Track XVIII - Luntan' pt.2
Quella notte finii col girarmi e rigirarmi freneticamente tra le lenzuola, senza riuscire a prendere sonno.
C'era qualcosa in Gulê che mi aveva colpito nel profondo.
Anche i ragazzetti di Napoli, specie quelli con i miei trascorsi, crescono un po' abituati a vivere sul filo del rasoio.
La miseria, l'ansia per il futuro, l'incombenza di poteri oscuri ben più forti e antichi di noi, la rassegnazione e la sottomissione a un sistema incancrenito percepito come inevitabile, sono tutte cose che fanno parte della nostra vita fin dal nostro primo respiro. Nessuno di noi viene spinto a chiedersi il perché e il per come delle cose che ci circondano; assistiamo da inermi spettatori alla sceneggiatura delle nostre vite, ed è quella stessa passività a essere la forza motrice per tirare a campare. Tanto per noi quanto per il sistema.
Persone caparbie e impegnate come Elena e Teresa, in questo bel quadretto di merda, sono l'eccezione e non la regola. Tutti gli altri guardano a loro in due soli modi possibili: eroine inarrivabili o illuse da compatire.
Eppure, per quanto sia difficile la nostra vita nel contesto che ci si impone per nascita, perlomeno a nessuno di noi viene negato il riconoscimento della nostra stessa esistenza.
Gulê e Zerya, invece, mi avevano aperto il sipario su un mondo in cui milioni di persone venivano derubate perfino di quel banalissimo diritto che, per molti di noi, è talmente scontato che financo la più vaga idea che possa esserci tolto non ci sfiorerebbe mai, neanche per sbaglio. Un conto era aver letto di queste cose sulle pagine di Zerocalcare, un altro era vedere due suoi possibili personaggi prendere vita davanti ai miei occhi, in carne e ossa, mentre rischiavano una vita che aveva incrociato la mia.
Mi rollai un po' di lemon haze per tirarmi su il morale e scesi a fumare sugli scalini all'ingresso del dormitorio. Nella saletta comune nell'androne del palazzo c'erano solo altri due studenti stranieri insonni, uno più ubriaco dell'altro, ma ben vestiti, che si lamentavano della ridotta dimensione degli alloggi. Roteai gli occhi mentre passavo dietro al divanetto in pelle scura su cui erano stravaccati, senza intromettermi nel loro discorso perché io avevo ringraziato la Madonna per quella ventina di metri quadri che non dovevo condividere con mamma e non dovevo pulire da solo.
L'aria fresca della notte si portò via il mio astio verso gli studentelli ricchi.
Il cielo era sgombro e di un blu intenso, quasi elettrico.
I raggi della luna, tonda e radiante come un CD, non riuscivano a raggiungere l'interno dell'angusta stradina coi palazzi uno 'ncopp all'at, ma creavano l'illusione di un'aura candida sulle foglie più alte della fila di sbilenchi alberelli sul marciapiede di fronte.
Feci scorrere lo sguardo su quel perimetro verde lungo la discesa che portava alla metropolitana e fu allora che mi accorsi di una figura piccola e scura che, in controtendenza, risaliva il vicolo verso di me.
Mi affrettai a finire di fumare e gettai i resti nel vaso di gerani che adornava la finestrella a fianco al portone. Temetti che fosse uno degli infiniti poliziotti sempre ingrippati di cui era colmo ogni angolo della città, ma poi un bagliore lunare riuscì a farsi largo nella fessura tra le palazzine più basse, e schiarì i contorni dei lunghi ricci e dei furbi occhi allungati di Gulê.
– Ciao! – disse, in italiano, quando fu abbastanza vicina da assicurarsi che l'avrei riconosciuta – Per fare un dispetto a mia cugina ho deciso di venire a trovare te e dimostrarvi che sono ancora viva – scherzò.
Ma quella battuta mi fece venire i brividi lungo la spina dorsale appena notai che aveva la mascella destra tumefatta da un grosso livido, e un sopracciglio coperto in diagonale da una spessa crosta di sangue annerito.
Non me la sentii di commentare.
Le sorrisi e chiesi come mai fosse ancora in giro alle 3 di notte, ma senza l'aggiunta di "conciata in questo stato, per giunta" che, tuttavia, avevo pensato.
– Quella scema di Zerya ti ha coinvolto in affari che nessuno che non sia abituato a fare la nostra vita dovrebbe mai maneggiare. Volevo scusarmi e assicurarmi di toglierti questo peso da dosso prima che ti possa creare altri problemi – illustrò, la voce trasudava amarezza e sarcasmo.
La verità era che voleva mettere le mani sul misterioso cellulare ed era abbastanza sveglia da aver già capito che ce l'avevo io.
Stetti al suo gioco.
– Cosa ti fa pensare che io non sia uno abituato a cose di questo tipo? – ghignai allusivo.
Lei rise, ma con la scintilla negli occhi di chi è sicuro di avere ragione: – Allora, viso d'angelo, pure tu c'hai gli scheletri nell'armadio? – mi sfidò.
Il mio ghigno scherzoso fu svelto a tramutarsi in un morso aspro: – Je nun tengo scheletre int' all'armadio, tengo 'o cimitero d'e Funtanelle – azzardai la battuta; da frequente turista in quel di Napoli ero abbastanza certo che potesse conoscere il posto.
Infatti sembrò cogliere la reference e mi osservò con sospetto misto a crescente interesse. Mi tese la mano per farmi alzare dagli scalini, e io la assecondai.
– Vieni a fare un giro con me? – intimò al mio orecchio, in forma di domanda che mascherava un velato ordine.
Già del tutto in balia del suo carisma e dei suoi occhi da tigre, non me lo feci ripetere due volte.
Gulê si avvicinò a un monopattino elettrico che stava parcheggiato di fianco all'albero più prossimo a noi, lo sbloccò col bluetooth del telefono e mi invitò con un cenno della testa: – Salta sul mio bolide, forestiero, stasera sono la tua Sherazade.
E sul serio aveva una storia da raccontare per ogni angolo di Istanbul attraverso cui sfrecciammo. Scendemmo in picchiata sullo stradone 19 Maggio in direzione del mare che sbucava di tanto in tanto all'orizzonte, tra le sagome degli edifici, come uno scintillante premio per i temerari che, come noi, sfidavano l'oscurità della notte turca.
Dal ponte d'acciaio sul Bosforo, quella sera tutto illuminato di blu, scorsi il mio campus affacciato sulla placida riva scura dello stretto.
Il profumo di gelsomino dei suoi capelli, i suoi racconti avvincenti, l'effetto dell'erba in testa, il panorama incredibile di minareti e grattacieli, la strana quiete della megalopoli addormentata e la brezza intrisa di iodio sul viso mi davano l'impressione di essere nel vivo di un sogno. Se davvero stavo immaginando tutto, era proprio roba buona quella che mi avevano venduto, perché era da tantissimi mesi che non mi sentivo bene in maniera così ultraterrena.
Arrivati sulla sponda asiatica, su cui si stagliava la Torre di Leandro come la dama bianca che sbuca fuori dal lago, si scaricò la batteria del trabiccolo e ci costrinse ad abbandonarlo sul lungomare.
Rinsavii dalla dimensione onirica per informarmi: – Ma dov'è che mi stai portando?
Eravamo già lontanissimi da dove eravamo partiti.
Lei alzò un braccio per indicare l'enorme moschea che incombeva su di noi da sopra alla collina di Çamlica, dove non ero ancora mai stato.
Mi afferrò la mano e mi guidò con fermezza, su per le stradine storiche di Üsküdar, mentre l'orlo del cielo cominciava a schiarirsi in lontananza. Quando infine conquistammo la cima, la luce soffusa e le piatte nuvole basse stavano tingendo di rosa, indaco e arancione i contorni della costa europea della città.
Sporto dalla balconata, ammutolito e travolto dall'aurora e dell'atmosfera surreale, il mio avvolgente attimo di stupore fu interrotto da Gulê che sogghignava impertinente, nel ritrarmi in foto col cellulare.
– Uè, ma che fai? – protestai, stordito dall'inarrestabile iniziativa che quella ragazza riusciva a ritaglirarsi con adorabile sfacciataggine, in qualsiasi occasione.
– Sei molto bello! Con questa luce ancora di più! – civettò.
Tra il panorama e lei era arduo scegliere cosa fosse più ipnotico. I suoi occhi caldi mi avevano stregato a tal punto, già dal momento in cui si era tolta la bandana dalla faccia quel pomeriggio, che mi sentivo un burattino nelle sue mani pronto a esaudire ogni suo desiderio.
Forse, letto ciò nella mente con chissà quale superpotere, lei si fece seria e mi venne pericolosamente vicino, fino a sfiorare la punta del mio naso col suo.
– Cosa pensa un uomo italiano se una ragazza appena conosciuta gli viene così vicino? – sussurrò provocatoria.
– Pensa di essere un uomo molto fortunato – risposi di getto, reggendo il suo sguardo indagatore.
Ci baciammo.
Fu una perfetta comunione di intenti e movimenti, iniziativa simultanea di entrambi nello stesso identico istante.
Allora scoprii quanto fossero morbide delle labbra carnose naturali, non riempite dai filler a palloncino come quelle di Erica. Avevano il sapore del sale del Bosforo e l'acre del tè nero.
Spalmò il suo corpo sottile sul mio e sentii la sua insospettabile forza fluirmi in tutto il corpo; si impossessò con rapida naturalezza del controllo dei miei movimenti e delle mie decisioni.
Mi abbandonai a quello stato di semi-sottomissione, per lasciare che fosse lei a determinare ogni azione che i nostri corpi avrebbero compiuto all'unisono. Non mi era mai capitato, né mi sarebbe mai più capitato nella vita, di fare l'amore con una donna in quel modo.
Nascosti nella casetta di legno in cima allo scivolo del parco della terrazza panoramica, impiegammo così le prime ore di quel sereno mattino di marzo; una catarsi volta a sciogliere tutte le paranoie, ingiustizie e speranze uno dentro l'altra.
Non provai neanche per un secondo a prendere in mano la situazione, non solo perché non mi lasciò spazio per intromettermi, ma perché avrei rischiato di rovinare quella che sembrava quasi una danza. Dimostrò una dedizione verso il mio corpo e il mio piacere che mai mi sarei aspettato da una persona che mi conoscesse appena. Sembrava aver registrato i dettagli di ogni centimetro della mia carne e sapeva soddisfarne tutti i desideri e i capricci.
Nella trance provocata dai veloci movimenti del suo bacino, inseguiti dalle mie mani sulla sua lunga schiena inarcata, mi annebbiò la sensazione di essere, in contemporanea, spettatore e protagonista di una notte che non si sarebbe mai più ripetuta.
Era un'amazzone dal cui incantesimo non avrei mai voluto liberarmi.
Fummo costretti a fermarci, controvoglia, solo quando le note lievi dei nostri gemiti furono sovrastate dal ronzio delle prime macchine che salivano e scendevano il pendio della collina. La città si era risvegliata, e mi attanagliò l'amara consapevolezza che ciò comportasse l'avvicinarsi della fine di quel sogno a occhi aperti.
Avevo ancora lo sguardo appannato quando la vidi rinfilarsi il jeans e stendersi di fianco a me. L'appocundria mi invase l'anima all'istante; una nostalgia già pervasiva e potente ancor prima che lo stesso evento scatenante volgesse al termine.
– Perché lo fai? Perché non vuoi venire in Italia con noi? – irruppi nel silenzio del playground deserto, implorante.
Lei si accigliò con severità. Piegò il busto su di me per accarezzarmi la guancia con condiscendenza.
– Voi piuttosto, perché non lo fate? – rimbeccò indispettita dall'ennesima paternale, stavolta per bocca di un totale sconosciuto – Perché, da napoletano, non ti ribelli alla camorra? A uno Stato che non si interessa del benessere della tua città? Ai razzisti del nord che vi disprezzano e vi usano? A tutti i soldi che vanno a finire nelle tasche di commissari e politici invece che in quelle della vostra povera gente?
Ugh, colpo basso.
Non si può controbattere ad accuse come quelle senza la consapevolezza di essere già in torto.
Riuscii solo a bisbigliare: – Ma potresti morire – con la voce strozzata in gola al pensiero di quanto ci fosse davvero vicina. Fissai per un secondo il grosso livido che aveva sulla mascella, ma distolsi subito lo sguardo per non sembrare indiscreto.
Lei esplose in una fragorosa risata, quasi avessi detto qualcosa di divertente: – Se le cose belle e giuste si potessero ottenere senza sacrificio, non saremmo finiti a vivere così in questo mondo di merda!
Poi si fece molto seria e aggiunse: – Ci sono cose ben peggiori della morte.
Mi fece quasi del male fisico il sentir parlare una ragazza così bella, giovane e intelligente in quella maniera. E mi procurò ancora più dolore la consapevolezza che avesse ragione.
Mi baciò di nuovo, con tanta lentezza e passione che mi venne duro di nuovo, nonostante la discussione pesante. Chiaramente se ne accorse, e prese ad accarezzare la curva sul cavallo del pantalone mentre, occhi negli occhi, mi provocava piccole scariche elettriche lungo le gambe e il collo.
– Tu hai due strade davanti a te, adesso – sibilò tirando giù piano la cerniera – Puoi conformarti a quello che fanno tutti: convincerti che nulla possa cambiare e che non valga la pena provare a farlo. Oppure puoi scegliere di vedere che un'alternativa c'è, e aiutare me a cambiare le cose.
A quel punto, spronato dal movimento della sua mano, scandito da quelle parole dolci e decise bisbigliate piano al mio orecchio, stavo già per venire di nuovo. E non potei fare a meno di chiedermi se avesse fatto sesso con me solo perché sapeva che avrei certamente ceduto e consegnato tutto quello che voleva, o se anche lei avesse provato quella connessione sovrannaturale che avvertivo io ogni volta che incrociavo l'iridescenza delle sue iridi.
Quel magnetismo a cui non avevo saputo resistere era stato solo funzionale a conquistarsi la mia complicità al suo piano?
O ero stato io quello ad approfittare della sua situazione di bisogno, per ricevere da lei il dono di quell'alba di fuoco?
Ci eravamo amati o sfruttati a vicenda?
Non volevo che il ricordo di quel nostro tempo speso insieme fosse sporcato da un dubbio di quella portata.
– Lo sai che, molto probabilmente, ti avrei consegnato quel telefono in ogni caso, anche se non mi avessi fatto credere di voler passare questa notte con me? – confessai.
Lei si accigliò e lasciò trapelare un velo di offesa e risentimento sul suo bel viso. Ma il suo sguardo tornò ad addolcirsi subito dopo, appena lesse la paura della sua risposta in fondo al mio.
– Io non ti ho fatto credere niente che non fosse vero. Non sono una che si prostituisce per ottenere le cose – ribatté, comunque un po' piccata – Ti ho notato perché sei il mio tipo e ho pensato che, dopo tanto tempo, volevo concedermi una serata spensierata con qualcuno che non mi avrebbe giudicata per questo.
Si fermò a pensarci un attimo: – Mi sono sbagliata? Sei uno di quelli che giudica male una ragazza se vuole passare una notte leggera con qualcuno che le piace? – indagò, e fu l'unico momento in cui scorsi dell'incertezza in lei da quando l'avevo conosciuta il mattino precedente.
Mi scaldò il cuore il fatto che ammettesse con tanto candore che le piacessi.
Scossi la testa, mi scappò un sorriso: – Non avrebbe senso farlo. L'amore si fa in due.
***
Andammo a fare colazione come se non sapessimo cosa ci aspettasse da lì a poco. Quella spensieratezza fu breve ma intensa, scherzammo e ridemmo di gusto alla stregua di due amici che si conoscono da tutta la vita.
Mi prese in giro sulla fissazione degli italiani per la colazione dolce, dato che tutto il resto del mondo la fa salata, e io difesi pane e Nutella come se da quell'accoppiata dipendessero le sorti della civiltà umana in declino.
Scoprii finalmente il lato più spiritoso e leggero del suo carattere e questo mi fece sentire un prescelto perché, immaginai, mostrarsi con quella vulnerabile trasparenza era un lusso che lei stessa si concedeva di rado.
Quando tornammo al mio dormitorio il sole era già alto nel cielo, l'afa e la rumorosa routine avevano riavvolto Istanbul strappandola alla placida e inedita atmosfera di cui si era avvolta durante la notte, e io mi sentivo più disperato a ogni passo verso la mia camera.
Sapevo, lo sapevo, ogni mio neurone me lo ripeteva da ore, che quella ragazza meravigliosa stava per scivolare via dalle mie dita e dalla mia vita senza che io potessi farci niente.
Non era la prima volta che provavo quella sensazione, e temetti che non fosse l'ultima. Anzi, ebbi il concreto terrore che stesse diventando parte dell'inevitabile destino delle mie relazioni amorose.
Col cuore pesantissimo, aprii la porta della mia stanza e invitai Gulê dentro. Avevo lezione da lì a poco e lei aveva altri affari da sbrigare, quindi la situazione precipitò in un frettoloso addio che non avrei mai voluto arrivasse.
Quando le consegnai il telefono lei lo aprì e tirò fuori la SIM card; poi strizzò l'occhio con complicità nel restituirmi il cellulare: – Così la facciamo fessa e contenta, che dici?
Si riferiva al fatto che Zerya non avrebbe mai avuto il coraggio di accendere quell'aggeggio, ne aveva troppa paura, quindi non si sarebbe mai accorta del fatto che la scheda non vi fosse più inserita.
Mi sembrò un ottimo compromesso per non inimicarmi per sempre la mia compagna di viaggio e, al tempo stesso, accontentare Gulê in qualsiasi cosa avesse intenzione di farci con quella roba.
Non ebbi il coraggio di farle domande sul suo piano, immaginavo che non me l'avrebbe mai rivelato, ma avevo l'assoluta certezza che dovesse essere davvero importante.
E io non volevo certo essere lo stronzo che si mette in mezzo ai piani di una ragazza che ce la sta mettendo veramente tutta, una vita vissuta nel modo più altruistico che riuscissi a immaginare.
Nell'istante in cui si mosse verso la porta per sparire dalla mia esistenza, mi parve già di vedere un fantasma.
Tremavo, ma la raggiunsi e le presi ancora la mano.
Tentai di buttare indietro le lacrime che spingevano già da un po' per fuggire dalla prigione dei miei occhi ancora annebbiati. Lei, nel voltarsi, tradì la maschera di impassibilità che aveva indossato quasi incessantemente da quando l'avevo incontrata.
Anche i suoi begli occhi scuri erano lucidi.
La strinsi forte e mi fiondai sulle sue labbra succose, nell'unico attimo in cui sentii di voler sfogare il mio spirito di iniziativa con lei. Ci abbracciammo per lunghissimi minuti, non so quanti, come se potessimo intersecare le nostre membra le une con le altre; almeno finché lei non mi spinse via con delicatezza e si scusò.
– Magari ci rincontreremo in un'altra vita? – buttò lì con finto disinteresse, come se fosse una previsione a cui si potrebbe mai dare un seguito.
– Io non ci credo a queste cazzate – sbottai, forse troppo lapidario, rompendo la magia di quel mistico augurio.
– Non ne varrebbe la pena se, nella prossima vita, tu non fossi più la ragazza pazzesca che sei adesso. Gulê... – intrecciai le mie dita alle sue e la baciai ancora, bagnandole le guance con le lacrime che, infine, avevano trovato il modo di sfuggire prepotenti al mio controllo – Ti conosco appena, ma mi mancherai da morire.
Lei si stirò sulle punte dei piedi, le mani premute sulle mie spalle per arrivare a baciarmi la fronte. Un bacio che mi ricordò quello che Carmine aveva dato a Teresa prima di dirle addio a Roma.
– Buona vita, Filippo – sospirò prima di sparire come un'ombra oltre la porta della mia stanza, che si richiuse in fretta alle spalle.
Inutile tentare di spiegare il vuoto che mi aveva lasciato dentro, nonostante non fosse stata che una brevissima apparizione imprevista nella mia esistenza.
Quello che imparai da lei quella notte andava ben al di là della sua stessa persona, del sesso, di Istanbul, del mondo e della società. Mi aveva insegnato qualcosa di nuovo su me stesso che neanche io credevo di dover sapere. Una fulminea e surreale esperienza che mi aveva aggiornato alla versione Filippo 2.0.
Io e Zerya non la incontrammo mai più, né durante il resto del periodo Erasmus né dopo. Ancora oggi mi scopro a scorrere spesso tra le notizie dal Medio Oriente sulle pagine dei quotidiani online, per sincerarmi di non vedere mai il suo nome affiancato a chissà quale tragedia.
Sull'aereo di ritorno a Napoli avvertii una forte impellenza di chiedere a Zerya dove pensava che potesse essere finita sua cugina. Di provare a tracciare delle ipotesi sul suo futuro, a partire da quel poco che sapevamo sul suo presente.
– Ad Ankara, credo, o forse in Rojava – rifletté lei con una sfocatura di sgomento e rassegnazione nel tono di voce.
Ma poi sorrise tiepidamente: – È strano perché, anche se noi curdi siamo un popolo di montanari, io non potrei mai vivere lontano dal mare. Penso che, quando si nasce in un posto di mare, poi si cerca il mare ovunque. È impossibile trovare la pace mentale senza sapere di averlo vicino.
Io non ci avevo mai pensato ma annuii, convinto dalla sua disamina. Anch'io non riuscivo a immaginarmi di poter vivere da nessuna parte dove non ci fosse il mare a portata di passo.
– Sai, il mio nome vuol dire "mare" in curdo – sottolineò con occhi vispi e orgogliosi.
– E cosa vuol dire il nome di Gulê? – investigai, in un ultimo tentativo disperato di imparare ancora qualcosa in più su di lei.
– Vuol dire "rosa", il fiore.
... Ma certo, era ovvio.
E allora addio, indomita e sfortunata Gulê, mia fugace Marinella.
Come tutte le più belle cose, vivesti con me solo un giorno, come le rose.
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