Track XXXIII - Oi Marì


Eurovision, ho detto! – ribadì la cantilena severa di Elena all'altro capo della linea telefonica – Sei un musicista e non conosci la più seguita competizione musicale del mondo?

Era una fresca mattina di inizio aprile. Stavo finendo di lavorare in sala registrazioni insieme a Gennaro quando fui bersagliato da una tempesta di messaggi della mia ragazza, seguiti da una chiamata dalla pressa piuttosto urgente. Senza neanche avere il tempo di capire cosa fosse successo, cliccai sul bottone verde che diede voce al suo urlo spaccatimpani. Per fortuna, aveva tutta l'aria di essere dettato da entusiasmo.

– Quest'anno viene organizzato a Torino, e mio cugino ha detto che ci può ospitare! – proclamò, come se sapessi di cosa stesse parlando. Ma ne avevo solo una vaghissima idea.

Allora mi spiegò, con la pazienza di una maestrina delle elementari, che assistere all'Eurovision Song Contest dal vivo nel proprio Paese natio era un'occasione rara, perché solo il vincitore dell'edizione precedente si conquista il diritto di organizzarlo l'anno successivo. In più, si trattava di una roba costosissima per cui la gente si muoveva da tutto il mondo per andare a vederlo; riuscire ad accaparrarsi i biglietti per entrare alle serate live era un miraggio per la maggior parte dei fan. Infatti neppure Elena, nonostante le ore di azzeccamento su TicketOne, c'era riuscita.

– Comunque me piace tantissimo, sono anni che voglio andarci! Visto che almeno possiamo stare da Giorgio, non spenderemmo nulla in pernottamento e potremmo andare a vedere lo spettacolo insieme al resto della gente al parco del Valentino – dal suo tono traspariva la ferrea volontà di volermi convincere a tutti i costi.

Ma non aveva certo bisogno di fare tutto quello sforzo.

– Va bene, amo', andiamo dove vuoi tu – concessi, senza neanche chiedere quando sarebbe dovuto succedere.

Il mese successivo (il solito calvario di maggio, amplificato alla terza) era in programma l'uscita del mio secondo album, avrei compiuto ventiquattro anni, discusso la mia tesi di laurea e, a quanto pareva, dovevo pure accompagnare Elena a Torino.

Lei lanciò uno stridulo gridolino di gioia e, annunciando che sarebbe corsa a prenotare il treno, riagganciò senza neanche permettermi di fare altre domande.

Andare a Torino insieme ad Elena mi fece impressione. Una sensazione agrodolce che coinvolse tutti i recettori sensoriali.

Quasi cinque anni prima, nel periodo più basso della mia vita amorosa, nonostante fosse anche quello più luminoso della stella nascente di LIBERATO, era lì che mi ero ripromesso di lasciarla andare una volta per tutte.

Invece in quel rovente 11 maggio 2022, appena scesi dal treno a Porta Nuova, era proprio lei la bella ragazza che mi stava accanto e mi tirava impaziente per la mano.

LIBERATO II era uscito alla mezzanotte del giorno prima e lo schermo silenzioso del cellulare non faceva che illuminarsi a intermittenza alla ricezione di ogni messaggio della rassegna stampa (assolutamente non richiesta) di cui mi bombardavano Andrea e Natalia. Sembrava che tutti i giornalisti musicali fossero già schierati da giorni per essere i primi a pubblicare la propria analisi del mio grande ritorno e dei magnifici video barocchi di Francesco coi ballerini al palazzo reale.

Può darsi che anche quello strano accavallarsi di eventi contribuì allo scombussolamento emotivo che provai durante la mia seconda visita a Torino.

Il cugino di Elena ci attendeva in doppia fila fuori alla stazione con una vecchia 500 rossa, polverosa e decisamente troppo angusta per ospitare il suo fisico spilungone. Mi accolse con un sorriso enorme e caloroso che gli coinvolgeva gli zigomi pieni, le cui curve morbide somigliavano molto a quelle sui visi del ramo materno della famiglia. Riconobbi subito in lui il ragazzo alto coi capelli rosa che stava sotto il palco con lei al mio concerto al Club2Club. Anche se, in quel momento, i suoi capelli erano di un accecante blu neon.

– Filippo, buon compleanno! – esclamò, e mi strinse in un forte abbraccio come se ci conoscessimo da tutta la vita.

Poi fece lo stesso con Elena, con cui si scambiò occhiate complici e maliziose: – Ho sentito così tanto parlare di te che è come se fossi già cuginm pure tu – aggiunse con una strizzata d'occhio, mentre ci invitava a entrare in macchina.

Ebbi l'impressione di vedere per la prima volta a colori gli scorci della città che scorreva oltre il finestrino, quasi come se durante la mia prima visita l'avessi vista filtrata da una pellicola di inizio secolo scorso. Finalmente ero lì, a fare la conoscenza dei marciapiedi che Elena aveva solcato da studentessa universitaria, degli alberi dei giardinetti che vedeva dalla sua finestra, delle porte scorrevoli della Crai sotto casa dove faceva la spesa per la settimana.

Salimmo al quarto piano di una palazzina che doveva essere stata costruita all'inizio degli anni '80, con un ascensore in cui faticammo a entrare tutti insieme ma che, se non altro, non andava trovando le monete come quelli di Napoli.

L'ingresso dava sul salotto dell'appartamento, piccolo quasi come quello mio a Rua Catalana ma, perlomeno, dotato di due stanze da letto separate.

Ci accolse il fidanzato di Giorgio, col caffè già pronto fumante sul tavolino di vetro davanti al divano a L, e si presentò col nome di Alessandro. Era un ragazzo bassino e di poche parole, ma dall'aspetto molto appariscente e, grazie a quei dettagli, riconobbi in lui la terza persona che era presente al mio concerto anni prima. Poi venni a sapere che studiava moda e mi fu più chiaro il nesso con la sua estetica da rivista patinata.

Tra una chiacchiera e l'altra sulla convivenza, sul quartiere, e sul fatto che Torino fosse una città molto umida, Giorgio prese a smanettare col telecomando vicino alla TV appesa al muro di fronte a noi. Aprì la app di YouTube ed esplose nella più inaspettata delle news: – Marò, Lenù, ma lo sai che ieri è uscito il nuovo album di LIBERATO? È più bello del primo!

L'argomento mi congelò tutte le funzioni vitali all'istante. Mi imposi, oltre ogni ragionevole limite allo sforzo di cui un essere umano può sobbarcarsi, di rimanere impassibile nella faccia e nei movimenti. Forse anche troppo, dato che la sensazione fu quella di essermi tramutato in un blocco di pietra, e potevo solo sperare che non fosse evidente all'esterno.

Lui ammiccò con un occhiolino verso di me, forse perché credeva che lo giudicassi per i suoi gusti musicali: – Io sono un grande fan! Portai Lenuccia al concerto quando venne a cantare live per la prima volta a Torino! – lo disse con vanto, come se avesse partecipato a chissà quale evento esclusivo. Pareva che fosse sul punto di millantare da un momento all'altro perfino meriti suoi, diretti, un po' alla "A chill l'aggia lanciat' ij!".

In fondo, chi mai avrebbe potuto smentirlo?

Elena balzò in piedi dal divano e batté le mani con gaudio e impazienza: – Oddio, lo dobbiamo sentire subito! – ordinò, il telecomando già in suo possesso, brandito come uno scettro.

Il mio autocontrollo venne drammaticamente meno.

Come avrei potuto mantenere una pokerface così spudorata davanti a Elena mentre cantava, inconsapevole, le mie canzoni davanti a me medesimo? Fronteggiando il concreto rischio che mi riportasse alla mente i flashback insopportabili della performance in cui le avevo urlato il mio dolore dal palco, col pensiero che non l'avrei rivista mai più?

Non riuscii proprio a trattenermi dal gridare un secco e irruento: – NO! – la mano allungata su di lei in uno scatto che le fece cadere il telecomando sul tappeto.

L'attimo di silenzio che si venne a creare avrebbe potuto uccidermi di crepacuore, se non fosse stato spezzato in tempo utile da Giorgio, che scoppiò in una fragorosa risata e insinuò: – Lenù, il tuo fidanzato pianista tiene il palato fino, mica se li fida di sentire i neomelodici!

Sua cugina aggrottò la fronte e si voltò verso di me, per indagare con lo sguardo se fosse la verità.

Io mi irrigidii, ma tentai di sembrare divertito: – Ma no, quando mai... È che sono molto stanco, abbiamo preso il treno all'alba stamattina, e volevo chiedere a Lenuccia se magari le andrebbe di riposarci un po' – mi scusai e abbozzai un sorriso tiratissimo.

Restituii il telecomando a Elena dopo averlo recuperato mestamente dal pavimento.

– E tiene ragione pure lui, Lenù! Andatevi a fare una pennica, vi sveglio io quando si fa orario – propose Giorgio, comprensivo e accudente.

Elena mi fissò ancora un po' risentita, ma annuì e mi prese a braccetto. Con un broncio di scena fece ciao con la manina agli inquilini di casa, poi mi guidò attraverso il corto disimpegno che ci separava dalla porta di quella che era stata la sua camera da studentessa fuori sede.

Il cugino le gridò appresso, mentre si sedeva sul divano e riprendeva il controllo sulla televisione: – È tutto ancora come l'hai lasciato tu! Nessuno ci ha più dormito lì dentro – sottolineò con affetto.

E fece molto bene a puntualizzarlo.

Perché, quando Elena aprì la porta di quella stanzetta stretta e lunga, ebbi la rivelazione che aspettavo da quasi un anno.

A centinaia di chilometri da dove le avevo disperatamente cercate, si manifestarono, proprio quando non me l'aspettavo più, le nostre benedette vecchie fotografie attaccate al muro. I nostri volti più giovani ci guardavano e sorridevano da dentro allo sfocato piattume della carta polaroid su cui erano stati catturati, come a prendermi in giro per quanto fossi stato stupido.

Lei si rese conto che mi ero imbambolato a guardarle per un tempo esagerato: – Beh? Ho portato tanta roba da casa, quando mi sono trasferita – lo disse come se fosse la cosa più naturale del mondo. Come se non si ricordasse che mi aveva già lasciato quando si era trasferita a Torino. Quindi aveva appeso in giro le foto di un suo ex e, magari, in quella stessa stanza in cui albergava il mio spettro inconsapevole, ci aveva pure portato a scopare i ragazzi di Tinder che non la facevano venire.

Ma tutto tornava, esattamente come mi aveva riferito la saggia zia Letizia. Le foto non erano mai sparite da camera sua, perché davvero non aveva mai smesso di amarmi. Solo che non avevo mai riflettuto sul fatto che "camera sua" potesse non essere quella a Napoli.

Non commentai e non ebbi neanche il tempo di rimuginarci troppo sopra perché, poggiata la nuca sul cuscino, sprofondai in un sonno profondissimo. Come se, per tutto quel tempo, il mio organismo fosse rimasto sospeso in attesa di quella scoperta, prima di poter tornare a godere di una completa e ristorante fase REM.

Mi risvegliai sulle note dolci di Partenope in sottofondo. Lì per lì non capii neanche del tutto di essere sveglio; pensai che non poteva essere vero di trovarmi a Torino, spalmato sul corpo della mia adorata Elena in un letto minuscolo, con la mia stessa musica in background come se fosse cosa da tutti i giorni.

– Amore... – bisbigliò lei, con aria sognante, non appena notò i miei occhi socchiusi – ... senti com'è bella questa canzone!

Si voltò verso di me e riavvolse il video da capo per coinvolgermi nella visione.

Fissai ammirato i tratti dolci e un po' infantili del suo profilo, rivolto in contemplazione dell'MV della mia canzone sul mio canale YouTube e, magicamente, non mi sentii più a disagio o teso.

Era il momento perfetto, servitomi su un piatto d'argento dal destino.

Volevo dirglielo con tutto il cuore. Volevo sentirmi libero di schiuderle entrambe le mie anime come avevo potuto fare con Teresa, trasportare e includere anche lei nella mia stramba doppia vita. Se avessi temporeggiato ulteriormente, l'inevitabile momento della confessione sarebbe diventato sempre più ridicolo.

Allora risposi di getto, per impedirmi di poterci ripensare all'ultimo momento: – Sono contento che ti piaccia – feci una breve pausa a effetto per raccogliere i pensieri, mentre lei alzava interrogativa gli occhi su di me – Perché l'ho scritta pensando a te.

Seguì una pausa che fu molto, troppo lunga.

Così tanto che ebbi paura che il flusso del mondo intero si fosse interrotto insieme a noi, e che il filmato di Partenope fosse rimasta la sola cosa in riproduzione.

Non aggiunsi niente e non mi mossi. Lei mi mantenne lo sguardo di ghiaccio piantato addosso, come alla disperata ricerca di un qualche segno che la aiutasse a decifrare la baldanzosa informazione che aveva appena acquisito. Infine arricciò le labbra e pretese maggiore chiarezza: – In che senso, scusa?

A quel punto mi sembrò davvero troppo strano che ancora non ci fosse arrivata da sola: – Teso', mi hai sentito cantare tante volte... studio musica e faccio un lavoro di cui non ti racconto mai niente. Davvero non ti è mai sorto il dubbio? – mi scappò da ridere, un po' nervoso – Teresa mi ha sgamato subito dopo il concerto a Napoli, nel 2018!

La sua espressione divenne di puro sconcerto. Si capiva che fosse a un passo dal voler urlare ma, al tempo stesso, non volesse farlo perché, per quanto sentisse il bisogno di ulteriori conferme, in fondo mi credeva già: – Filippo, ma che cazzo dici?

Implosi in una risata più sommessa, in parte per la situazione surreale, ma anche per la tensione latente; presi il cellulare e aprii la conversazione WhatsApp in cui il team si stava scambiando le opinioni sugli articoli appena usciti sul mio ultimo disco: – Scorri pure quanto vuoi. Non voglio più segreti tra di noi – la invitai con convinzione.

Lei fece per leggere qualche riga della chat, su e giù, ma dovette convincersene abbastanza presto, perché tornò su di me come se avesse le allucinazioni, e riuscì a proferire solo un imbarazzato e incredulo: – Tu nun staje buon 'ca capa... – arrossì vistosamente, e forse anche io.

– Temevo che mi avessi già potuto sgamare da tempo! – la sfruculiai – Una volta eri una grande detective.

– Si perde la verve quando si diventa ingegneri – sbottò schietta lei, che scherzava spesso su quella cosa.

Finimmo a guardarci fisso negli occhi per qualche momento, in silenzio e con un abbozzo di sorriso scemo fossilizzato in volto, ma la sua espressione intenerita mutò improvvisamente dopo poco. Focalizzò di nuovo l'attenzione sul display del cellulare, aperto sulla playlist di LIBERATO II, e prese a scorrerla. Tenne ben fissi gli occhi sullo schermo e mi gettò addosso un quesito che aveva la pesantezza di un macigno, con un tono con cui non l'avevo mai sentita parlare prima di allora: – Chi cazzo è Anna?

Ah. Giusto.

Era gelosia.

Avevamo sviscerato a lungo le disavventure del periodo in cui eravamo stati lontani: le sue fulminee e insoddisfacenti one-night-stand, le cazzate fatte in giro per il mondo con Carmine, Yousef e Love, ma mai avevamo affrontato la questione di cosa avessi combinato io con le altre donne durante tutti quegli anni, a parte la brevissima parentesi di Gulê che venne fuori a causa dell'incontro casuale con Zerya.

Deglutii energicamente, ma mi finsi indifferente. Non saprei neanche dire perché pensassi di non doverlo essere: Annachiara era stata una storia importante, non potevo negarlo. Il fatto che fossi sicuro che Lenuccia fosse la mia anima gemella non voleva dire che non avessi amato anche tutte le altre, pure se in modi diversi; tanto più che non credevo di poter essere biasimato per averlo fatto, dal momento che mi ero trovato costretto dalla decisione della stessa Elena a dovermi fare una vita senza di lei.

– È una ragazza che ho frequentato qualche anno fa... – spiegai, cercando di tagliare corto.

Lei si voltò a invadermi il cervello col suo sguardo artico, il freddo mi penetrò le ossa: – Eh... dev'essere stata importante, per arrivare a dedicarle addirittura una canzone col nome suo? – domandò, anche se non suonava davvero come una domanda.

Ma vir' tu se tutte le canzoni che avevo scritto per lei, la stragrande maggioranza, dovevano valere di meno di quella per Anna solo perché non le avevo intitolate Elena!

– È stata importante, Lenù, ma che c'entra? La maggior parte delle canzoni che ho scritto dopo il 2016 sono praticamente tutte per te – mi difesi, con la sensazione di dovermi tenere pronto a intentare un'arringa più compiuta a mia discolpa.

– Sì, ma questa l'hai pubblicata proprio mo, pure considerato che adesso sei tornato a stare con me? – inquisì ancora lei.

– Spesso non lo decido io l'ordine di pubblicazione dei pezzi, è una scelta della produzione – mi giustificai.

Non poteva sapere se stessi mentendo. Per questo teneva gli occhi incollati ai miei, quasi senza sbattere le palpebre, per timore di perdersi anche il minimo accenno di titubanza.

– Perché vi siete lasciati? – volle sapere.

Ora, bisogna ammetterlo, io sapevo benissimo di essere in guai seri. Quell'ambiguità aveva potenzialità assassine.

Risponderle che mi aveva lasciato Annachiara significava instillare in Elena il dubbio che, se non fosse andata com'era andata, con lei in quella stanza non ci avrei mai messo piede. La rottura con Anna non sarebbe mai successa o, comunque, non sarebbe scattata per mia iniziativa, quindi io e lei non saremmo mai più potuti tornare insieme.

Nella mia testa quell'ipotesi era sbagliata a prescindere. Che Annachiara mi avesse lasciato o meno, rivedere Elena non mi avrebbe mai (dico proprio, categoricamente, mai) potuto lasciare indifferente. Tanto meno la concreta possibilità di ricongiungerci. Però come avrei mai potuto spiegare quella mia assoluta verità, dovendo parlare per ipotesi?

– Lenù, tu mi hai lasciato nel momento in cui io credevo di amarti più di quanto avrei mai potuto – provai a individuare le parole giuste, con tutta la concentrazione di cui riuscii a essere capace in quel momento, ingannando l'ansia – Invece, a distanza di tutti questi anni, una delle più incrollabili certezze della mia vita è diventata il fatto che non ci sia limite a quello che provo per te, proprio perché è inesorabilmente cresciuto negli anni, malgrado la lontananza e la tua assenza.

Il suo sguardo severo non mutò di una virgola. Pareva che si aspettasse di sentire qualcosa di preciso, ma non riuscivo a capire cosa.

Quando notò che mi ero fermato un attimo a raccogliere i pensieri, mi spronò a continuare con ancora più veemenza: – E quindi? – ribadì la sua fame di delucidazioni – Si può sapere chi è questa Anna e perché vi siete lasciati?

Già. Mi resi conto di non aver ancora risposto a quella domanda. Amavo Elena perché era una che non si faceva intortare, per quanto fosse una caratteristica che mi andasse spesso in culo.

– Ho conosciuto Anna nello stesso anno e nello stesso posto in cui ho conosciuto anche te. Lei, però, ha sei anni più di noi e ci siamo lasciati perché si è sposata con un altro – tentai di riassumere il tutto con meno parole possibili, per farlo sembrare roba di poco conto. Ma sapevo che certi dettagli non sarebbero passati inosservati alla sua meticolosa attenzione.

– Quindi ti ha lasciato lei per sposarsi con un altro? – ripeté, a bocca spalancata – Cioè, scusa, sei stato l'amante di una che stava per sposarsi?

Detta in quei termini sembrava davvero una brutta, brutta storia. Pose eccessiva enfasi sulle parole peggiori.

– Infatti, guarda, la stai prendendo proprio nel modo sbagliato – e mi pentii subito di averla messa in quei termini, perché sembrava che le volessi spiegare cosa avrebbe dovuto provare dall'alto di stocazzo – Cioè, no, voglio solo dire che ti sei pittata in testa un ritratto sbagliato della mia storia con Anna.

Lei mosse il capo su un lato, ad angolo acuto con la spalla, e inarcò le sopracciglia per esortarmi ad approfondire.

Allora presi fiato.

– Di Anna mi attraeva che fosse più grande, che avesse esperienze di vita completamente diverse da me, che mi portasse a fare cose e vedere fatti che mai avrei fatto o visto da solo. L'aspetto segreto della nostra relazione era una specie di spezia che condiva il tutto per farlo sembrare più eccitante – illustrai, scelsi di essere onesto tanto con lei quanto con me stesso. Infatti, dalla sua espressione, non mi sembrò per niente contenta di ciò che ascoltò.

– Ma quello non è un tipo di relazione che dura. Non è pensata per essere a lungo termine. Lo sapeva lei e lo sapevo anche io, pure se facevo finta di no. Che sia finita com'è finita è stata la naturale conseguenza di quel genere di rapporto – a quel punto avevo detto davvero tutto, sarebbe stato impossibile spiegarmi meglio.

Presi una sua mano tra le mie e volli concludere con l'unica cosa che valeva la pena sottolineare: – Elena, il punto non è se io abbia avuto, o potuto avere, una bella storia d'amore con altre ragazze. Il punto è volerla. Io non la voglio con nessun'altra, la voglio solo con te. Sceglierei sempre te, indipendentemente da quale altra alternativa mi si potrebbe mai presentare.

Non seppi se essere più divertito oppure infastidito dal fatto di aver rivelato alla donna della mia vita di essere uno dei cantanti più famosi di Napoli e lei, invece che farmi domande e complimenti per la mia carriera, si fosse scagliata con gelosia furiosa su una delle pochissime canzoni del mio repertorio che non fosse dedicata a lei.

Non avevo mai visto Elena così gelosa prima di allora. Non gliene avevo mai dato motivo: quando stavamo insieme avevo occhi solo per lei.

– E non hai paura che ti scopra, ora che hai pubblicato un brano con così tanti dettagli sulla vostra storia? – obiettò, di nuovo sorvolando su tutte le belle parole d'amore che le avevo rivolto per concentrarsi, invece, sui nodi cruciali della vicenda di Annachiara che tanto l'aveva disturbata.

Però, in un certo senso, non aveva tutti i torti a farsi venire quel dubbio: – Beh – riflettei a voce alta – "Anna" non è il suo nome per intero. E, nella canzone, ho volutamente menzionato posti in cui non siamo mai stati insieme. Se, anche sentendo la canzone per caso, dovesse pensare che abbia delle similitudini coi nostri trascorsi, potrebbe scambiarla per una coincidenza – mi strinsi nelle spalle e feci roteare gli occhi sul soffitto, come a voler visualizzare da qualche parte il mio flusso di pensieri.

– Sai quante volte capita di sentire un testo che sembra parlare proprio di una situazione personale? Ma è sempre dovuto al caso, perché ci capita di vivere e pensare l'amore in modi molto simili gli uni con gli altri – constatai. Quella era una cosa che mi aveva ripetuto Natalia un botto di volte, e di cui avevo discusso a lungo anche con Teresa – Se pensi che tu, invece, non ti sei accorta dei testi che parlavano davvero di te!

Ma ci vollero ore, forse anche giorni, a intermittenza, di infinite rassicurazioni su quanto Annachiara fosse un capitolo morto e stramorto della mia vita, che non l'avrei mai più rivista neanche per sbaglio e che non avessi altro desiderio all'infuori dello stare per sempre con lei, certificando di essere pronto a fare qualsiasi cosa pur di convincerla della mia assoluta sincerità. Quando fu soddisfatta, temporaneamente, passò dritta all'interrogatorio su tutti i dettagli più intimi di LIBERATO.

– Perché il 9 maggio? Il tuo compleanno è l'11.

– Quello è il giorno in cui, nel 2016, sono uscito da Nisida e ho lasciato la mia ex dell'epoca. Te la ricordi?

Lei annuì con un ghignetto malizioso, forse scaturito dal ricordo del nostro primo bacio proprio di fronte a Erica.

– E poi il 9 e l'11, in numeri romani, sono speculari l'uno all'altro – rincarai, quell'assurdo dettaglio me l'aveva fatto notare Rocio anni addietro.

– E la rosa? Poiché maggio è il mese delle rose?

Nel momento in cui avrebbe potuto intentare qualche collegamento con la rosa ricevuta al mio concerto, il pensiero non la sfiorò neanche lontanamente. Mi rattristai: possibile che le belle ragazze come lei fossero così tanto abituate a vedersi recapitare doni da ammiratori sconosciuti (o manifesti) da non farci neanche caso? Oppure quel guaglioncello aveva davvero cercato di farsi la posteggia al posto mio, come sospettavo da tempo?

– No, quella è una storia un po' più complicata – chiarii, i primi meeting di preparazione della "nascita" di LIBERATO mi si materializzarono davanti come ologrammi – Ho fatto penare parecchio la nostra responsabile grafica quando cercava di capire come rappresentarmi. Lei mi conosceva da poco e io non avevo idea di cosa volessi. Anzi, io non volevo affatto fare il cantante e lo avevo anche messo in chiaro con tutti. Ma il produttore aveva insistito, e io ero solo un barista diciottenne appena uscito di galera. Che altra scelta avevo?

Lei corrugò la fronte e stirò un sorrisetto ironico: – Beh, Lì, ti è andata parecchio di lusso se ti sei ritrovato con una scelta "obbligata" di questo tipo, anziché con l'obbligo di tornare a spacciare come la maggioranza di chi esce dall'IPM.

Non lo spiattellò con severità, e sapevo bene quanta ragione avesse. Non avevo mai smesso di sentirmi un miracolato ma, al tempo stesso, non potevo sopprimere le crisi e il malessere che LIBERATO mi triggerava di tanto in tanto.

– Lo so, ma LIBERATO mi è sempre sembrato una parte intermittente di me stesso, che c'è e non c'è, come una doppia personalità annidata in un angolo del mio cervello che non conosco – risi ripensando a quanti anni fossero passati, eppure non ero ancora stato capace di risolvere una volta per tutte quel mio dilemma ancestrale.

– Immagino che, il fatto che neppure la gente che ti conosce se ne accorgesse, non abbia fatto che peggiorare questa sensazione – considerò lei, centrando il cuore del problema.

Le diedi un bacio veloce a stampo e le sorrisi, perché mi emozionava sempre il fatto che riuscisse a capirmi al volo, persino nelle cose che non erano del tutto chiare neanche a me stesso: – Comunque, l'artista con cui collaboriamo mi fece un sacco di domande sulle mie passioni e sui miei gusti per tirarne fuori qualcosa...

A quel punto Elena si affrettò a chiudermi la bocca con entrambe le mani: – Zitto, allora, zitto! Fammi pensare... – evidentemente voleva arrivarci da sola, dato mi conosceva meglio di quanto mi potesse mai conoscere Rocio.

Tuttavia fu più forte di me farmi sfuggire un lampo nello sguardo, con la coda dell'occhio, sul poster del mio film preferito attaccato alla parete di fianco a lei. Da grande appassionata di cinema, collezionava le locandine dei suoi favoriti e vi tappezzava le pareti della sua stanza fin da piccola. Avrei dovuto notare che anche le immagini di Big Fish, Cloud Atlas, V per Vendetta e Captain Fantastic erano sparite da camera sua a Napoli, insieme alle nostre foto.

Intercettò il movimento dei miei occhi e fu allora che capì.

– Il tuo film preferito! – le sovvenne, e si mise a contare sulle dita delle mani tutti gli indizi – Il protagonista è anonimo ed era un detenuto, le celle coi numeri romani, le rose rosse...

Annuii: – Maggio e novembre... – aggiunsi.

Lei si aprì in un enorme sorriso stupito e ammirato.

– Geniale, è così azzeccato! – osservò – Come cazzo ho fatto a non capire subito che eri tu?

– Neanche Teresa l'ha capito solo così, lei mi ha sgamato soprattutto per colpa del concerto a Napoli – la consolai.

– Quindi ora noi due siamo le uniche a saperlo?

Feci di sì con la testa prima di essere travolto da tutto il peso del suo corpo; mi si buttò al collo con gli occhi di chi si sente improvvisamente di essere un eletto, un prescelto o un agente segreto.

– Ma la bandana e il bomber sono i residui di stile in ricordo del tuo passato da spacciatore?

Dondolai la testa e roteai gli occhi come se mi avesse scagliato contro la peggiore delle infamie: – Ma quando mai! Quando spacciavo mi vestivo da chiattillo per entrare alle feste di Posillipo...

Proprio in quel momento arrivò Giorgio a interrompere il flusso di confidenze che stava ormai diventando infinito.

Bussò e lo invitammo in camera: – Allora, avete finito di confabulare, voi piccioncini? Andiamo a bere?



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