Track IX - Tu me faje ascì pazz'


Quello tra settembre e dicembre 2016 fu uno dei periodi più nevrotici della mia vita, in particolare perché lavorammo tutti come pazzi senza sapere cosa, quanto e soprattutto se ne avremmo mai guadagnato nulla da tutto quel sangue buttato.

Nel frattempo avevo anche iniziato a seguire i corsi al conservatorio, dove mi vedevo regolarmente con quel santo di Stefano che si era abbracciato la croce di farmi da sapiente e indispensabile guida.

Imparare a gestire la vita universitaria da solo? Non ce l'avrei mai fatta in condizioni normali, figuriamoci con quella frenesia da pre-debutto.

Inoltre, faticavo ancora al bar in via Toledo ogni stramaledetto sabato, e perfino la domenica mattina. Persi del tutto i contatti con Yousef e Francesco, un po' per quello che era successo alla festa di Teresa e un po' perché non avevo più il tempo di onorare la nostra vecchia routine di gruppo.

Persino con Carmine l'unico momento che ebbi per capire cosa avesse in testa, dopo la scioccante rivelazione della bisessualità della sua crush, fu il giorno dopo la cena col team a casa di Andrea. Ma non volle dirmi molto, anzi, in pratica si rifiutò di parlarne. Condivise solo che il pensiero che, ormai, non valeva proprio più la pena di versare altre lacrime; e il fatto che noi tre ci vedessimo sempre meno lo stava aiutando a voltare pagina. Mi sembrò nostalgico e amareggiato, senza dubbio, ma comunque sincero. Persino cresciuto.

Andammo insieme a vedere la Champions Napoli-Besiktas al San Paolo un'umida sera di metà ottobre e, finalmente, ci divertimmo come se avessimo, almeno per una notte, cancellato dalla nostra mente i burrascosi diciotto mesi che avevamo appena passato.

Continuai a chiamarlo di tanto in tanto e a passare da lui con un po' di birra e fumo almeno un paio di sere al mese, ma il tempo che riservavo per gli amici ne toglieva altro prezioso alla mia storia con Elena, di cui non avrei mai potuto fare a meno.

Eravamo entrambi mutuamente comprensivi riguardo la divisione del nostro tempo, tra le mille altre cose da fare che non fossero le nostre effusioni amorose. Per fortuna riuscimmo a farci persino qualche uscita a quattro con Teresa e la sua nuova fidanzata, a partire da qualche aperitivo dopo il mio turno della domenica.

In quell'occasione mi resi conto di come quella ragazza dall'aspetto immacolato da bambola ottocentesca fosse perfetta per la mia migliore amica. In contrasto col detto "gli opposti si attraggono" loro erano similissime e, per questo, si capivano al volo al limite della telepatia. Una dinamica di coppia più unica che rara.

Tra me e Elena c'era una chimica simile nella forma ma profondamente diversa nella sostanza, condita da qualche screzio scemo di tanto in tanto. Come quando passava la notte a casa mia e la pregavo di non alzarsi all'ultimo minuto prima di andare a lavoro, che finiva con lo svegliare anche me quando avrei potuto continuare a dormire, e poi occupava per ore il bagno solo per lavarsi i capelli. Ma erano fesserie che scandivano la nostra quotidianità in maniera rassicurante e tenera, e riuscivano nell'arduo compito di appaciarmi col mondo anche in un periodo di sommo stress come quello.

Era una relazione matura e sana, come non ne avevo mai avuta una prima.

Il 31 ottobre Teresa e Angelica ci trascinarono alla festa di Halloween organizzata da Mezzocannone Occupato a cui, per l'ennesima volta, invitammo anche Carmine. Ma non volle venire.

Quella sera, nel buio interrotto dalle luci stroboscopiche e sulle note di Te vengo a cercà dei La Maschera, spostai una ciocca della parrucca nera da Morticia Addams che stava indossando per sussurrare all'orecchio di Elena che l'amavo.

Così, di getto, perché mi sentii improvvisamente di volerlo fare senza averci ragionato sopra neanche per un secondo. Non mi sembrò nemmeno qualcosa su cui avrei dovuto riflettere, anzi, mi venne così naturale ammettere di amarla che quasi mi dispiacque non averglielo già detto tempo prima.

Lei, invece, anche se lì per lì rispose alla mia dichiarazione con un bacio appassionato dei suoi soliti, si prese l'intera serata per pensarci. Solo quando avvolti nell'intimità delle nostre coperte sudate, illuminati di stramacchio dai fiochi raggi di un'alba nuvolosa e dopo aver fatto l'amore per più di un'ora filata, mi sussurrò: – Anch'io.

Sul momento ne fui così felice da non farci caso, ma nei giorni successivi tornai a pensarci in modo tanto ossessivo da non riuscire a figurarmi se ciò mi rendesse più un cretino o un veggente, che sapeva di avere di che preoccuparsi pur senza ancora aver chiaro per cosa. Al contempo le volli garantire mille attenuanti e giustificazioni: del resto non è che tutti possano avere gli stessi tempi nelle relazioni; e poi c'è sempre chi esterna di più e chi di meno, chi ci mette più tempo a capire i propri stessi sentimenti e chi, addirittura, non li capisce proprio mai.

Erano pensieri pesanti che si avvicendavano con insistenza e costanza nel backlog della mia testa, nonostante la vrancata di altri impegni giornalieri che pure mi richiedevano sforzi mentali considerevoli.

Come la preparazione del debutto.

Tutto quel tempo passato a lavorare culo e camicia, un giorno sì e l'altro pure, finì con il legarmi tantissimo a Gennaro. Era un tipo molto alla mano e con la battuta sempre pronta, un vero nerd in tutti i sensi, con cui mi trovai ad avere un sacco di cose in comune. Sognavo, in realtà, di poter avere in comune coi suoi trascorsi anche gli innumerevoli viaggi e i posti in cui aveva vissuto, e lui ci scherzava su assicurandomi che, quando si sarebbe apparato questo progetto under construction, "vedrai che te ne potrai andare pure sulla luna".

Anche Gennaro dimostrava di credere molto in me, ma di lui riuscivo a fidarmi un pelo di più che di Andrea perché non mi dava l'impressione di avere il bias da "padre", quanto più una diretta e sincera affinità con il mio modo di pensare e di fare musica. In capa a me LIBERATO non sarei mai stato solo io, né lo eravamo tutti insieme come team: era piuttosto il risultato del connubio della mia testa pazza unita alla sua, se non altro artisticamente.

Con Natalia, invece, costruii l'aspetto più comunicativo e mediatico di LIBERATO, al fine di renderlo "vivo" in virtuale e lasciare sue tracce in giro per il web. Così aprimmo i "suoi" canali social e, poiché lei non voleva che fosse tutto studiato a tavolino, "altrimenti si nota", mi diede il compito di condividere e scrivere quello che volevo secondo il mio gusto personale. Anonimo o no, avevo il dovere di permettere al pubblico di ricavare almeno un minimo di panorama su chi fossi come personalità, anche se non come persona. Il fatto di poter, per vie sommarie, intuire a quale generazione appartenessi, per che squadra tifassi (per quanto ovvio), il mio stile di vita e i miei riferimenti culturali, avrebbero fatto apparire LIBERATO vero indipendentemente da quali fossero i suoi connotati facciali.

Seguivo ogni minima direttiva e indicazione di Natalia con la più totale meccanicità, costringendomi a pensare il meno possibile a cosa stessimo davvero facendo e perché. Avevo l'impressione che fosse già tutto troppo più grande di me per riuscire a gestirlo, e ancora non avevamo neanche cominciato sul serio ad avere a che fare con il resto del mondo.

Quando venne il momento di stabilire il tone of voice di LIBERATO ero così stressato e alienato che fu Gennaro a farmi la grazia di prendere le redini della discussione. Propose che LIBERATO si esprimesse solo in dialetto, sempre, e da vero cafoncello ultrà: in capslock. L'idea suonò così divertente da riuscire perfino nella mission impossible di sciogliermi un po', poiché venne accettata all'unanimità. Sebbene fosse un dettaglio che poteva sembrare superfluo, costituiva la nostra ciliegina sulla torta. Il primo mattoncino dell'invadente e impudente muro che sarebbe diventato LIBERATO per me.

In fondo era tutto volto ad aiutarmi a creare un personaggio che potesse colmare l'enorme lacuna di autostima che avevo.

Mai si sarebbero potuti immaginare le conseguenze che quel processo di modeling e riempimento avrebbe avuto sulla mia psiche. Erano in buona fede.

Giunse dicembre, e lo accolsi con lo stesso gaudio di chi ha una mannaia pendente sul proprio cranio. Gli unici sprazzi di gioia derivavano dal costante flow di foto e video da sirenetta che Elena mi inviava dalle sue settimane in trasferta presso non ricordo quale parte nel nord Italia, poco prima delle vacanze di Natale. Nel frattempo, completata ormai la registrazione in studio di Nove Maggio, io ero impegnato nelle prime sessioni di lavoro con Francesco per capire come farla diventare un video coerente con il nostro progetto.

I pomeriggi passati con lui sembravano delle vere e proprie sedute dallo strizzacervelli. Aveva la capacità spaventosa di scavare dentro alla mia testa con precisione chirurgica, per estrarre da quali pensieri e quali posti avevo tirato fuori certe parole, certi suoni, certi pensieri, certe emozioni che poi avevo cristallizzato dentro al pezzo.

Per mezzo di tutta quella psicanalisi, ad un certo punto di una delle nostre discussioni fiume gli chiesi d'impulso: – Pensi che sarebbe possibile girare il video a Fuorigrotta?

– Perché? – domandò lui, col suo distintivo tono da investigatore freudiano.

– Questo pezzo è nato da un brutto incontro che ho fatto in quella zona lo stesso giorno che gli dà il titolo – ci riflettei su ancora un attimo, un ulteriore scavo nel mio subconscio per trovare altre pertinenze – E poi è un quartiere in cui andavo spessissimo da bambino, insieme al mio migliore amico.

Lui ragionò per un po' su quanto aveva appena appreso, con la chiara intenzione di accontentare la mia richiesta pur volendola coordinare con quello che si era prefigurato di fare secondo il suo grande piano.

Qualche giorno dopo mi propose una specie di remake del video che aveva fatto per Calcutta un paio di anni prima e io, che non avrei comunque saputo che pesci pigliare, approvai tutto quello che mi mise sotto al naso. Ne uscì una bozza di storyboard che era un collage di alcuni posti di Fuorigrotta e del centro storico, impreziosito dallo svergognato product placement per un negozio di via Nilo che aveva accettato di sponsorizzarci per intercessione di Andrea e, infine, una bambina che sarebbe stata l'unica interprete protagonista. In quell'occasione voleva una ragazzina perché, spiegò, si adattava meglio al mood malinconico del testo e poteva trasmettere un senso di maggior maturità. Perlomeno è quello che pensai io quando mi mostrarono lo styling scelto per acconciare l'attrice sul set, che mi sembrò una quarantenne in un corpo piccolissimo.

Mi concessi persino il lusso di andare a seguire le riprese. Pensai che, tanto, in quel momento nessuno poteva avere la più pallida idea di chi fossimo e cosa facessimo.

Si trattava anche di un folto gruppetto di persone, ognuno messo a fare qualcosa, quindi mi diedi da fare per aiutare i tecnici di scena e non parlai quasi con nessuno, se non per scambiare due parole ogni tanto con Francesco, perché avevo ancora troppa paura che mi si sgamasse la voce.

Fu un'esperienza incredibile: vederlo a lavoro nel suo microcosmo registico mi sembrò quasi, e non esagero, come vedere Michelangelo dipingere la Cappella Sistina. Era un'unica vision a prevalere, seppur composta da così tante piccole intrusioni, ripensamenti e contributi che alla fine non si capiva più dove iniziava Francesco e dove finiva il suo prodotto. La sensazione di coesione finale era pervasiva e indissolubile come i miliardi di fiocchi di ghiaccio che formano le montagne di neve.

Alla festa pre-natalizia che Andrea organizzò per raccogliere di nuovo tutto il team a casa sua, venne deciso che il pezzo sarebbe uscito il giorno di San Valentino 2017, dato che era quasi tutto pronto e non avrebbe avuto senso aspettare altri sei mesi per farlo uscire proprio a maggio. Anzi, così ci saremmo ritagliati pure l'occasione e il tempo di preparare un altro pezzo subito dopo, se le cose si fossero messe bene.

Borut aveva gentilmente condiviso i suoi contatti con giornalisti e riviste specializzate, che ci avrebbero aiutato a girare sul web e creare l'hype.

Il mio stomaco era ormai ridotto a un nodo marinaro dal nervosismo, ogni giorno più stretto.

Fin da piccolo avevo imparato a non sprecare le mie energie e aspettative a credere troppo nelle cose, perché tutto quello che mi trovavo a desiderare o a sperare andava a finire male con una certa regolarità. Quel progetto, nel complesso di ogni cosa fatta o attentata in quei primi diciott'anni, era senza dubbio ciò che maggiormente mi esponeva al rischio di prendermi il più sonoro schiaffone in faccia della mia vita.

Mi agitai a tal punto da iniziare a montarmi l'incazzatura preventiva già solo a immaginare che tutto quello che avevamo costruito, con cura e dedizione, in mesi, sarebbe potuto fallire. Ma non ce l'avevo tanto con me stesso, quanto più con chi mi stava facendo credere che fosse una cosa nel quadro delle mie possibilità, e che mi aveva menato in quella tarantella incurante di come avrei potuto gestire la totale perdita della già poca fiducia in me stesso che avevo. Mi sentii così scosso al solo pensiero di quella evenienza da non riuscire neanche a godermi il resto della serata, nonostante avessi ormai stretto molto i legami con ciascun membro del gruppo di produzione.

Ancora lontani dalla mezzanotte, il fegato mi stava già per collassare ed ebbi l'impressione che la testa potesse rotolarmi giù dal corpo, verso il molo dell'Immacolatella, da un momento all'altro.

Tra mille scuse, scappai via quasi di corsa.

Non avevo mai avuto un attacco di panico, quindi non avevo idea di cosa fossero, ma ebbi la sensazione di essere pericolosamente vicino ad averne uno.

Non potevo certo sfogarmi con loro che avevano lavorato come muli per investire in me e in quella mia testa di cazzo che si autofagocitava. Ma non potevo sfogarmi nemmeno con nessun altro sulla faccia del pianeta, per la mia stessa scelta (forse codarda?) di creare LIBERATO invece che mandare semplicemente avanti Filippo, come avrebbe fatto chiunque altro.

Non mi sentivo neanche in condizione di chiamare Elena, Carmine o Teresa senza rischiare che loro leggessero il mio stato d'animo troppo nel profondo, e non riuscissi più a mantenere il segreto. Un segreto che ancora doveva nascere eppure già mi mandava al manicomio.

A passo nervoso lungo via Marina, con la sola confortante compagnia dei miei cannoni, pregai tutti i santi e le madonne che quella situazione non mi si ritorcesse contro come tutte le altre cose successe nella vita, nel bene o nel male, fino a quel momento. Ma mi domandai anche se la mia non fosse altro che eccessiva prudenza, aggravata dall'immancabile sindrome dell'impostore.

Vidi sparare i fuochi ai Quartieri proprio in quel momento e decisi d'urgenza di andarmi a ricomprare l'erba, che non mi era bastata neanche per una settimana.

***

Due giorni dopo la festa a casa di Andrea venne l'ultimo weekend prima di Natale, quando finalmente Elena sarebbe tornata dalla trasferta. Corsi ad aspettare il suo treno a piazza Garibaldi, insieme a Teresa e Angelica.

Ci sedemmo su una delle inferriate della parte est della piazza, sul lato dei negozietti di merce tarocca, per evitare il caos della stazione e i venditori di calzini. Mentre mi rollavo una sigaretta lanciavo sguardi impazienti alle cifre sul display del cellulare, perché il Frecciarossa era già in ritardo di venti minuti.

Di fianco a me, Teresa e Angelica stavano incollate l'una all'altra come lontre, a scambiarsi baci e paroline dolci che non m'importava di origliare.

Rivolsi una breve occhiata al bar all'angolo a pochi passi da noi e, mentre meditavo se comprare delle paste per il ritorno di Elena, intravidi un tizio che faceva capolino dallo spigolo del muro e mi dava l'impressione che fosse intento a riprenderci di stramacchio con un cellulare.

O meglio, dopo un'attenta analisi mi resi conto che non era certo la mia faccia da coglione che stava inquadrando, ma le coccole di Teresa e Angelica.

Strabuzzai gli occhi e aggrottai la fronte, incredulo della mia stessa suggestione. Eppure quello stava proprio nascosto lì dietro, con la fotocamera perennemente puntata su loro due già da qualche minuto, una mano sul pacco e la faccia da maniaco depravato.

Scattai in piedi e gli corsi incontro.

– Ue', rattuso! Che faje? – cacciai un urlo selvaggio prima di strappargli il cellulare dalle mani con un presa fulminea. Fu allora che mi accorsi inequivocabilmente che, sì, erano proprio le mie amiche i malcapitati oggetti delle sue attenzioni.

Il malintezionato era un uomo basso e tarchiato sulla sessantina con la barba lunga e annodata, una giacca a vento macchiata di ogni genere di liquido puzzolente, e un largo cappello nero calcato sulla testa a coprirgli metà faccia.

Non rispose, ma si protese verso di me con le mani allungate nel tentativo di riprendere ciò che gli avevo sottratto. Io ribadii la domanda con una spinta all'indietro forse troppo violenta, perché barcollò e infine cadde di culo per terra.

Il suo silenzio mi diede ancora più sui nervi.

Con un colpo secco gli feci volare via il berretto e cominciai a prenderlo a colpi del suo stesso telefono sulla pelata. Quando si accovacciò per terra per proteggersi la testa con le braccia, calcolai l'angolatura per prendergli a calci anche la schiena.

Sentii di stare scaricando la tensione di svariati mesi di nervosismo accumulato, tutta in una volta, come una scossa elettrica. Mi parve che sparisse ogni cosa dalle mie dirette vicinanze: il mondo evaporò attorno a me, alla mia rabbia esplosa e al disgustoso psicopatico che aveva molestato delle ragazzine in pieno giorno in pubblica piazza. Non so per quanto tempo rimasi in quella dimensione onirica sospesa tra sfogo e autocompiacimento ma, all'improvviso, qualcosa afferrò da dietro la gamba con cui stavo chiavando calci a mai finire, ed ebbi un brusco ritorno alla realtà.

Era Teresa che mi si era attaccata addosso, la faccia sfigurata in una maschera di urla e pianto. Un paio di metri più in là, ancora seduta sull'inferriata, c'era Angelica che guardava verso di noi attonita, ma con gli occhi persi sull'altro lato della strada. Quando, seguito il suo sguardo, anche i miei occhi si posarono sul marciapiede alla destra della fila dei taxi di fronte alla stazione, vidi Elena in compagnia di quello che doveva essere il suo allenatore.

Entrambi fermi a fissarmi.

Uno ad uno anche il resto dei passanti che si erano radunati intorno alla scena ricomparvero come per magia nel mio campo visivo, un brusco ritorno alla dimensione terrestre da cui mi ero estraniato per non so quanto a lungo.

Incrociai le pozze azzurre e vacue di Elena, contrita, per un istante che sembrò interminabile, finché non venni strattonato con violenza all'indietro e constatai l'arrivo delle guardie.

– Che succede qui? – esordì uno dei due sbirri che erano accorsi.

Buttai gli occhi al cielo. Che persecuzione! Possibile mai che, in questa maledetta città, tutte le pattuglie esistenti fossero sempre nei miei stessi paraggi?

Presi subito la parola per evitare che lo facesse qualcun altro. Avevo ancora il cellulare del maniaco in mano: – Questo signore stava fotografando le mie amiche di nascosto – indicai Teresa e Angelica – Ho solo cercato di farlo smettere e cancellargli le foto dal cellulare.

Il vecchio versava in condizioni che, forse, parlavano da sole con molta più chiarezza della mia spiegazione approssimativa dell'accaduto. Una sgommata di sangue gli aveva aperto la guancia destra e, curvo su sé stesso, mostrava un po' della schiena livida lasciata scoperta dal giacchetto accartocciato. Alcuni passanti lo tirarono su per farlo sedere sullo scalino dell'ingresso di un negozio. Qualcuno gli portò dell'acqua.

Lo sbirro mi prese il telefono del tizio dalle mani e guardò le foto rimaste salvate in galleria. Mi parve divertito da quello che vide, insieme al collega suo che pure guardava lo schermo da sopra la sua spalla. Mi lanciò un'occhiata sorniona, poi guardò il tipo accasciato per terra: – Vabbè, ho capito... – sospirò con finto affaticamento – Questo intanto lo sequestriamo noi.

Il maniaco lo guardò come se gli stessero togliendo la sua unica ragione di vita, chissà se per il cellulare o per le foto su cui segarsi. Prese a protestare con le poche forze che gli rimanevano, il che fece incazzare la guardia quasi quanto me poco prima.

– Sentite, non è colpa nostra se voi vi volevate fare le seghe 'ncopp alle minorenni. Mo tenete pure la faccia tutta pestata, che volete fare? Andiamo insieme in caserma a sporgere denuncia contro 'sto guaglioncello? – intervenne l'altro poliziotto, con tono di scherno.

Nessuno di noi corresse l'assunzione a priori che Teresa e Angelica fossero minorenni.

Il vecchio seguitò a lamentarsi, affermò che gli bastava solo riavere indietro il cellulare. Il poliziotto più basso, con il telefono incriminato ancora ben saldo in mano, sembrò non poterne più delle sue rimostranze. Lo fulminò con lo sguardo come se gli avesse insultato la madre, poi girò i tacchi e se ne andò insieme al collega senza neanche accomiatarsi.

Io, tornato pienamente in me, guardai la scena sconcertato dalla sua rapida e confusa risoluzione.

Da un lato pensai che, al contrario di altre occasioni in cui incappavo negli sbirri, stavolta non avevo avuto ripercussioni perché il tipo che avevo pestato era, con molte probabilità, un barbone. Per i poliziotti, le botte che aveva preso erano passate del tutto in secondo piano rispetto alla possibilità (da loro fortuitamente requisita) di masturbarsi sulle ragazzine lesbiche, con le stesse foto che a quel miserabile in strada erano quasi costate la spina dorsale.

D'altro canto pensai pure che, in fin dei conti, non avevo fatto niente di male e, anzi, l'avrei rifatto senza alcuna remora se si fosse ripresentata la stessa situazione. Però non mi parvero dello stesso avviso gli sguardi di Angelica, Teresa, Elena e quel cazzone del suo allenatore.

Quando la folla attorno a noi si disperse e il maniaco fu portato via da un paio di anime buone, Teresa tornò tra le braccia di Angelica ancora singhiozzante.

I due appena scesi dal treno ci raggiunsero. Elena aveva degli occhi di ghiaccio fissi nel vuoto, più gelidi che mai.

L'allenatore, un uomo sulla trentina con la barbetta scura a frat'ro cazz' e gli occhi verdi, mi squadrò dall'alto in basso e fu il primo a spezzare gli indugi: – Elena mi ha parlato molto di te. Non immaginavo che ci saremmo conosciuti così – asserì, e a me suonò tanto come una zeppata fatta di proposito per insinuare qualcosa.

Lo ignorai.

Mi chinai su Elena per baciarla, ma lei si scostò all'ultimo momento e schioccai le labbra sulla sua guancia.

La cosa mi colpì molto più di quanto potessi immaginare.

Mi sentii offeso e oltraggiato, senza motivo apparente. La testa mi ripeteva, stranamente più rassicurante di chiunque altro, che non avevo fatto niente di male.

– Senti, ce ne andiamo? Siamo venuti a prenderti per portarti a fare aperitivo – tagliai corto rivolto solo a Elena, nello strenuo tentativo di incrociare i suoi occhi. Ma lei tenne il viso girato verso la piazza, il contatto visivo lasciato a vagare sulle finestre degli hotel dell'altro lato della strada.

Ebbi l'impressione che tentennasse.

Infine rispose seccamente, con la voce interrotta da un breve colpo di tosse: – Scusa, sono stanca per il viaggio. Ci possiamo sentire domani?

Presero a fischiarmi le orecchie dalla delusione.

L'ultima immagine che registrai fu il braccio di quella grande chiavica del suo allenatore che le andava a cingere le spalle, scivolatole addosso come un viscido serpente, mentre si allontanavano entrambi verso la metropolitana senza neanche salutare.

E i miei blackout erano tornati.

***

Lavorai al bar come un martire per tutto il fine settimana, senza che né Teresa né Elena si facessero sentire.

Io, mosso da un furioso moto di orgoglio, decisi di non contattarle a mia volta perché sarebbe sembrata un'ammissione di colpa. Ero davvero convinto di non aver fatto niente di male.

Per fortuna quella domenica al locale ci stavano anche Clemente, sua sorella e l'amico di lei, Stefano, il mio collega al conservatorio. Riuscii a staccare un po' la testa dai brutti pensieri grazie a tutte le loro chiacchiere sulla recente seduta di laurea di Annachiara, il viaggio in Giappone che stava progettando per festeggiare, gli interminabili racconti dei sudatissimi esami di Stefano e la sequela di "fidanzate" settimanali di Clemente.

Finito il turno, loro andarono via per cenare coi parenti e io mi stesi a fumare lungo lungo sull'aiuola di fronte alla funicolare centrale. Mandai un messaggio a Carmine per chiedergli dov'era, e lui mi raggiunse pochi minuti dopo col motorino e con un po' d'erba per entrambi.

Negli ultimi tempi mi era sembrato sempre più quieto ogni volta che lo rivedevo, non saprei dire se perché lo beccavo sempre abboffato di indica oppure se fosse merito del lavoro che stava facendo su sé stesso. Mi confidò degli sforzi immani per diventare capace di non buttare nel cesso l'amicizia di una vita con Teresa.

Anche lui aveva perso i rapporti con Francesco, ma non con Yousef, con cui mi rivelò di aver preso un'altra abitudine più o meno settimanale come quella del calcetto: – Ci stavo andando giusto mo, vuoi venire? – mi invitò, mentre sfilava le chiavi della vespa dalla tasca del bomber.

Annuii.

Ci imbucammo per i vicoli del Rione Cavalleggeri vicino a dove fanno il mercato, fino a raggiungere una specie di cortile circondato da alte pareti decorate da murales, al centro delle quali troneggiava un grosso garage blu a doppia anta.

Non dava affatto l'impressione di essere un posto losco, anzi, dentro c'era musica a volume così alto che si sentiva per tutta la strada, e nu cuofano di gente era raccolta a fumare fuori all'ingresso.

Yousef stava già lì davanti e, appena fui sceso dal motorino, mi strinse in un forte abbraccio accompagnato da boati su quanto fosse contento di rivedermi dopo tutto quel tempo.

Ci passò il culo dello spinello che stava fumando, poi annunciò che una partita stava per iniziare e chiese se volessi giocare anch'io.

– E vir' tu!– confermai.

Era da un po' che non giocavo a poker ma, diversi anni prima, a tutto il gruppetto nostro era venuta la capata storta di imparare perché influenzati da quel famoso show notturno su Italia1. Allora passammo molto tempo ad allenarci tra di noi.

Complice il fatto di essere stato forse troppo arrugginito, il fumo non di primissima qualità, e l'alcol proveniente dai peggiori bar di Caracas, mi bruciai tutti i soldi che avevo addosso prima che il torneo entrasse veramente nel vivo.

Ciononostante pariammo a schifo, come non facevamo da mesi, forse anni. E almeno lì, nel tempo sospeso tra una partita, uno spinello e un cicchetto, il mio cervello riuscì a prendersi una pausa dai cattivi pensieri su Elena, Teresa, Andrea, LIBERATO e tutte le fottute tarantelle della mia miserabile vita.

Non mi accorsi nemmeno che il cellulare aveva squillato senza sosta per tutta la notte.


___________

NDA: Perdonate il capitolo molto sofferto! Tante cose da coprire e poco tempo prima del fatidico debutto...👀 Però giuro che tutti i retroscena sulla nascita di LIBERATO sono stati sviscerati e non ci saranno altre parti così tecniche nei prossimi capitoli!

Ma finalmente Filippo ci ha mostrato una parte di sé che fin'ora aveva avuto premura di nascondere... avete cambiato opinione su di lui? Cosa ne pensate?



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