Track XXXIV - Miez'o Mare


Quella di seguire l'Eurovision nella città in cui stava avvenendo fu un'esperienza che mai mi sarei aspettato essere tanto sorprendente e illuminante. Era qualcosa di molto simile ai Mondiali di calcio, quindi mi guardavo le spalle con la sensazione che potesse scattare la rissa tra gruppetti inneggianti a Paesi rivali da un momento all'altro, a ogni angolo di piazza. Invece non ci fu nessun episodio violento o litigioso.

Persino io, nonostante lo stato d'ebbrezza costante e le molestie che (suo malgrado) Elena si attirava addosso per strada da uomini di ogni nazionalità, non misi le mani addosso a nessuno. Mi chiesi se fosse grazie al contesto di tifoseria sana o se i miei blackout, finalmente, se ne fossero davvero andati a fanculo una volta per tutte.

A una certa, però, temetti il peggio. Perché la città si era decisamente sovrappopolata per le sue dimensioni e, a complicare il tutto, si aggiunse la totale inadeguatezza dei mezzi destinati alla gestione dell'evento. Non riuscimmo a entrare al parco del Valentino per goderci lo show nella venue pubblica principale, come aveva tanto sognato Elena, poiché era troppo ristretta la sua capienza rispetto alla massa strabordante di fan che era giunta lì da tutto il mondo. Le cose si complicarono quando scoprimmo che nessun'altra piazza era stata adibita alla visione dello spettacolo, quindi l'euforica marmaglia fu costretta a riversarsi per le strade del centro in stile zombie fino a tarda notte, nella vana speranza che qualche pizzeria facesse la grazia di trasmettere Rai Uno.

Elena era furibonda. Pensai che fosse sul punto di svilupparli lei i miei blackout, mo che a me erano passati. Gridava in miez' a vij tutta la sua antipatia per i torinesi, "Sì, è giunta l'ora di togliermelo, questo sassolino dalla scarpa!", ripeteva per rinfacciargli il loro essere freddi e apatici, che non se lo meritavano un avvenimento di quella portata.

In effetti, ragionai, se fosse stato ospitato a Napoli si sarebbero create una serie di postazioni abusive spontanee in ogni singolo vascio del centro storico, per accogliere tutti quei turisti che non sarebbero riusciti a entrare in arena per le serate live. Invece, l'impressione che ci diedero i torinesi fu quella di voler boicottare il festival come se avesse fatto loro il torto personale di riempirgli la città di stranieri.

La delusione esplosiva di Elena si placò solo quando trovammo posto sul marciapiede di fronte a uno dei pochissimi pub con lo schermo all'aperto che fosse sintonizzato sulla finalissima. L'ambiente era scomodo, ma vivacizzato dalla presenza di altri gruppetti che erano finiti lì come noi e che non si esimevano dal commentare ogni singolo fotogramma della trasmissione, o dal battibeccare su chi fosse il cavallo vincente.

Quali che fossero le loro iniziali preferenze, alla fine si festeggiò tutti insieme la vittoria solidale con l'Ucraina. Il cui pezzo, comunque, era il mio preferito fin dall'inizio.

Nonostante la notte in bianco, le strade di Torino ancora invase da mille lingue, inni e bandiere diverse, noi saltammo sul primo treno in direzione Napoli all'alba poiché, appena due giorni dopo, io avrei finalmente potuto sostenere la discussione della mia tesi di laurea in presenza.

Quel giorno Elena e Teresa si agghindarono come se dovessero partecipare a un matrimonio, mio padre aveva pittata in faccia un'espressione oltremodo beata, che non gli avevo mai visto addosso, e mamma non riusciva a smettere di piangere tutte le sue lacrime.

La seduta filò liscia come il mio esame di ammissione, con l'eccezione che ero molto meno teso perché avevo avuto anche fin troppo tempo per prepararmi a causa della fottuta pandemia.

Andrea mi fece il regalo più grandioso (e costoso) che mai avrei pensato di ricevere nella mia vita. Mi consegnò sottobanco una busta rossa, contenente la foto di un pianoforte Bösendorfer 130 nero opaco, e mi strizzò l'occhio: – Questo te lo faccio arrivare nella tua casa nuova.

Solo lui sapeva che stavo cercando di comprare casa. Nessuno, in tutto il ramo della famiglia di mia madre, era mai sfuggito a un'intera esistenza condannata all'affitto. Io sarei potuto essere nientemeno che il primo miracolato a scampare a quell'infame destino. E dovevo farlo anche in fretta, se volevo attuare il mio piano "pre-venticinquesimo".

Mi erano caduti gli occhi su un appartamento molto grande ai Quartieri Spagnoli, nel barocco palazzo ristrutturato color cremisi all'angolo tra Pasquale Scura e via Girardi, e stavo già in negoziazione con il proprietario. Ogni volta che guardavo Spaccanapoli allungarsi dritta dritta davanti a me dalla sommità di quella salita, mi sentivo come se fossi al centro del mondo.

Io e il team avevamo appena incassato una collaborazione importante con uno dei più famosi e apprezzati brand di pasta italiani, che mi avrebbe permesso non solo di partecipare al calendario di prestigiosi eventi per Procida Capitale della Cultura 2022, ma anche di suonare in uno degli scenari più belli in cui un artista potrebbe mai immaginare di avere il privilegio di esibirsi.

Quel 20 luglio faceva un caldo asfissiante. Ma sopportai di chiavarmi addosso tutta sant'Anna perché Antonella si era davvero superata nella composizione dei costumi di scena. Sembravo un adepto di Anakin Skywalker con il microfono al posto della spada laser, il che rendeva il tutto ancora più epico.

Era la prima volta che, nei panni di LIBERATO, mi sentivo in qualche modo "scoperto". Di solito mi fuoriuscivano dai vestiti appena appena le mani ma, da quella specie di tunica arrevogliata in cui mi avevano infilato, i lineamenti della mia figura uscivano con più preponderanza, messi in risalto dai contorni morbidi dei drappi neri che mi avvolgevano di lungo. Il tocco di classe fu, addirittura, l'unica mia spalla non tatuata che era stata lasciata completamente nuda.

Quando la barca mi lasciò alla piattaforma in mezzo al mare su cui era stato allestito il palco, di fronte alla Spiaggia della Lingua, il tramonto aveva cominciato a colorare di un pallido arancio i contorni dell'isola e delle maschere argentate del quartetto d'archi che suonava già da una decina di minuti per annunciarmi.

Mi sorpresi di quanta gente fosse accorsa nonostante avessimo pubblicizzato la live sui social, a sorpresa, solo pochissime ore prima. A svettare in prima fila e tifare per me come delle vere cape ultras, c'erano Elena e Teresa.

Indugiai a fissarle con commozione da dietro agli occhialoni neri a mascherina che mi coprivano metà volto. Loro rappresentavano l'eccezione alla regola, sempre, in tutto e per tutto. Erano l'unico microscopico sottogruppo di spettatori che sapesse chi cazzo fosse lo scemo incappucciato che cantava su quel set incredibile.

Quel giorno, quel dettaglio fu particolarmente importante, tanto per Filippo quanto per LIBERATO.

Fu la prima occasione in cui cantai in pubblico per Elena a carte scoperte, senza dovermi schiattare in corpo per il fatto di averla sotto al palco e non poterle parlare se non tramite i testi di canzoni di cui non aveva idea che fossero state scritte per lei.

Quante cose erano cambiate dalla triste e fredda notte del 4 novembre 2018. Quella sera di luglio, invece, guardavo la mia splendida ragazza dallo stage galleggiante di LIBERATO con la consapevolezza che lei vedeva Filippo. Che sapesse a chi erano rivolte le parole che stavo cantando.

Ed era una sensazione impagabile.

Non aveva apprezzato la mia scelta di aprire quella data con Anna ma, a parte gli stupidi screzi di quel tipo che ci capitava di avere ogni tanto (specie da quando il fantasma della mia storia con Annachiara le aveva suscitato un'esperienza di gelosia del tutto nuova), mi colse la realizzazione di come fosse stato sempre tutto incredibilmente semplice con lei, ancor di più dal momento che non vi erano più segreti tra di noi.

Da lei non mi dovevo guardare le spalle, con la paura di essere usato come una bambola. Non avevo motivo di dubitare che sopravvivesse alla nottata o di ritrovarla sul giornale tra i caduti di chissà quale eroica impresa di liberazione. Non dovevo vivere ogni giorno con la speranza che prendesse l'aereo giusto per poterci incontrare l'indomani. Ci eravamo innamorati nella semplicità dei nostri stili di vita e delle nostre personalità, che si incastravano alla perfezione l'una nell'altra.

Già, la semplicità... Di "semplice", nello stile di vita di LIBERATO, c'era ben poco. Eppure continuavo a guardarlo criticamente da lontano come se non fosse il mio, come se il corpo che si muoveva, cantava e suonava sui suoi palchi non fosse quello di Filippo, come se non fosse il mio sudore quello buttato sugli spartiti della sua musica.

La paura boia di cantare in acustico, che avevo provato altre volte prima di salire su quel podio, mi abbandonò via via che prendevo confidenza con l'atmosfera sognante che aveva avvolto il golfo. Davanti a un angolo di paradiso come quello, sotto un cielo che sembrava dipinto sul momento da un impressionista, non potei che lasciarmi trasportare dalle note degli strumenti classici e dall'emozione di poter unire la mia banalissima voce a uno spettacolo così indescrivibile.

Mi venne in mente il primo concerto che avevo fatto a Napoli che, fino ad allora, era rimasto figlio unico. Forse proprio per il terrore di rivivere la sensazione di essere scoperto, che il mio segreto sfuggisse al mio controllo e, di conseguenza, tanto la vita di LIBERATO quanto quella di Filippo ne uscissero devastate. Perché all'epoca fu Teresa, la persona di cui potevo fidarmi di più sulla faccia della Terra, ma cosa mi assicurava che non si potesse ripetere con qualcun altro? L'orrore mi paralizzò le connessioni neurali alla sola remota ipotesi che il prossimo potesse essere mio padre.

Forse la dissonanza cognitiva legata al fatto che, chi avrebbe dovuto conoscere Filippo meglio di chiunque altro, non aveva mai riconosciuto LIBERATO in lui, aveva contribuito a instillarmi le crisi d'identità. Tuttavia era esattamente quello il risultato che volevo ottenere, fin dall'inizio, quando avevo scelto di perseguire l'anonimato senza concedermi eccezioni. Non potevo sapere, col mio cervello bacato da diciottenne, cosa potesse davvero comportare quella decisione. Però, col senno di poi, anche il Filippo ventiquattrenne sarebbe rimasto non solo fedele ma, anche, assolutamente convinto di quella costrizione autoimposta, al di là di tutti i pro e i contro che aveva comportato nella mia psiche e nella mia vita.

Ecco, un altro difetto che non riuscivo a perdere erano le astrazioni mentali di Filippo mentre LIBERATO si esibiva. La grande star non aveva bisogno del ragazzino complessato per inscenare la sua performance, anzi, andava per la sua strada col pilota automatico molto meglio che se ci fosse stato Filippo al comando.

In uno dei rari momenti di lucidità in cui le mie due personalità coincisero sul palcoscenico, in concomitanza con l'intermezzo di Me staje appennenn' amò, mi ricordai di quando Teresa sgamò la mia doppia identità e si rammaricò del fatto che non avrei mai potuto farle una dedica da sopra al palco. Così mi tornò anche in mente la recente discussione che avevamo avuto su Mare Fuori e la wave che era scoppiata su TikTok, con quel mio pezzo montato sui video della love story di due protagonisti della serie. Una dei quali si chiamava proprio Teresa.

Mi riservai un momento durante la pausa strumentale, per capire quando e come fosse giusto farlo. L'idea mi imbarazzava e divertiva in parallelo ma, dopo un attimo di tentennamento, mi decisi a sussurrare al microfono: – Teresa... – senza riuscire a trattenere un sorriso dietro al manto scuro che mi copriva dal naso in giù.

Che coraggio. Espormi così tanto, proprio io che parlavo così raramente durante i miei concerti.

Eppure quello era proprio il momento perfetto per buttarmi, poiché avevo l'occasione della vita di prendere due piccioni con una fava. Parte del pubblico esultò per la citazione inaspettata. Altri, forse troppo vecchi per aver guardato quella serie o per usare TikTok, si scambiarono sguardi perplessi nel tentativo di capire chi cazzo fosse Teresa.

Io, che sapevo bene chi era la one and only Teresa, buttai velocemente un occhio su di lei giusto in tempo per vederla fingere di svenire tra le braccia di Elena, interpretando una sceneggiata da vera groupie. Più o meno la stessa reazione che aveva avuto anche Antonella, quella volta che la nominai di stramacchio cantando Tu t'e scurdat'e me per pariare, durante la Instagram live nel 2020.

Sul tardi, quella sera, quando andammo tutti insieme a mangiare alla Locanda del Postino a Marina di Corricella, Teresa mi ringraziò platealmente, serrandomi tra le sue braccia come una vergine di ferro per tenermi fermo mentre mi stampava tanti di quei baci in fronte da consumarmi la pelle.

– Peccato solo che tu non possa fare la proposta di matrimonio a Elena come Fedez l'ha fatta alla Ferragni! – considerò con malizia, rivolta verso Elena che succhiava il suo ultimo spaghetto alle vongole di fianco a me.

Lei mugugnò indispettita e paonazza in viso, forse per la sorpresa oppure per il disappunto: – Meglio così! – rimbeccò lapidaria – Quello che non si dice mai di gesti plateali come quello è l'ingiusta pressione psicologica che scaricano addosso a chi li riceve.

Si voltò verso di me con un ghigno allusivo: – Che figura ci farebbe, poi, se dicessi di no?

***

Entrambe mi accompagnarono anche alla data di Milano, a inizio settembre. Su quel concerto sembrava pendere una maledizione: era stato rimandato già tre volte, funestato dalla pandemia per due lunghi anni, ormai.

Ma infine il momento era arrivato, e sarebbe stata la seconda data a cui presenziava anche Lenuccia, a distanza di così poco tempo. L'abitudine al fatto che anche lei fosse partecipe dei miei sdoppiamenti si stava consolidando in fretta.

La cosa che ci colpì di più (forse me più di tutti) appena usciti dalla maestosa stazione centrale, fu leggere il mio nome d'arte a lettere cubitali sui tram della città. Teresa ed Elena si fecero intere sessioni di photoshoot con quello sfondo ogni volta che ne beccavamo uno per la strada, e si scambiavano battutine sul fatto che Napoli avesse finalmente conquistato Milano.

– State iniziando a diventare troppo vistose... – scherzai, una sfumatura di malcelata preoccupazione nel tono.

– Ma che ti credi, che siamo le uniche tue fan pazze? Se ti facessi un giro su Instagram, ogni tanto, ti accorgeresti che hai anche tanti altri seguaci molto più sfegatati di così! – mi rimbeccò Terry, e rincarò con una linguaccia.

– Specialmente da quando a Procida te sì mis a fa' 'o sciatos c'a spalla afor' – sottolineò Elena con una punta di gelosia, smorzata dallo sguardo inorgoglito dal privilegio di potermi avere solo lei, a cazzimma verso tutte le altre guagliuncelle che si sgrillettavano su di me senza manco sapermi di faccia.

In effetti, mi ero abituato a guardare molto poco i social tramite i profili di LIBERATO. Era una cosa che mi metteva ancora troppa ansia. Piuttosto, lasciavo che quello fosse il dominio di Natalia, cosa di cui lei (per fortuna) non si era mai lamentata.

I giornali, invece, li leggevo eccome. Mi colpì un articolo che lessi poco dopo il concerto a Napoli, che investigava su chi componesse questa strana fauna emergente dei "fan di LIBERATO". La cosa che mi stupì maggiormente fu la grande varietà di vissuto, età, provenienze e personalità che la mia musica sembrava riuscire a raccogliere attorno a sé. Un mistero che non riuscirò mai a spiegarmi.

A riprova di quello stesso fenomeno, il mio concerto di Milano venne descritto da un giornalista del Rolling Stone come "un'allucinazione collettiva". Quella data radunò svariate migliaia di fan in più rispetto a quelli che erano venuti a Rotonda Diaz quattro anni prima, considerato anche che, contrariamente alla data di Napoli, non era gratis e non era nemmeno nella mia città.

Non riuscivo ancora a credere di essere arrivato fino a quel punto, nonostante la mia capa tosta e la trafila infinita di capricci e paranoie.

In così poco tempo, poi.

Nel 2015 ero un ragazzino che aveva appena imparato a battere i tasti del piano e a leggere la musica. Scrivevo degli abbozzi di poesie per tenermi impegnato, che il tempo a Nisida sembrava non passare mai, finché, un giorno, Andrea mi suggerì di cantarle sopra alle melodie che strimpellavo sul vetusto pianoforte dell'IPM e che, all'epoca, mi sembrava l'unica cosa in grado di trasportarmi lontano da lì come un immaginario tappeto volante.

Dopo Milano, si scrisse di me come di un santo.

Stavo ancora imparando a convivere con quell'onda travolgente di attenzione mediatica ma, il fatto che l'intero team si sentisse collettivamente parte di quel processo di deificazione, mi aiutava moltissimo. Perché, del resto, senza il contributo di ognuno di loro non sarei mai arrivato da nessuna parte.

Proprio quella scomposizione del lavoro e del merito tra più persone, invero, mi rendeva più facile la riappacificazione tra Filippo e LIBERATO, quasi come se fossero altri due membri del team. Anche se, di tanto in tanto, le mistificazioni sulla persona reale dietro LIBERATO diventavano così elaborate e credibili da farmi dubitare dell'esistenza stessa della mia realtà come mi sembrava di conoscerla. Sarei persino potuto essere l'inconsapevole protagonista di una fanfiction: scritto e descritto da un invasato autore, incerto su dove incanalare la propria dubbia creatività. Che, però, in una serie di vaneggiamenti ben strutturati, poteva essere riuscito nell'impresa di tratteggiare la mia vera forma.

Quella definitiva? Se non, almeno, una delle tante possibili.

Infatti, più la fama si accresceva, più l'effetto "Vitangelo Moscarda" si manifestava con prepotenza, forse inevitabile conseguenza della condizione stessa che mi aveva spinto all'anonimato: la volontà di non legare la mia musica a un individuo fisico e riconoscibile, tantomeno a Filippo; così si era andata frammentando non solo l'immagine che ogni fan potesse avere di me, ma anche l'immagine di me che io concedevo di avere a me stesso.

Fu Teresa a suggerirmi quell'interpretazione, dalla poltrona di fronte alla mia sul Frecciarossa di ritorno verso Napoli. Teneva stretto tra le mani il capolavoro di uno dei suoi scrittori preferiti e disse che lo aveva portato pensandomi: Uno, nessuno e centomila.

– Che importanza ha definirti "uno", Filì, se quell'uno che credi di essere non corrisponderà mai realmente a ciò che sei per gli altri? – filosofeggiò, col solito piglio socratico che ci faceva pendere tutti dalle sue labbra – Per lo stesso motivo, non ha alcuna valenza trasformarti in quei "centomila" in cui ognuno dei tuoi fan e conoscenti ti identifica. Accontentati e accetta di essere "nessuno", dunque, e camperai molto meglio con il fardello che ti sei messo addosso per tutta la vita.

Che tarantella il concetto di "identità".

C'è gente che ci muore.

Perché si ha avuto la sfortuna di nascere in un gruppo oppresso invece che in quello oppressore; perché i propri connotati non coincidono abbastanza con quelli "autoctoni" per essere riconosciuti come parte della comunità; perché ci si vota a chissà quale ideologia perseguitata; perché qualcuno vuole la terra natale di qualcun altro ed è disposto anche allo sterminio pur di prendersela; perché si ha un difetto di nascita che diventa il dettaglio cruciale su cui si finisce col costruire la propria intera essenza.

Gulê si aggrappava alla sua identità con le unghie e con i denti, perché da lì traeva la forza necessaria a condurre la sua battaglia.

E io?

La volevo davvero un'identità? Anzi, ne avevo mai avuta una, o più d'una, at all? Non avrei fatto meglio a rinunciarvi?

Forse non avevo mai capito chi fosse LIBERATO perché, prima ancora del mio alter-ego, era proprio Filippo a essermi sconosciuto. E, pertanto, sembrava che lo fossero entrambi anche agli occhi degli altri, financo di colei che mi aveva messo al mondo.

La soluzione, secondo Teresa, al contrario di quanto mi fossi strenuamente sforzato di fare in tutti quegli anni, non era che la mia testa facesse pace con la realtà di essere Filippo e LIBERATO insieme. Al contrario, non ero davvero nessuna di quelle fabbricazioni identitarie.

La mia migliore amica fece un sospiro solenne, aprì il libro all'ultima pagina e recitò ad alta voce: – "Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest'albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest'albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo".

Già.

Teresa non ne sbagliava mai una.

La costruzione di sé stessi passa, volenti o nolenti, per lo sguardo altrui. Questo non ci definisce, ma ci descrive. Ognuno di noi è il risultato di una moltitudine di sguardi interni ed esterni che, come i tanti pixel che compongono un'immagine digitale, ci rendono "qualcuno".

Che il mio "qualcuno" interiore fosse Filippo, LIBERATO, nessuno dei due o entrambi, non avrebbe cambiato nulla agli altri. E forse, ormai, neanche a me.

Però il fatto che due delle persone a me più care sapessero finalmente di me, di noi, di quel segreto, mi aveva aperto la porta al superamento del conflitto in cui mi ero costretto quando avevo scelto la via più chiusa possibile all'anonimato, precludendomi la possibilità di risolvere la sensazione interiore di sdoppiamento dell'essere, finché qualcuno che conoscesse Filippo da tempo non vedesse e accettasse anche la parte di lui che si era traslata in LIBERATO.

Era assolutamente necessario che, almeno qualcuno delle persone più vicine a me, ne venisse a conoscenza. Ma non potevano essere i membri del mio team di lavoro, perché erano stati loro a vedere LIBERATO in me prima ancora che io accettassi di diventarlo.

Ci avevo messo anni a capirlo.

– Un giorno potresti smettere del tutto di vestire i panni della superstar e andare avanti per tutt'altra strada. Cosa saresti allora? Chi saresti allora? – profetizzò Teresa, per instillarmi il dubbio che non ne valesse poi tanto la pena di accettare LIBERATO, se tutta quella fatica sarebbe potuta finire nel cesso appena avessi deciso di averne abbastanza di quella stramba carriera musicale in cui mi ero ritrovato.

– Puoi, però, almeno, non smettere di essere il mio ragazzo? – sghignazzò Elena, e allungò teneramente la testa sulla mia spalla con gli occhi dolci.

Dipende.


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NdA: La foto in copertina ritrae la mano del vero LIBERATO, col suo costume di scena, prima di salire sul palco di Procida. La foto è stata scattata il 20 Luglio 2022 dalla sua costumista, Antonella Mignogna.


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