Track XXXI - Chiagne Ancora
Andrea esplose in una grassa risata mentre faceva scorrere lo sguardo sugli ultimi pezzi che gli avevo portato. Anche se a me faceva ridere molto poco il pensiero che fossero in gran parte frutto dei miei vagabondaggi in giro per il mondo con Annachiara, durante l'anno precedente.
– Anna? Anna se sposa? – mi prese in giro, con gli occhi inumiditi dal divertimento a mie spese – Ma non avevi detto che non volevi essere il nuovo Gigi D'Alessio, ne', Lillù?
Feci spallucce con mestizia, alla fine stetti al suo sporco gioco: – So' partenopeo, Andre'. Ci sarà sempre un po' di Giggino, in tutti noi artistelli napulegni.
– Vabbuò, m'e a fà vere' pure 'e toje fotomodelle un po' povere, allo'! – strizzò l'occhio e mise a posto gli spartiti.
Stavamo pranzando insieme e, nel pomeriggio, progettavamo di dare un'occhiata alla mia tesi nella speranza di riuscire a laurearmi entro l'anno, in aperta lotta contro la strafottuta pandemia, la kilestramuort' della DAD, la mia uallera incalcolabile e le zone dai mille colori.
Avevamo anche deciso quale singolo rilasciare il 9 maggio di quell'anno anche se, con un po' di disappunto, appresi che non sarebbe stato Francesco a dirigerne il video, poiché era impegnato nelle riprese del suo secondo film. Devo ammettere che vissi quel momento come una specie di tradimento, nonostante sapevo che fosse un sentimento alquanto infantile da parte mia. Mi ero abituato a vedere i miei pezzi prendere vita grazie alle sue immagini, spesso senza che dovessi spiegargli nulla, e la fiducia che nutrivo in lui era cresciuta a tal punto, nel corso di tutti quegli anni, da convincermi che nessun altro potesse comprendere e concretizzare la mia musica nella maniera organica e spontanea in cui lo faceva lui.
Andrea, senza batter ciglio, mi mostrò il materiale del nuovo giovane regista che aveva selezionato come rimpiazzo: – Se non ti piace chiedo anche a qualcun altro dei miei contatti – mi rassicurò.
Ma non volevo fare l'isterico e, soprattutto, il portfolio del nuovo arrivato aveva un'estetica senz'altro piacevole. Non era Francesco e, purtroppo, non era napoletano, ma certo non sembrava qualcuno con cui non sarei mai riuscito a lavorare.
– Va bene... ma fateglielo girare da qualche altra parte, magari che non si capisca esattamente dove sia – pretesi, come mia unica condizione – Non voglio ritrarre Napoli con gli occhi di qualcuno che non è di qua. Non avrebbe senso mettere la mia voce su un appezzottamento.
Non so se finì con l'essere proprio quello il problema: l'ambientazione generica e indistinta, il fatto che non fosse firmato da Francesco, l'apatia da pandemia oppure, magari, la canzone non risultò essere all'altezza delle precedenti alle orecchie dei fan (del resto era il primo brano che avessi mai scritto, a diciassette anni, quando stavo all'IPM), ma il marginale successo che ebbe mi portò a recriminare "ecco, lo sapevo!" con un certo amaro in bocca.
Temetti che, infine, fosse piombato inesorabile anche su di me il fatidico momento che investe tutte le celebrità meteore: l'abbandono della gente finiti i quindici minuti di notorietà.
Possibile che LIBERATO fosse quel genere di fuoco di paglia di cui ci si innamora per un'estate per poi andare avanti con la propria vita, senza neanche ricordarsi più che voce avesse il cantante di quel pezzo lì, il tormentone che passavano a ripetizione per radio nell'anno della prima cotta, dell'esame di maturità, della prima guida o della nascita del primogenito?
Mi ero spesso posto la stessa domanda riguardo me ed Elena, in quel periodo. Se fossi stato il suo fuoco di paglia.
Continuavamo a uscire da soli come vecchi amici, pur non essendo mai stati davvero "amici": l'accompagnavo a vedere questa o quell'altra mostra a Capodimonte, al MADRE, al PAN, al chiostro di Santa Chiara. Tutte cose che, in passato, quando non stavamo più insieme, faceva con Teresa e Angelica ma che, improvvisamente, aveva preso a chiedere sempre più di frequente a me. Giusto per lanciarmi messaggi ammiccanti che poi non portavano a niente di fatto.
In un paio di occasioni mi fece proprio incazzare.
La più eclatante fu quella calda mattinata di aprile che la aspettavo davanti a Scaturchio, in piazza San Domenico, per accompagnarla a un'assemblea dei Fridays For Future all'Orientale. Un suo messaggio su WhatsApp notificava che avrebbe tardato per colpa di sua madre, quindi mi rollai una sigaretta e mi sedetti su una delle fioriere che delimitavano i litigati confini tra la piazza e i tavolini esterni dei bar. Due turisti inglesi mi avevano superato per poi imballarsi un metro e mezzo più avanti, risucchiati in un trip mistico dalle note melanconiche di un'artista di strada che suonava un'arpa celtica all'intersezione con Spaccanapoli.
La melodia, in effetti, catturò anche me man mano che si faceva più incalzante, fino a culminare in un finale un po' stridulo. La donna della coppia britannica fece rotolare delle monete sui ricami floreali del foulard che raccoglieva le donazioni steso per terra e, finalmente, si spostarono, lasciando libera la mia visuale sulla musicista.
Era una venere nera dal portamento giunonico: una testa piena di infinite treccine scure che sfumavano in blu e argento sulle punte e, proprio a mo' di cascata, le scivolavano lungo la schiena avvolta in un lungo abito bianco di merletto.
– Ti è saltata una corda – le feci notare, appena individuai la disgraziata causa della stonatura con cui si era chiusa la soave armonia che aveva stregato i passanti di quell'angolo di caos.
Lei, che si era chinata per mettere a posto i soldi ricevuti tra le pieghe dello scialle, alzò gli affusolati occhi nerissimi su di me e mi sorrise: – Ah, grazie, adesso la cambio.
La sua espressione cordiale fu obnubilata da una fitta di dolore inaspettata. C'erano dei frammenti del vetro rotto di una bottiglia di birra proprio lì dove si era chinata, uno dei quali si era annidato sotto una banconota da cinque euro in attesa di scipparle un dito.
Notai la sua smorfia e mi inginocchiai accanto a lei: – Tengo un cerotto nel portafogli.
Mamma mi aveva fatto prendere quell'abitudine dai tempi in cui mi trovava sempre sgommato di sangue sotto casa, dopo le liti coi guaglioncelli del quartiere.
Nel momento in cui glielo porsi e me lo tirò via di mano, non potei fare a meno di notare quanto fossero morbide e curate le sue mani. Ci guardammo per un lunghissimo istante, rapito da una luce in fondo al suo sguardo che mi parve incredibilmente familiare.
– Grazie mille. Come ti chiami? – chiese, con l'accento distinto e pulito di chi studia dizione.
Le tesi di nuovo la mano, stavolta per presentarmi: – Filippo. E tu?
– Siria – rispose, facendomi sprofondare il cuore in un mare di nostalgia nel rendermi conto che il fuoco che rischiarava la pietra lavica delle sue iridi mi ricordava le fiamme che anche Gulê portava sul viso.
– Scusa il ritardo – esordì una voce alle mie spalle.
Strabuzzai gli occhi per tornare alla realtà di Napoli dal viaggio astrale per i vicoli di Beşiktaş che mi ero trovato a ripercorrere, in un mondo parallelo in cui ero ancora in sella al monopattino di Gulê.
Il mio volto stordito doveva aver contrariato o turbato Elena in qualche modo, perché incrociò le braccia davanti al petto e mi fissò con severità per qualche secondo. Poi, però, scosse la testa e si aprì in un ampio sorriso verso l'artista che, nel frattempo, si stava arrotolando il cerotto attorno all'indice destro: – Tutto bene? Ti sei fatta male? – domandò con preoccupazione del tutto fuori contesto, dato che non aveva assistito all'intera scena del taglio.
La ragazza, infatti, le rivolse una mite occhiata di circostanza e calò la testa: – Sì, tutto ok. Mi ha aiutata il tuo amico.
Elena fece fluire uno sguardo indagatore da me alla bruna sconosciuta, prima di aggiungere: – È sempre gentile con tutte, il nostro Filippo – mise particolare enfasi sulla "e" di "tutte", come a voler implicare qualcosa di malizioso e fuori luogo che mi disturbò – Per ringraziarlo potresti dargli il tuo numero. Sono certa che non te l'abbia ancora chiesto per timidezza!
Sgranai gli occhi, per incredulità mi autoconvinsi di aver sentito un cazzo per un altro. Che cosa stava succedendo?!
Il mondo attorno a noi si spense per un lasso di tempo che non saprei quantificare. Smisi di avvertire le urla dei creaturi che giocavano a pallone in piazza, le mille lingue dei turisti che ci passavano di fianco coi rumorosi flash delle loro fotocamere vintage, il fischio della macchinetta del caffè dentro al bar.
Rinsavii solo quando una bella mano dalle unghie smaltate di blu elettrico mi tese un bigliettino sotto al naso. Era uno dei cartoncini coi suoi contatti che Siria esponeva sulla sua postazione; forse pensava di seguire così il consiglio di Elena.
Fissai il cartoncino, immobile, come rapito in visione, mettendoci davvero troppo a elaborare una qualsiasi reazione. Quindi fu Elena a fiondarsi a raccoglierlo per me: – Ti assicuro che ti richiamerà, sei proprio il suo tipo! Anche lui è un musicista, sai... – menzionò, in una sfilza di altre chiacchiere che alle mie orecchie suonarono come i deliri di una folle.
Mi accigliai e sentii un vomito di parole salirmi dritto dritto 'ncanna dalle profondità delle viscere.
Prima di afferrare con troppa foga la mano di Lenuccia, per trascinarmela via su per il vicolo che sfociava a piazza Miraglia, mi scusai mille volte con l'arpista.
– Perdonaci, eh, l'amica mia nun sta buon ca capa – mi feci roteare con sarcasmo un dito all'altezza della tempia, cosa che fece infuriare Elena.
Scalpitò come una pazza per tutto il tragitto di corsa verso il Policlinico, finché non la piazzai con le spalle al muro di fianco al Postamat. Nella freva mi avvicinai troppo, il suo fiatone rabbioso mi inumidiva le labbra a pochi centimetri dal suo visetto tondo.
Non appena avvertii una lacrima di nervosismo approcciarsi con prepotenza all'angolo dell'occhio destro, mi allontanai e sferrai un calcio alla fioriera accanto al banchetto ambulante dei libri usati.
Alle mie spalle, fu lei a iniziare a singhiozzare. Mi girai a guardarla, allibito: – Ma che chiagne a fà? Si può sapere che ti è preso, Lenù?
Il cuore colò via dal petto come burro sciolto di fronte alla tenerezza dei suoi occhi umidi, ma mi forzai di mantenere un contegno e continuai a rimproverarla: – Ti sembra normale quello che hai fatto?
Lei tirò su col naso: – Perché?
– Come "perché"? Mi stavo facendo i cazzi miei finché non ti sei intromessa per posteggiarti una sconosciuta in mia vece. Che modi sono? – alzai un po' troppo la voce e un vecchio, che ci passò di fianco ridendo sotto i baffi, si sentì in diritto di intonare uno "Shhh" di ammonimento.
– Scusa, avevo visto come la guardavi e mi eri sembrato interessato – si asciugò le lacrime col bordo della manica della felpa e si strinse nelle spalle.
Mi venne difficile deglutire il grosso nodo che mi si era intorzato in gola alla realizzazione che mi scrutasse ancora con meticolosa attenzione, come aveva sempre fatto, nel tentativo di leggere ogni minima inflessione ed emozione del mio linguaggio non verbale.
Com'era possibile, allora, che non si fosse accorta di quello che ardeva ancora in me per lei?
– E a te, invece, com'è che ti guardo, Lenù? – la provocai, una sfida a cavare dal mio sguardo accigliato lo spantecamento che mi stava infliggendo da quando ci eravamo rincontrati.
Lei tentennò e non rispose, anzi, spostò il suo campo visivo oltre la mia sagoma per andarlo a sperdere sulle geometrie dei tetti lontani del Policlinico.
Mi indispettii.
– Pensaci – sbuffai e girai i tacchi verso Port'Alba, offeso.
La mollai lì da sola.
Non la rividi né la risentii per quasi due settimane, le prime di maggio. E, nel frattempo, il mio cervello aveva quasi completato l'opera di persuasione di essere stato un fuoco di paglia per lei tanto quanto lo era stato LIBERATO per la scena musicale italiana. Del resto, perché mai LIBERATO, che era una parte di me, sarebbe dovuto riuscire a scampare al destino di Filippo di non essere mai scelto da nessuno?
Teresa sembrò oltraggiata da quei pensieri quando glieli rivelai, in un momento di sconforto e debolezza acuta, un pomeriggio che ci eravamo appollaiati sopra all'ultima terrazza del Castel dell'Ovo a mangiare taralli caldi.
Era un mite 10 maggio, il giorno successivo al rilascio di E te vengo a piglià e quello prima del mio compleanno. Infatti avevamo appena finito di videochiamare Carmine e Zukka che, nonostante stessero pieni di tarantelle nella loro vita dall'altra parte del mondo, ci avevano tenuto a essere i primi a farmi gli auguri perché da loro era già passata la mezzanotte.
– Sei ancora convinto di non festeggiare? – si informò Teresa mentre scrocchiava un morso a un tarallo troppo friabile, che si frantumò come una piccola esplosione.
Seguii con lo sguardo la mandorla che cadde lenta verso il mare sotto di noi e mi sentii molto affine a quel destino; mi chiesi se qualche bestia lì sotto si nutrisse di frutta secca. O di giovani musicisti falliti.
– Ma c'aggia festeggià, Tere'? – sbottai – Sono tornato a Napoli solo da qualche mese e già il mio successo come artista inizia a calare in picchiata, il mio regista di fiducia mi ha appeso, c'è un virus mortale che ci tiene tutti sotto scacco, mille decreti ministeriali che rallentano la mia laurea, la mia ex mi ha ghostato e l'amore della mia vita mi tratta come se fossi il suo compagno di banco – ero al limite, ma non mi fermai neanche per riprendere fiato – Come se non bastasse, la maggior parte dei miei migliori amici vive all'estero e non posso più vederli come una volta.
– Uà, Filì, che uallera! Ma tua mamma non te l'ha mai detto di pensare ai bambini africani? – cantilenò lei, gli occhi al cielo e un'unghia impegnata a togliersi delle molliche dagli incisivi.
Chiaro che avesse ragione, stavo esagerando.
In verità il mio malessere era tutto dovuto al fatto di essere entrato in un limbo con Elena, che sembrava senza via d'uscita. Ero ripiombato nel loop di sognarla ogni notte: almeno lì, nei miei sogni, facevamo tutto quel sesso che mi negava di fare nella realtà per chissà quale diabolico motivo.
A ogni singolo nuovo incontro mi sembrava che ci scappasse sempre un'occhiata fugace, un movimento, una parola o uno sfioramento che mi lasciava intendere che anche lei sentisse ancora quel campo magnetico attorno a noi e, non che volesse resistervi, ma forse c'era qualcosa che non le quadrava nell'essere "ex" da così tanti anni e tornare insieme all'improvviso come se niente fosse.
Eppure... perché? Non era quello l'ennesimo preconcetto idiota su come dovrebbero andare le storie d'amore?
Avrei voluto fiondarmi sotto al suo balcone, come facevo da ragazzino, per urlarle "Ma se ci amiamo ancora, che cosa stiamo aspettando?".
La malattia per quella stanza e per le vecchie foto, oltretutto, continuava a opprimermi il petto.
Non riuscivo a convincermi della veridicità di tutti quei piccoli segnali, se non potevo prima controllare che avesse o meno le nostre polaroid ancora appese in camera. Sembrerà una scemità ma, alla luce dei suoi gesti contrastanti, quello era l'unico indizio sicuro a cui potevo aggrapparmi per cercare di capirci qualcosa su quanto stesse succedendo tra di noi.
– Tu sei il re delle paranoie, altro che re della trap – tagliò corto Teresa, un pezzo di tarallo troppo duro buttato giù rumorosamente in gola, un po' come anch'io stavo ingoiando a forza l'amarezza di quel momento della mia vita.
***
Il mattino dopo sembrò che l'intera popolazione mondiale avesse deciso di fare a gara per chi riuscisse a disturbarmi di più il sonno a prima mattina.
Ovviamente vinse il re di tutti i cagacazzo: mio padre.
Mi fece due palle tante per quaranta minuti sul perché non mi facessi mai sentire e lo tenessi all'oscuro della mia carriera e dei miei studi, che non sapeva cosa dire ai familiari che chiedono sempre mie notizie (chiaramente una menzogna), che mi aveva comprato un'altra vespa e, stavolta, dovevo stare bene attento a non farmela rubare.
Al solito, papà che cercava di comprarsi il mio amore coi regali sfarzosi.
Trovai il motorino nuovo fiammante posteggiato giù al portone, di un bellissimo colore azzurro che ricordava quello degli occhi di Elena, e mi consegnò le chiavi dentro una scatolina di velluto altrettanto blu. Lo abbracciai di controvoglia e lo ringraziai a mezza bocca finché, con un tempismo miracoloso, il mio cellulare tornò a strillare da dentro alla tasca come avrebbe fatto per le quattordici ore successive. Con la scusa di rispondere, lo salutai e tornai di corsa in cucina dalla mia ricca colazione presa al bar.
Risposi di fretta, senza controllare il nome sul display, mentre mi allungavo a prendere un cornetto crema e amarena dal vassoietto che mi aveva lasciato mamma.
Fui stordito da un inaspettato strillo acuto di Elena.
– Auguri! – intonò, in una maniera allegra e amorevole che mi uccise di tenerezza e mi riportò subito ai bei vecchi tempi.
Da due settimane era sparita, dopo il litigio per la sparata con l'artista di strada e, d'improvviso, mi chiamava come se niente fosse. Però non riuscivo proprio a pensare lucidamente, tantomeno a prendermi la disturbata; volevo solo che tornasse da me e passassimo il mio ventitreesimo compleanno insieme.
– Grazie, Lenuccia – risposi con un filo di voce emozionata. Potevo sentire la mia faccia avvampare senza neanche guardarmi allo specchio – Che fai oggi?
– Faccio quello che fai tu – annunciò lei, con tono deciso e ammiccante.
Mi accasciai con la testa sul tavolo dalla felicità, atterrato dal batticuore, mordendomi il braccio per assicurarmi che non fosse un sogno.
Eravamo stati insieme quasi sei mesi nel 2016, e nessuno di quelli si era mai incrociato con un nostro compleanno. Quello sarebbe stato il mio primo con lei, nonostante ci conoscessimo da tutti quegli anni.
– Allora ti vengo a prendere tra un'ora – programmai, e corsi subito in bagno per schiattarmi sotto a una doccia fredda e schiarirmi le idee.
Che intenzioni aveva? E io, che intenzioni avevo?
Il fatto che volesse passare tutta la giornata con me doveva pur essere indicativo, una buona volta, che per lei non ero un amico qualsiasi. O no?
Magari saremmo anche passati da casa sua e, finalmente, sarei riuscito a entrare in quella maledetta stanza.
Per l'occasione mi vestii un po' da chiattillo, come piaceva tanto a mamma. In realtà, rovinai subito il look intrigante di quella bella camicia scura abbinandola alla mia vecchia giacca di jeans e alle Converse mezze rotte.
Provai una strana sensazione di riempimento inaspettato in petto, nell'inforcare la vespa e accenderne il motore.
Libertà.
Finalmente sfrecciavo veloce e senza meta per la mia città, come facevo sulla mia fedele bicicletta a Stoccolma.
Arrivato sotto casa sua le mandai un messaggio e impostai il silenzioso al cellulare, perché non avevo desiderio di sentirmi fare gli auguri da nessun altro. Li avevo già avuti dall'unica persona di cui mi importavano.
Elena scese cinque minuti dopo e mi sembrò più bella che mai. Aveva sgomberato il suo bel faccino dalla lunga massa di capelli castani, che crescevano a velocità allucinante, intrappolandoli tutti in un'alta coda di cavallo molto sexy. Indossava un chiodo vintage oversize che lasciava aperta la vista sulla scollatura a V della magliettina bianca in cotone leggero, da cui traspariva il reggiseno colorato sottostante.
Così a sensazione mi era sembrato, già da quando ci eravamo rivisti all'OPG, che avesse le tette più grosse e i fianchi più pieni. Ma, purtroppo, non mi era stata ancora accordata la grazia di constatare con mano quell'impressione.
Il modo in cui premevano morbidamente sulla mia schiena, però, era ancora lo stesso di quando l'avevo portata al mare la prima volta. E lo era anche l'abbraccio con cui si stringeva a me, le braccia incrociate sul mio petto coi pugni serrati attorno alla stoffa del mio giacchetto.
– Dove si va? – si incuriosì, mentre acceleravo sul rettifilo in direzione di piazza Garibaldi.
– Ti piace la costiera? Andiamo a godercela dall'alto – decisi lì per lì, con entusiasmo.
Non avevo mai percorso il "Sentiero degli Dèi", ma era nella mia wishlist da molto tempo. Quale occasione migliore che farlo insieme alla mia persona preferita nel giorno del mio compleanno?
Per fortuna indossavamo entrambi delle scarpe da ginnastica.
Arrivati ad Agerola facemmo il pieno di panini, salumi e provoline, prima di incamminarci sul "sentiero basso". Il sole picchiava forte in testa quella mattina, ma la brezza leggera che soffiava era fresca abbastanza da non farci schiattare di caldo già a metà maggio.
Constatai che, stranamente, non sembrava esserci molta gente a tentare la scalata. Forse perché, tutto sommato, era un semplice martedì e il turismo era stato colpito parecchio dalla pandemia. Un allineamento astrale perfetto, dunque, per permettermi di stare da solo con Elena, lontano da tutto e tutti, davanti al panorama più mozzafiato del mondo.
Percorremmo il primo tratto avvolti da un pesante silenzio, improvvisamente intimiditi da quelle stesse circostanze. Tanto che, a un tratto, Elena propose di mettere un po' di musica e io lasciai fare a lei, dato che la playlist che avevamo ascoltato a casa sua, quando mi offrì il caffè dopo l'incidente alla festa di Angelica, sembrava meno casuale di quanto volesse far credere.
Parlami senza parlare, Lenù, fammi senti' che tien' ncapa.
Quando, dopo un paio di pezzi strumentali che non conoscevo, le casse del suo cellulare iniziarono a intonare quello che, per me, fu l'indiscusso inno della mia disperazione durante l'anno in cui mi aveva lasciato, nel mio cervello rimbombò la consapevolezza che il caso non esiste.
"E scusa se non parlo abbastanza, ma ho una scuola di danza nello stomaco".
Com'era ironico risentirlo dopo tanti anni, quel verso di Coez, a perfetta descrizione del mio stato d'animo di allora, e ancora così simile a quello che provavo in quello stesso momento. Uno bizzarro anello temporale stava venendo a chiudersi: doveva pur significare qualcosa.
Il cammino era più tortuoso di quanto pensassi, ma lei era un'atleta che, nonostante l'infortunio, era comunque molto più allenata di quanto potessi mai esserlo io. Difatti era capace di staccarmi di svariati metri, se non acceleravo il passo abbastanza per starle dietro. Neanche a mezz'ora dall'inizio del percorso, mi stavo già arrecettando per la fatica di sincronizzarmi col suo ritmo spedito.
Cacciai un urlo isterico quando scorsi il dirupo al di là del cespuglio a cui riuscii ad aggrapparmi in extremis e, mentre alcuni flash della mia vita cominciavano ad affollarmi la testa, mi rattristai di essere così vicino al morire in modo così poco onorevole come un povero scemo, proprio davanti a lei, nel giorno in cui avrei dovuto celebrare la mia nascita e riconquistare l'amore della mia vita.
Elena, velocissima, mi agguantò un braccio e mi tirò verso di sé con potenza mal calibrata, infatti finimmo entrambi a terra sul lato opposto del pendio roccioso. Mi ritrovai con una mano ancora stretta alla sua e le altre dita serrate attorno alla curva del suo fianco. Occhi negli occhi e le labbra a pochi centimetri l'uno dall'altra.
Sorrisi, scelsi di cogliere quella palla al balzo per rompere il ghiaccio: – Devo prenderlo come un invito?
I suoi zigomi paffuti si chiazzarono di imbarazzo. Coi begli occhi piantati sui miei come se avesse paura di perderli di vista, mi assecondò: – Mi sa che, altrimenti, non usciremo mai da questo stallo alla messicana.
Finalmente.
Finalmente immersi le mie labbra nelle sue come non avevo più potuto fare per quattro lunghi, infiniti, dolorosissimi anni. Le sue unghie mi invasero prima il collo, poi la nuca, per finire tra i capelli, mentre io scendevo con entrambe le mani sui suoi glutei morbidi.
Erano i magnanimi Dèi di quel sentiero che facevano di me, costantemente, un ragazzo così fortunato? O era scritto nelle stelle quel nostro destino insieme? Nonostante tutte le cazzate con cui avevo rischiato di mandarlo in vacca al primo tentativo.
Non succederà mai più, mi ripromisi. Mai più sarebbe dovuto succedere che mi venisse 'na sajut'e capa tale da rischiare di perderla di nuovo.
Persi la testa, inebriato dalla sua saliva al gusto della caramella alla ciliegia che stava succhiando qualche minuto prima. Spinsi la mia mano giù dentro al suo jeans, per spostare con un dito scostumato le mutandine e accarezzare ciò che celavano sotto i delicati pizzi neri.
I suoi gemiti umidi accanto al mio orecchio mi spronarono a continuare, traghettandomi in una specie di stato ultraterreno in cui dimenticai dove stavamo e che giorno fosse, finché non venne sulla mia mano aperta a celebrazione del suo piacere.
Ma, proprio quando lei si mosse verso la cerniera del mio pantalone, fummo interrotti da una coppia di vecchi turisti tedeschi che sbucarono all'improvviso da dietro alla curva della roccia.
Non dissero niente, ma ci superarono a passo svelto con uno sguardo severo che tradiva anche molto disagio.
Li seguimmo entrambi con gli occhi mentre imboccavano il viottolo verso la discesa successiva. Quando furono abbastanza lontani, tornammo a scambiarci uno sguardo perplesso e scoppiammo a ridere.
– Sembra che sia la nostra croce l'essere interrotti proprio al culminare della passione – constatò lei, al ricordo di quella disastrosa prima notte in cui a interromperci era stata sua zia.
Io le incorniciai il bel viso rotondo con entrambe le mani e le schioccai un bacio sulle labbra: – Ma si può sapere perché m'e fatt' spantecà tutto 'sto tiemp? – ululai – Non ce la facevo più a resistere dal saltarti addosso, Lenù!
Spalancò gli occhi, colta di sorpresa, come se davvero non si fosse accorta di niente per tutti quei mesi di uscite insieme a me schiattato in corpo per non poterla toccare. Con mio grande stupore, la vidi irrompere in un pianto strano, nervoso e convulso: – Ma io pensavo che tu non volessi più stare con me dopo il modo in cui ti avevo lasciato! – singhiozzò.
Risposi istintivamente con una risata un po' forzata; dura tenere a bada la delusione e l'amarezza per tutto il sesso e il sentimento che ci eravamo persi per strada in quei cinque mesi, solo per colpa delle nostre teste di cazzo e della mancanza di chiarezza e comunicazione.
– Ma come puoi pensare una cosa simile... non lo vedi come ti guardo? – la interrogai, incredulo, le braccia lasciate cadere sul bracciolo della panchina di legno che aveva appena assistito inerme alle nostre porcherie proprio lì di fianco.
Lei arricciò le labbra e si strinse nelle spalle, tirò fuori dalla tasca un fazzolettino per asciugarsi i lacrimoni: – Sì, ma credevo di illudermi io stessa, per vedere quello che volevo vedere – si giustificò.
Quindi era proprio così. Avevamo le stesse paranoie e gli stessi problemi di comprendonio.
Sorrisi e la tirai verso di me, per sederla sulle mie gambe. Le sistemai dietro l'orecchio una ciocca di capelli che era fuggita via dalla coda di cavallo quando eravamo caduti.
– Potrei dire che l'amore per te mi abbia consumato in tutti questi anni – confessai, in ammirazione di come i suoi occhi, il cielo terso e il mare distante alle sue spalle avessero lo stesso identico colore – Ma non sarebbe del tutto vero. In realtà il mio amore per te, Lenù, a dispetto dell'assenza e della lontananza, mi ha spinto a campare sempre più intensamente nella speranza di rivivere, un giorno, un momento come questo.
Lei mi strinse forte e mi fece dono di uno sguardo che così dolce non ne avevo mai visti prima, con gli occhi ancora lucidi di pianto. Si avvertiva il tamburellare emozionato dei nostri cuori percuotere all'unisono le pareti rocciose, per restituirci la melodia che non avevamo completato di comporre quando ci eravamo allontanati.
Al diavolo il sentiero degli Dèi!
Seguirono baci a catena senza permetterci sosta, inchiodati su quella panchina; il tempo scandito solo dallo schioppo delle nostre lingue e dei passi di altri sporadici viandanti da cui, stavolta, non avevamo intenzione di farci interrompere.
Eppure, quella notte, quando finalmente salimmo a fare l'amore a casa sua, constatai che sulle pareti color lavanda della stanzetta dei segreti, proprio lì accanto ai poster di Kill Bill, non c'era più alcuna traccia delle nostre vecchie foto.
Il cuore mi si staccò dal petto per cadere giù in picchiata oltre il pavimento, l'asfalto, la crosta terrestre, e finire dritto a essere incenerito dalle fiamme del nucleo della Terra.
Ma non dissi niente.
Filippo, smettila con le paranoie e goditi questo momento così com'è venuto.
Prima di fare altri guai.
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