Track XV - Partenope


Tutto andò esattamente come ci aspettavamo che andasse.

Si parlò di quel live per settimane, nel bene o nel male (mal di pancia del tutto comprensibili) e, forse, contribuì al fatto che il video di Tu t'e scurdat'e me raggiunse il primo milione di visualizzazioni su YouTube appena un mese dopo la pubblicazione.

Sebbene tutto il team avesse creduto molto in me fin dall'inizio, nessuno di loro poteva prospettarsi neanche alla lontana la possibilità che LIBERATO riuscisse a raccogliere attorno a sé un tale seguito devoto e appassionato, in tempi record, pur essendo un personaggio nato dal nulla, anonimo, che per giunta si esprimeva solo in dialetto.

La loro più rosea speranza era stata, da principio, di farmi diventare un personaggio noto in quel di Napoli, come era abbastanza naturale che fosse. Invece, i fan e i media che mi rincorrevano di più sembravano essere proprio quelli provenienti dal resto d'Italia, a volte persino stranieri.

Preso com'ero da tutta quella situazione allucinante, scagai il mio diciannovesimo compleanno peggio dell'anno prima.

Carmine la prese un po' male e mi fece degli auguri dal retrogusto piccato, al limite dell'offeso. Somatizzava molto il fatto che il passaggio all'età adulta avesse intaccato i ritmi della nostra amicizia, e lo scomodo contorno della sua rottura con Teresa non aveva certo aiutato le cose.

Quest'ultima venne a portarmi il regalo di compleanno fin sotto casa, pure se l'avevo scoraggiata dal farlo dopo esserci rimbeccati in chat per tutto il pomeriggio.

Andrea e il resto del team ordinarono una torta a tre piani tutta laccata di nero, e stappammo in mio onore uno champagne dal prezzo (e sapore) improponibile.

Mamma e papà mi riempirono la stanza di ulteriori materiali per la musica elettronica, che chissà se erano stati ispirati da Andrea anche stavolta.

L'unica grande assente della giornata (sempre presente, ahimè, nella mia testa) fu, naturalmente, Elena.

Mi aveva lasciato perché ero un testa di cazzo, non perché non mi amasse, o almeno così mi era parso di intendere. Speravo quindi, in cuor mio, di ricevere almeno un classico e asettico messaggio di auguri. Anche solo una parola.

Ma non successe.

Per il suo compleanno, un mese dopo, io invece non riuscii proprio a frenare le mani dal morboso tentativo di approcciarla di nuovo in chat. Per non sembrare troppo inopportuno, le scrissi solo: "Ciao Lenù, tanti auguri".

Non rispose neanche per sbaglio.

Da inguaribile coglione, io non riuscivo proprio a smettere di sognarla spessissimo, quasi ogni notte. Mi svegliavo madido di sudore freddo e ansimante, col petto stretto in una morsa dolorosa e la vivida sensazione di essere un Orfeo condannato a rivivere per l'eternità la perdita della sua Euridice.

Per esorcizzare quel macabro pensiero, durante una di quelle notti insonni mi misi a comporre fino all'alba Partenope, un pezzo in cui immaginavo di aver perso Elena perché era una vera sirena e non per la serie irreparabile di errori che avevo impilato uno dietro l'altro, come un miserabile imbecille. Ma, subito dopo averla completata, chiusi la bozza in un cassetto e mi costrinsi a non rileggere più quello spartito per anni.

Mi concessi del tempo per dare alcuni esami durante la sessione estiva dato che, ormai, avevamo tanti pezzi in backlog e due erano già bastati per creare un fenomeno di massa ben oltre le aspettative di noi tutti. Andrea e Natalia erano convinti che la scelta vincente sarebbe stata centellinare le nuove uscite il più possibile, per dare il tempo ai fan di metabolizzare ogni singolo prima del rilascio di quello successivo.

A me, 'nzallanuto come stavo, di cantare non me ne teneva neanche così tanto. Quindi mi godetti quella pausa il più possibile.

C'era rimasto solo di lavorare un pochino sulla presenza social, il chiodo fisso di Natalia.

Un giorno di inizio luglio, mentre prendevo un caffè da Andrea, con tanto di brainstorming su quale sarebbe dovuta essere la prossima release, lui mi mostrò un video che avevano girato col cellulare qualche giorno prima.

Io rimasi a bocca aperta: – Fra', ma staje pazziann'?! È Giorgio Moroder! – urlai. Avevano filmato il padre eterno della musica elettronica mondiale mentre pronunciava il mio nome. Il nome di LIBERATO, anzi, non certo il mio.

Andrea annuì, divertito dalla mia reazione esagerata: – Sì, questo mo lo mettiamo come primo post sul tuo profilo Instagram – spiegò – Ho incontrato Moroder a un evento privato la settimana scorsa e non ho resistito. Dopo avergli fatto sentire un pezzo tuo, ha accettato di prestarsi al gioco – e strizzò l'occhio come a volermi dire che ce l'avevo fatta, se persino il Dio dell'elettronica mi aveva conosciuto e accettato.

Io, piuttosto, avrei voluto sprofondare.

Mi sentii imbarazzato a morte per il fatto che un mostro sacro come Moroder avesse ascoltato qualcosa di mio. Chissà cosa doveva aver pensato, magari si era prestato solo perché era una persona simpatica e alla mano.

Ma, d'altro canto, non potei trattenere la fiammella di orgoglio che si accese in fondo a qualche arteria remota del mio cuore, scaldata da tutto quello che si stava creando spontaneamente attorno alla mia musica. Note e parole di un ragazzetto di Napoli centro, fresco fresco di penitenziario. Era davvero qualcosa a cui non sarei riuscito ad aspirare nemmeno usando la mia più fervida immaginazione.

Forse, proprio a causa di quel continuo saliscendi di emozioni, presi malissimo il fatto che Nino D'Angelo scrisse su Facebook un commento a Nove Maggio che suonava maligno e critico in maniera del tutto gratuita.

– Je vulisse sape' s'aggia maje dato l'impressione di essere uno che va dicendo ca' m'aggia inventat coccos? – strillai alla vista di quel post, poco dopo la sua pubblicazione, seduto in studio di registrazione con Gennaro e Andrea.

– Sembro uno che se la crede così tanto? – m'interrogai, più isterico e risentito di quanto avrei voluto.

Gennaro fece spallucce mentre sorseggiava la sua Red Bull con occhi vuoti, molto poco colpito dalle parole del Nino nazionale: – Ma nun ce penzà, Lillù... quelli della generazione sua c'hanno sempre il culo che gli brucia per qualsiasi cosa facciano quelli più giovani. Stanno fuori dal tempo.

Andrea annuì, a conferma di pensarla come Gennaro: – E comunque, anche fosse solo per criticarti, mo il video tuo sta pure 'ncopp 'o Facebook suo. Ci ha dato ancora più visibilità.

Tutte riflessioni valide, pensai, ma ciò non m'impediva di prenderla comunque male. Era pur sempre Nino D'Angelo.

Poco dopo arrivò Francesco a distrarmi.

Mi subissò con la sua solita psicanalisi preparatoria, poiché avevano scelto (loro, purtroppo, non io, quella canzone mi ricordava ancora troppo Elena) di lanciare Gaiola Portafortuna come terzo singolo, e lui stava già progettandone il video. Mi commissionò di inciderne due versioni, in particolare una dai toni latini R&B, dato che quella originale era solo voce e pianoforte, ma non si adattava bene all'idea frizzante e multiculturale che aveva in mente.

Mi piacque il suo modo di reinterpretare quel pezzo. Senza esserne del tutto cosciente, mi stava aiutando a renderlo altro rispetto al momento della mia vita che mi aveva spinto a scriverlo, così da rendermelo digeribile nonostante soffrissi ancora come un cane per la ragazza che l'aveva ispirato.

Ma lui era preoccupato di offendermi, o chissà cos'altro, e chiese mille volte se fossi davvero d'accordo con la sua vision.

Risposi onestamente, con voce limpida e tutta la serietà di cui ero capace in quella situazione: – France', tu trasforma questa storia nella cosa il più possibile lontana da me e mi farai felice come non ti immagini neanche. Te lo giuro.

Tra esami e registrazioni, quindi, riuscii a tenere il cervello occupato per un po'. Ma non era mai abbastanza. La città cominciava a starmi stretta, gli amici stavano tutti a problemi più di me, comporre aveva iniziato quasi a farmi stare peggio, invece che essere terapeutico come prima, e lo spettro di Elena si annidava dietro ogni angolo della mia mente e delle piazze.

Dovevo trovare il modo di cambiare aria.

Fu il mio collega Stefano, come un arcangelo Gabriele inconsapevole, ad annunciarmi come.

Puntò il dito indice su un foglietto appeso alla bacheca del corridoio esterno all'aula di Acustica, mentre eravamo in fila con un altro paio di studenti con il panico in faccia.

– Fra', ma lo sai che ci sta il bando Erasmus ancora aperto? Io ho mandato la domanda già mesi fa – proclamò, soddisfatto di essere sempre sul pezzo. Ci sapeva fare con la burocrazia più che con la musica.

– E dove te ne vuoi andare? – domandai, col crescente desiderio di cogliere quella palla al balzo prima ancora di conoscerne termini e condizioni.

Lui fece spallucce e ammise che sarebbe andato ovunque avesse avuto abbastanza crediti per essere accettato.

Mentre scorrevo con lo sguardo sulla stampa del bando, il mio turno venne chiamato per entrare a sostenere l'esame. Andò meglio di quanto mi aspettassi, forse grazie alla mia passione per la materia e allo stile d'insegnamento coinvolgente del professore di cattedra. Lui sembrava anche avermi preso in simpatia e, durante e dopo le lezioni, avevamo parlato spesso di approfondimenti al programma di studio.

Finito di firmare la camicia e verbalizzare il voto, mi chiese con tono interessato: – Ho notato che stava guardando le borse di studio per gli scambi con l'estero. Pensa di partecipare?

Annuii, ma menzionai di averlo appena saputo e quindi non aver ancora le idee chiarissime; tuttavia era un'occasione che non volevo perdermi.

– Gestisco un accordo diretto con un mio caro collega dell'università Bahçeşehir, a Istanbul. Si occupa dello studio delle influenze della musica mediorientale nel mondo, e sono certo che sarebbe felicissimo di accogliere i miei studenti più meritevoli proprio da Napoli – illustrò, con la voce di chi sta per fare una proposta che spera non venga rifiutata – Avrei piacere a raccomandarla personalmente, se le interessasse fare un periodo di studio in Turchia.

Di quel Paese sapevo solo che fosse il posto da cui venivano il kebab e il narghilè. Di Istanbul, in particolare, conoscevo solo le squadre di calcio. Ma tanto bastava e avanzava per sembrarmi un posto papabile per la mia fuga da Napoli.

– Certo, professore, sono molto interessato. La ringrazio – confermai di getto, con l'esatto proposito di impedirmi di rimuginarci troppo.

Lui, soddisfatto, mi fissò subito un appuntamento nel suo ufficio un paio di giorni dopo, per preparare le carte necessarie.

Quando uscii dall'aula aggiornai Stefano sul fatto che sarei partito presto anch'io, su raccomandazione del prof di Acustica. Lui si fiondò a googlare il nome dell'università dove volevano mandarmi, che scoprimmo avere un campus centralissimo con una gigantesca terrazza di fronte al mare.

Con la testa iniziai a vedermi già lì.

Il mio collega strinse gli occhi a fessura e mise il muso lungo, indispettito – Uanm', Filì, che mazzo gigantesco che tieni tu nella vita! – mi rinfacciò, quasi con risentimento e una punta di ammirazione.

In quel momento pensai, con stupore e perplessità, che esagerasse.

Ma, col senno di poi, sarebbe impossibile negarlo.

***

Andrea non fu proprio contentissimo della notizia che avessi deciso di partire così all'improvviso, per diversi mesi. Ma, facilitato dall'essere già a buon punto per il lancio del nuovo pezzo a settembre, chiuse un occhio e mi fece i complimenti per come andavano gli studi.

Io, in cuor mio, mi ero convinto che la sua raccomandazione dovesse aver avuto un certo peso sui miei successi al Majella. Non per sminuire il fatto che, quando trovavo il tempo per studiare, lo facessi come un pazzo. Ma tant'è.

Mamma ebbe un moto d'orgoglio alla notizia che fosse stato proprio il professore a propormi uno scambio all'estero, fu felice in special modo del fatto di non dover uscire un euro per farmi viaggiare. Passò giornate intere su internet a informarsi su Istanbul che, fino a un momento prima, non avrebbe saputo dove piazzare sulla cartina geografica (risultato: c'era stato un colpo di Stato da poco, con contorno di un paio di attentati dell'ISIS, ma vabbè...). Allo scattare delle sue ovvie paranoie sbottai che sarebbe stata la stessa cosa se fossi andato in Francia e che, in ogni caso, non avrebbe potuto impedirmi di partire neanche se avesse voluto.

In quel momento il mio desiderio di scappare era molto più ardente di quello di non morire per mano di fanatici.

Priorità.

Il mio temporaneo trasferimento suscitò l'invidia nera di Carmine a dispetto dei rischi. Lui, sempre più stressato dal lavoro, avrebbe pagato oro per fare il fancazzista all'estero, come si aspettava che facessero tutti gli studenti Erasmus.

Teresa, invece, compilò una serie di complimenti immeritati nei miei confronti fino a commuoversi.

Il giorno che andai a firmare le carte dal professore stabilimmo che sarei partito il semestre successivo, a cavallo con la primavera. Nel momento in cui strinsi al petto la cartella con i documenti finalizzati, che rendevano quell'agognata fuga così concreta nel prossimo futuro, mi sentii quasi rinato. Colto da una felicità travolgente e inaspettata.

Già durante il periodo in cui ero stato chiuso a Nisida, avevo inconsciamente sviluppato un sentimento strano nei confronti di Napoli. Ricordava qualcosa di simile all'intolleranza alimentare per il proprio cibo preferito: un'irrefrenabile pulsione che spinge a volerlo mangiare sempre nonostante, ogni volta, faccia stare malissimo.

Probabile che l'amore e la dedizione per la mia terra fossero giunti a quel punto di saturazione che innesca il bisogno di guardare oltre per poter riuscire ad apprezzarla di più, con sguardo rinnovato.

Tra i miei fumosi ricordi d'infanzia c'era un vago insegnamento che suonava molto simile a quella riflessione estemporanea. Era passato per bocca di uno dei fratelli di nonna, un marinaio di mestiere a cui guardavo come a una specie di eroe perché, ai miei occhi di bambino, aver girato il mondo rendeva saggi e invincibili.

In realtà, se non lo confondo con qualcun altro, morì poco dopo, sparato per chissà quale losco affare di camorra in cui si era impicciato. Mi sa tanto che la saggezza non sia mai stata un tratto molto comune nella nostra famiglia, non la si acquisiva neanche con l'esperienza da vissuto lupo di mare.

Eppure il vagabondaggio mi affascinava, il sogno d'infanzia di diventare un avventuroso e disilluso pirata spaziale come Capitan Harlock non si era mai assopito, e speravo che quella potesse diventare la prima tappa di una lunga serie.

Col cervello già altrove e preso dal flusso di coscienza e di memoria su viaggi e viaggiatori, non mi accorsi che i piedi mi avevano portato in automatico su per via Costantinopoli, fino a Piazza Cavour.

Senza averlo potuto ammettere chiaramente neanche a me stesso, il mio inconscio sapeva bene chi fosse l'ultima persona rimasta con cui avrei voluto condividere il mio entusiasmo.

Elena.

Scansionai i giardinetti con lo sguardo, la casupola rossa del mercatino equosolidale nel mio mirino. Strinsi i pugni e il cuore iniziò a battermi in petto come se potesse sfondarmi la gabbia toracica da un istante all'altro.

Erano passati sette mesi da quando mi aveva lasciato, potevano bastare per farle capire che avevo rispettato la sua volontà di non cercarla. E poi Napoli è un mondo piccolo, ogni tanto può capitare di beccarsi per caso... no?

Deglutii rumorosamente, come se mandassi giù dei bocconi di acciaio grossi come mele. Fui scosso da una strana tosse nervosa mentre mi avvicinavo a passo svelto verso il centro della piazza, con le aiuole piene più di munnezza che di piante.

La porta della bottega era chiusa, ma la luce accesa tradiva la presenza di qualcuno all'interno. Alcune sagome, nel muoversi attorno al tavolo pieghevole sul lato destro del locale, lanciavano ombre lunghe sulle vetrate che davano sulla piazza.

Pensai che, a quell'ora, Elena doveva aver già finito il suo turno, però quel posto restava la cosa più vicina a un contatto che potessi avere con lei. Quindi mi piazzai davanti la porta di vetro, a scrutare le figure scure impegnate in quella che aveva tutta l'aria di essere un'assemblea.

Incrociai quasi subito, inavvertitamente, lo sguardo di Sasi che usciva da dietro al bancone della cassa. Mi sorrise col suo immancabile calore, un fuoco che le animò anche i begli occhi verdi, e venne subito ad aprirmi.

– Filippo, da quanto tempo! Tutto a posto? – mi accolse, gioviale e cortese come sempre. Infatti si curò di non nominare Elena, perché sicuramente aveva saputo che non stavamo più insieme.

Ci scambiammo una serie di formalità per gentilezza prima di notare che le persone sedute attorno al tavolo si stavano alzando, e una di loro si mosse per venirmi incontro.

– Ciao, Filippo, come stai? – una voce ferma ma amorevole mi investì con la forza di un treno.

Era Letizia, la zia di Elena.

Mi bloccai per un attimo, scosso dal tempismo di quell'incontro inaspettato, confuso su come sarebbe stato meglio rispondere e reagire. Di certo, pensai, agli occhi sia di zia Letizia che di Sasi dovevo essere passato per un bruto violento e infantile, anche se non potevo sapere cosa e come Elena avesse raccontato loro della nostra rottura.

Nel tempo che il mio cervello impiegò per calcolare il da farsi, Sasi annunciò che la riunione del Comitato Pace e Disarmo era finita e andò a chiudere un laptop che era poggiato sul tavolo.

Al vedermi così tentennante e nel pallone, Letizia mi sorrise e picchiettò una mano sulla mia spalla con fare materno.

– Vieni con me, pigliamoci nu cafè.

Ci accolsero i tavolini di un bar all'inizio della Sanità, sotto alle luminarie della canzone di Pino Daniele. I baristi sembravano conoscere la donna così bene che le portarono subito un caffè macchiato in tazza fredda, senza neanche aspettare che lei lo ordinasse.

Io presi un filtrato lungo e lei scoppiò a ridere di gusto, si chiese che razza di napoletano fossi. Il vizio della gente di mettere in dubbio la mia napoletanità stava sfuggendo di mano. Era stato insinuato anche nei riguardi di LIBERATO da un paio di altre celebrità partenopee, e quella diceria iniziava a pesarmi parecchio.

Tuttavia mantenni la calma e sorrisi nervosamente alla sua battuta; mi giustificai col fatto che sarei presto partito per l'estero e volevo abituarmi ad altri tipi di caffè.

Lei non mancò di cogliere l'appiglio per tempestarmi di domande su cosa stavo combinando, dove me ne sarei andato e, quando le nominai Istanbul, si illuminò: – È lì che mi hanno resa la donna che sono! Senza dubbio il posto più bello del mondo, non ho che bei ricordi di quella città – poiché, mi spiegò radiosa in volto, per quanto fosse un bellissimo Paese pieno di storia, gli interventi chirurgici sono una delle principali attrazioni turistiche della Turchia moderna.

Mi feci dare dei consigli su cosa visitare, anche se disse di esserci stata troppi anni addietro per poter essere affidabile con la memoria, ma tanto il mio era stato più un disperato tentativo di sviare la discussione dal motivo per cui sua nipote mi aveva brutalmente ghostato, piuttosto che una genuina curiosità.

Alla fine, dopo tante chiacchiere su indimenticabili viaggi e mirabolanti chirurgie, fu sempre lei a virare lì la conversazione: – Sono contenta di vedere che non ti sei lasciato abbattere dalle delusioni e stai andando avanti per la tua strada a testa alta – confidò con convinzione, come se parlasse a un vero nipote.

– Non posso dare giudizi sulla scelta di Lenuccia, ma so per certo che è stata sofferta e ha avuto le sue buone ragioni... – non ebbe la delicatezza di sorvolare su quali fossero (già, incluse le mie regolari dimenticanze del preservativo e gli improvvisi pestaggi da strada) – Eppure credo fermamente che tu sia un bravo ragazzo e ti auguro il meglio nella vita.

Abbassai lo sguardo per concentrarmi su un punto vuoto del tavolino di plastica, in precario equilibrio sul bordo del marciapiede, nel tentativo di capire se fosse saggio rispondere che io credevo ancora che il meglio per me fosse, senza dubbio, sua nipote, o lasciar perdere le precisazioni testarde.

Ma lei sembrò leggermi quel pensiero dalla testa come se avessi un cranio trasparente e connessioni neurali fatte di lettere, senza neanche dover incrociare i miei occhi lucidi: – Tu ed Elena eravate una bellissima coppia e vi completavate molto a vicenda. Ma siete anche molto giovani e, forse, non era ancora tempo per voi di vivere un amore così grande – giudicò, dall'alto dei suoi sessant'anni suonati – Una cosa che devi sapere è che non ti ha lasciato perché non ti ama più, ma perché crede davvero che fosse meglio così per entrambi. È una ragazza molto saggia, sa quello che fa – e aggiunse di non dirlo perché si trattava di sua nipote, anzi, sottolineò che l'educazione che lei e sua sorella cercavano di impartirle seguiva stili molto diversi, e spesso Elena prendeva il sopravvento su entrambe.

– Lei tiene ancora le vostre foto appese in camera, anche se è doloroso guardarle – puntualizzò – Ha detto che sarà in grado di toglierle solo quando non sarà più innamorata di te.

Da qualche parte del mio essere si riaccese una tiepida luce.

C'era ancora speranza, allora! Tenere traccia della sorte di quelle foto significava tenere traccia anche dei suoi sentimenti per me.

– Non solo Elena, ma anche tutte noi in famiglia abbiamo apprezzato il tuo rispetto per la sua decisione. Lei ti ha chiesto di non cercarla più bell'e buono, e tu sei stato alla sua parola – mi guardò con occhi pieni di affetto e, quasi, gratitudine – Non è da tutti riuscire a farlo, è sintomo di amore vero.

Mosso da un attacco di timidezza, scrollai le spalle per minimizzare. Alla fine ebbi il coraggio di domandarle: – E Lenuccia che combina, di questi tempi? – Il 2017 era scivolato via quasi del tutto, velocissimo, dall'ultima volta che l'avevo vista.

La zia sembrò pensarci un attimo, forse nel tentativo di selezionare quali dettagli della vita della nipote fosse il caso di condividere con me e quali no, il che mi fece temere che Elena si stesse vedendo con qualcun altro. Ma poi aprì uno spiraglio: – Dopo l'estate termina il Servizio Civile. Per un periodo andrà a stare a casa di un cugino che studia a Torino, così si allenerà in un centro più grosso e vedrà anche se le piace l'università lì.

Sorrisi e mi morsi un labbro, senza riuscire a controllare il mio piacere nell'apprendere dei suoi minuziosi progetti, ammirato per come sapeva sempre prendere in mano la sua vita in modo così deciso e ambizioso. La amavo da impazzire per quella sua caratteristica.

Con un profondo abbraccio e due possenti baci schioccati su entrambe le mie guance, a lasciarmi lo stampo del rossetto color pesca, Letizia mi salutò prima di sparire tra le palazzine del Rione: – Buon viaggio e tanta felicità – mi augurò.

Tornai verso casa quasi in volo, più leggero a ogni passo.

Elena era ancora la solita Elena.

E mi amava ancora, come io amavo lei.

***

Sembrò destino.

Quella stessa settimana, chino sulla tastiera dello studio di registrazione a correggere certi spartiti, fui travolto dall'esuberanza di Natalia nel riportarmi la proposta di un nuovo ingaggio per LIBERATO (qualcuno non ne aveva avuto abbastanza di scherzi!). Inizio novembre al Club2Club.

Torino.

Incredibile.

– Stavolta sul serio? – domandai, abbastanza sbalordito dall'impressionante coincidenza.

Andrea rise: – Eh, questo ce lo devi dire tu. Sei tu che fai sempre questioni!

Qualcosa dentro di me iniziò a premere e spingere forte per aprirmi in due il petto e andarsene chissà dove.

Era giunta l'ora, quindi.

LIBERATO esci. Vieni finalmente fuori, mmoccachiteviv'!

– Sì, stavolta ci salgo io su quel palco – annunciai.

Andrea e Natalia si lanciarono uno sguardo trionfante, quasi avessero incassato un loro successo personale e, nel frattempo, entrarono nella stanza anche Francesco e Gennaro.

Mi voltai verso quest'ultimo, arrivato giusto in tempo per sentirmi accettare l'offerta: – Ma lui viene con me lì sopra – ordinai, entrambe le mani puntate contro la sua barbetta da hipster per legarla a me con catene immaginarie.

A delucidazione dello smarrimento generale, proseguii: – E magari anche qualcun altro, non so, una o altre due persone. Ci vestiamo tutti uguali, coperti come quello che compare nel video di Tu t'e scurdat'e me, così nessuno potrà distinguere chi di noi sia effettivamente LIBERATO.

Gennaro parve divertito, mi schiaffò un cinque al volo e si mise subito a disposizione.

Natalia annuì con gran trasporto prima di promettermi, con voce solenne: – Ok, Lillù, allora mo movvec' ij, guarda come ti faccio contento. L'Italia non vede più l'ora di vederti!



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NdA: Lo so che le luminarie coi testi di Pino Daniele non c'erano ancora nel 2017 perchè le hanno messe nel 2019, però volevo lo stesso citarle perchè è proprio lì che mi sono immaginata la scena!! Scusate l'imprecisione 🙏👀



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