
Jamm' bell, Filì!
Se trovi il coraggio di fare questo, non ci sarà più nulla che possa farti paura. Libero dai demoni angoscianti del tuo subconscio, chissà cos'altro potresti fare nella vita.
Sanremo? Un pezzo Thrash Metal? La colonna sonora di un videogioco? Magari diventare una celebrità internazionale. Chessò, arrivare a suonare perfino in Giappone?
Uè, Gaiola, 'mmoccachitestraviv. Portami davvero fortuna stavolta.
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Ehilà! Se sei arrivat* a leggere fin qui vuol dire che HEARTETECA ti ha preso 🥰 Per favore lascia un commento o una stellina se questo romanzo ti ha lasciato dentro qualcosa!
Grazie mille per aver viaggiato tra queste pagine 💙 Alla prossima!
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