Track XXVIII - Amma stà vicin'
L'ultimo ricordo felice al rarefatto gusto di normalità che mi è rimasto dell'inizio del 2020, prima che la pandemia arrivasse a spazzare via la quotidianità come se non fosse mai esistita, fu la parata del Carnevale Sociale di Montesanto a tema "Panopticon".
Per aderire all'occasione mi vestii come Tomodachi di 20th Century Boys (anche se solo i pochi nerd quarantenni che ci passarono a fianco riconobbero l'origine del mio sacco in testa) mentre Teresa assunse i panni di Leela di Futurama, facendo il pieno di foto con bambini e adulti presenti.
Quella sera anche Carmine ci mandò una foto di coppia dal Giappone, scattata alla festa di Carnevale del ristorante italiano dove lavorava, travestiti come i protagonisti rockabilly del video di Youngblood della band preferita di Zukka.
Il caldo di marzo iniziò a opprimerci quasi fosse ferragosto e, come se non bastasse già il climate change come sciagura universale, insieme alla primavera arrivarono anche i lockdown. Il 10 marzo 2020 l'Italia intera divenne "zona rossa", purtroppo non nel modo in cui sarebbe tanto piaciuto a me, Carmine e Teresa.
Eppure quello sarebbe dovuto essere il mio mese di gloria: la mia musica avrebbe raggiunto le orecchie di mezzo mondo nientemeno che tramite la prima colonna sonora di un film firmata da me.
Invece, mentre la gente in imprevista cattività imparava a lavarsi le mani, riscopriva hobby assopiti o mai perseguiti, le meraviglie tecnologiche di videochiamate e videotutorial, dei cartelloni ottimisti DIY da appendere al balcone e di improbabili documentari di bestie feroci e gente scoppiata su Netflix, io divenni l'ameba in simbiosi con il divano che non ero mai stato prima in vita mia.
Fin da piccolo le mie giornate erano sempre passate veloci miezz' a via, in un rapporto simbiotico più con la città che con le quattro mura di casa. Ma la pandemia mi privò del tutto del piacere di uscire, oltre che di quello di vivere più in generale.
Al contrario di me, mamma era rimasta iperattiva e instancabilmente positiva (forse perché una pausa forzata dalla pulizia di vomito di creaturi sui pavimenti scolastici le serviva proprio, sembrò quasi una manna). Si dilettò a imparare online nuove tecniche di taglio e colore ai capelli, da sempre una sua grande passione, che testava subito sulle vicine di casa del palazzo la cui unica ragione di vita era diventata avere l'acconciatura a posto nonostante il confinamento.
Devo ammettere che, nonostante la mia uallera pesantissima, mamma ce la mise tutta per rendere anche le mie giornate meno depresse e appallanti. Tentò senza sosta di coinvolgermi in mille cose, trovandosi di fronte un muro di gomma che più cagacazzo non si poteva, finché non mi mandò a cagare anche lei dopo qualche giorno.
– Sei diventato un nichilista – mi rimproverò, un pomeriggio che quasi me la facevo addosso perché non me ne teneva di alzarmi dal divano neanche per andare in bagno.
– I nichilisti sono stati ingiustamente demonizzati troppo a lungo – arringai, con la faccia ancora affossata dentro al bracciolo – Se fossimo tutti più nichilisti non esisterebbero drammi, perché faremmo pace col fatto di essere delle minuscole creature insignificanti in un universo immenso a cui non frega un cazzo di noi e delle nostre sorti.
Mi resi conto di essere stato un po' brutale nelle mie elucubrazioni, proprio mentre in TV scorrevano le immagini dei carri militari che portavano le bare di centinaia di morti fuori da Bergamo. Infatti, di fronte a una tale insensibile e lapidaria osservazione, mamma alzò le mani e non provò mai più a filosofeggiare con me.
Tuttavia il pentimento per le freddure gratuite, frutto del mio consueto pessimismo cosmico amplificato dalla minaccia di una sconosciuta malattia mortale, mi raggiunse quasi subito. Anzi, la cosa che davvero mi fece sbroccare più di ogni altra fu l'insorgere dei complottisti e il modo in cui quella folle escalation stesse mettendo in pericolo l'incolumità del personale ospedaliero, oltre che per il virus, anche per le violenze degli invasati. Scrissi addirittura un accorato post su Instagram di mio pugno sulla questione, senza neanche coinvolgere o informare Natalia, perché mi sembrò l'unico momento giusto per sfruttare la mia piccola fetta di influenza mediatica per fare qualcosa di buono.
Quello sforzo inedito non fece altro che assorbire ancora di più le mie già scarse energie cerebrali, mentre quelle poche fisiche rimaste erano per lo più impiegate a farmi le seghe sulle foto che Annachiara mi mandava dal Sud Corea, l'hub in cui fu spostata dalla sua compagnia aerea quando il Giappone serrò le porte del Paese in aprile.
Invidiai a morte chi ebbe la possibilità di vivere la quarantena in coppia. La notte sognavo, più frequentemente che non, che al posto di mia madre ci fosse Anna e quindi potessimo passare quelle pigre giornate di segregazione a scopare come conigli.
Ma perfino sognare a occhi aperti scenari improbabili drenava le mie risicatissime forze mentali, ragion per cui non presi mai alcuna iniziativa per fare nient'altro. Non studiai, non feci aperitivo con gli amici su Zoom, non mi esercitai a suonare, non entrai nel loop dei giochi online e non aprii un libro neanche sotto tortura. L'unica attività che mi accompagnò giorno dopo giorno fu, oltre alle pugnette, la visione di vecchi film piratati e dello scoppiettio dei popcorn nel microonde.
Le prime persone che rividi dal vivo in quel periodo, dopo settimane in cui ormai nun me firav cchiù manc'e vere' la mia stessa faccia, furono Andrea e Gennaro. Dietro spinta dell'appuntamento obbligato in occasione del 9 maggio, il giorno di LIBERATO, un rito annuale a cui non avrei mai più potuto sottrarmi neanche in tempo di pandemia globale.
Per fortuna, Natalia aveva avuto un'idea per mantenere la promessa del mio ritorno coi fan, pur senza pezzi nuovi da lanciare dopo le soundtrack per ULTRAS appena uscite.
Mi piazzai al pianoforte su cui LIBERATO era letteralmente stato partorito, in mezzo all'enorme salone di casa di Andrea e, mentre Gennaro gestiva la diretta montando col cellulare delle gif animate che avevamo scaricato in blocco da Tumblr, presi a suonare e cantare un mix di roba a caso a cui avevamo pensato solo qualche ora prima.
Più volte ebbi paura che la mia personalità, la mia età, i miei gusti venissero troppo fuori dalla playlist che avevamo scelto, oppure che la mia voce risultasse fin troppo chiara. Cercai di modularla in modi sempre diversi o di rispondere il meno possibile ai commenti della chat ma fui, al tempo stesso, posseduto dal fuoco fatuo di essere di nuovo fuori casa e avere contatti umani dopo settimane da eremita.
LIBERATO prese il sopravvento.
Forse esagerammo.
Il calore e l'affetto di tutti quei fedelissimi seguaci che mi aspettavano con ansia e devozione, anno dopo anno, mi diede alla testa.
Per questo motivo avrei sperato che quella live finisse nel dimenticatoio e nessuno potesse ascoltarla mai più. Invece, come tutte le robe dell'internet, pare proprio destinata a restare per sempre sospesa sul mio collo come una spada di Damocle.
***
L'aria d'estate iniziò a incombere su Napoli più come una minaccia che come una benedizione.
Io (che soffro il caldo come un cane) mi vedevo già tornare ad essere un tutt'uno di sudore e noia con la ruvida stoffa del divano in salotto per ancora molti altri mesi a venire, eppure le restrizioni iniziarono pian piano a essere allentate e la cosa mi scombussolò.
Mi scoprii comunque sollevato del fatto di non dover andare in tour quell'anno perché, alleluja, mi ero ripromesso di riprendere almeno lo studio con un po' più di serietà e costanza di prima, mo che ne avevo tutto il tempo.
Fu a quel punto, una caldissima mattina di fine maggio, lo stesso giorno in cui ricevetti la candidatura di We Come From Napoli ai Nastri d'Argento, che mi raggiunse al cellulare una chiamata di Love.
– Uè, bello, è una vita che non ci sentiamo! – lo salutai, la felicità di risentirlo si mischiò alla sorpresa per il fatto che mi chiamasse così di punto in bianco – Che si dice?
– Fratello! A me tutto a posto – il suo tono cortese e gioviale mi riportò alla mente i bei ricordi dell'Erasmus – Sto a Stoccolma da mia nonna già da un paio di mesi.
Esplosi in una bestemmia di stupore e invidia e mi informai subito su come si stesse lì, visto che in TV non facevano altro che discutere delle zone d'Europa in cui se la passavano meglio nonostante la pandemia, Svezia in pole position, e a litigare sulle strategie di lockdown sì o lockdown no.
– Eh, proprio di questo ti volevo parlare – introdusse con voce concitata – Sono venuto qui con la borsa di ricerca tesi dell'Istituto di Cultura Italiana. Quando mi hanno chiesto se ci fosse qualche altro studente del mio college interessato all'altro posto disponibile, ho pensato subito di chiedere a te.
Non colsi all'istante che cosa mi stesse proponendo. Quale che fosse l'offerta, però, alle mie orecchie suonò come qualcosa di troppo bello per essere vero: sembrava farmi inaspettato dono della straordinaria opportunità di scappare da quell'inferno di DPCM, mascherine e autocertificazioni che era diventata l'Italia.
E non solo: mi avrebbe per giunta restituito l'occasione di rivedere Annachiara, che ormai lavorava solo sulle rotte intercontinentali dalla Corea del Sud al Nord Europa, le regioni meno intaccate da confinamenti e restrizioni.
La Svezia, il paradiso europeo per la produzione di musica, mi stava tendendo una mano. E io non esitai a tirarmi tutto il braccio.
– Qui non ci sono obblighi di nessun tipo. Nessuno se ne frega un cazzo neanche di mettersi la mascherina – cantilenò Love senza nascondere la sua profonda disapprovazione, essendo un tipo molto ligio, ansioso e ipocondriaco.
Say no more, pensai nella mia testa.
– Lu', mandami le carte da firmare! – proclamai senza doverci pensare un secondo di più, scattando in piedi per andare a prendere il laptop da camera mia e fiondarmi sul primo volo disponibile – Conta come se fossi già lì.
***
Una settimana più tardi (e dopo aver regalato un tesoretto alla mafia dei test molecolari per farmi un PCR al volo) trovai il mio biondo aggancio verso la libertà ad attendermi, puntualissimo, ad Arlanda, per darmi il benvenuto in un fiabesco arcipelago sorprendentemente caldo e soleggiato.
Del resto non avevo idea di cosa aspettarmi. Non ero mai stato così tanto a nord in vita mia e, da bravo guaglioncello del sud abituato male, ero convinto che qualsiasi cosa sopra la latitudine di Roma fosse il Polo Nord.
Love mi aveva già rassicurato che il clima estivo di Stoccolma fosse in media molto mite e che, piuttosto, la cosa che avrebbe potuto darmi più fastidio sarebbe stata la quasi perenne luce del sole.
Ma non fu neanche quello.
Adorai le eterne giornate d'estate scandinave, nonostante mi confondessero i ritmi vitali a tal punto da farmi sfiorare la zombificazione. La mia dipendenza da Red Bull si acuì drammaticamente durante quel periodo.
Eppure scoprii, mio malgrado, che la capitale svedese fosse ben lontana dall'incarnare il concetto di una "città che non dorme mai". Al contrario, certe sere infrasettimanali riusciva a essere un mortorio insostenibile per i miei standard. Però compensava bene con la vivace e ampia scena musicale e underground, strapiena di tenaci subculture e rave party nei boschi, grazie alla quale partecipai a concerti di artisti nordici e internazionali semi-sconosciuti che non avrei mai avuto occasione di sentire live in Italia.
In generale, la Svezia mi stupì in modi che non avrei mai immaginato. L'ordine, la pulizia, il rispetto per gli spazi e l'individualità altrui coniugato in tandem alla centralità della comunità, la pianificazione dell'estetica di ogni cosa nel minimo dettaglio, erano caratteristiche che mi ricordavano gli aspetti più apprezzabili del Giappone e che fui sorpreso di riscontrare anche in un Paese europeo.
L'architettura germanica dava a tutto un aspetto austero ma efficacemente stemperato dalle coloratissime facciate dei palazzi storici delle isole centrali, un po' alla stregua di come le sgargianti insegne al neon davano dinamismo ai grigi blocchi di palazzoni nipponici.
Alloggiai in una delle camere che l'Istituto di Cultura Italiana metteva a disposizione degli studenti in trasferta nei suoi locali nel quartiere Est, la zona delle ambasciate.
– In questa stanza c'ha vissuto anche Pierpaolo Pasolini! – notificò Love, l'uomo dei miracoli. Mi aveva strappato alla depressione della pandemia in Italia, ed era persino riuscito nell'impresa impossibile di trovarmi una sistemazione economica a Stoccolma. Era un po' angusta e ancora arredata con i mobili del secolo scorso che, ci avrei scommesso, aveva usato anche lo stesso Pasolini, ma non me ne sarei lamentato neanche se avesse avuto le sbarre alla finestra.
Per la prima volta in vita mia provai il piacere di poter andare in giro in bicicletta, raggiungendo così ogni angolo della città senza dover aspettare bus sovraffollati, temere controllori, borseggiatori e altre rotture di cazzo. Mi feci dei polpacci invidiabili a furia di fare chilometri in lungo e largo, dalla mattina alla sera.
Annachiara notò ad alta voce la mia ritrovata prestanza fisica quando, finalmente, passammo insieme un fresco fine settimana di metà giugno.
– Ti fa bene l'aria del nord! – constatò, quasi con imbarazzo, il curatissimo make-up sul punto di scivolarle via dalla faccia. Aveva appena fatto tratta diretta Seul - Stoccolma ed era stanca come non l'avevo mai vista; anche se nemmeno la cenere dell'eyeliner colato sotto agli occhi e il rossetto grattato via dagli angoli delle labbra avrebbero mai potuto intaccare la naturale bellezza del suo viso.
Temetti di finire in bianco per colpa di quello sfiancamento, invece, appena dentro all'ascensore tematico del Clarion di Norra Bantorget, fu travolta dalla passione al ritmo della musica jazz in sottofondo, le cui calde e appassionate melodie sembravano accompagnare le nostre slinguazzate come una soundtrack. Ci trascinammo così fino alla sua camera e facemmo sesso a ripetizione sul morbido e profumato letto king size, su cui lei sembrò spalmarsi come burro sotto i colpi piatti dei miei fianchi.
Il mattino dopo mi risvegliai con le sue lunghe gambe nude ancora strette attorno al bacino, i brillanti occhi color lava sciolti dentro ai miei.
– Ti ho catturato – sussurrò con un sorriso furbetto, tradito da un velo di malinconia steso tra le ciglia umide – Riuscirai a sfuggire alla sindrome di Stoccolma?
Decisi di stare al gioco, per quanto con un po' di spaesamento forse dovuto al sonno. Con un lento movimento della mano attraversai tutto il suo corpo dal collo all'inguine. Gemette quando giunsi abbastanza giù da premere sul soffice tasto giusto, ribaltando l'ordine dei nostri corpi distesi l'uno sull'altro per chinarmi a succhiarle un capezzolo irto: – Chi è prigioniero di chi, qui? – la interrogai con un ghigno allusivo, mentre si abbandonava ai fremiti del piacere fino all'orgasmo.
Rimasi a guardare le sue iridi d'ambra passare dall'essere illuminate di estasi a oscurarsi improvvisamente, come coperte da una nuvola anomala che si piazza davanti al sole per interrompere il suo dominio sul cielo terso. Fissò immobile il soffitto per un minuto, poi si voltò a scrutarmi come se volesse leggermi dentro la soluzione a tutti i suoi problemi.
– Perché non si può desiderare di avere tutto ciò che si vuole nella vita? Che c'è di male a non voler scegliere una cosa sacrificandone un'altra? – sospirò languida, il lenzuolo stretto in un pugno – Lillo, tu non vorresti poter avere tutto quello che desideri senza per forza doverlo ordinare su una scala di priorità?
Circondarmi di donne sibilline era davvero la mia specialità.
Mi parve un discorso molto astratto il suo, sul momento, tuttavia lineare e condivisibile. Certo che avrei preferito non dover scegliere tra una cosa o un'altra, se le desideravo entrambe, ma non tutto può essere incastrato in modo da funzionare in armonia a dispetto di tutti gli sforzi.
Risposi che le situazioni della vita sono esattamente come i pezzi di un puzzle: ci sono quelli che sono fatti l'uno per l'altro e completano l'immagine, quelli la cui forma sarà sempre incompatibile non importa quanto li giri e li rigiri, e quelli che ti traggono in inganno perché sembrano incastrarsi sebbene privi della concordanza col soggetto.
Questi ultimi sono senz'altro i più infami.
– Sei il più insidioso tassello del puzzle della mia vita – sentenziò Anna, lapidaria, prima che la conversazione venisse interrotta dalla bussata del cameriere che ci era venuto a portare la colazione in camera.
Andammo in giro per tutto il weekend di nuovo spensierati come due fidanzatini adolescenti, nonostante le principali attrazioni turistiche di Stoccolma fossero rimaste chiuse a causa della pandemia. Ma, per il resto, era vero che lì la vita aveva continuato a scorrere come se fosse stata parte di un mondo parallelo in cui il virus era solo un fastidioso granello di polvere annidato sotto al tappeto.
Ci ubriacammo come le pezze insieme ai cugini di Love che ci avevano invitato su un'isola minuscola a festeggiare il Midsommar in una tipica baita rossa sperduta nella foresta che, come tradizione, non aveva neanche il bagno. Quindi, di tanto in tanto, partivano i pellegrinaggi nel bosco per non finire dispersi dopo aver cagato durante la notte.
Era bello fare esperienza transitiva del rapporto di perfetta comunione tra gli svedesi, la rigogliosa natura del loro territorio e tutto il ben di Dio che vi si può raccogliere senza regolamentazioni; l'unico problema era evitare di farsi freddare dalle zecche (non un tentativo di sciorinare una scontata battuta sul socialismo scandinavo, ma solo la dura verità di essermele ritrovate nelle mutande con orrore).
Annachiara era decisamente poco abituata a certi aspetti di vita rurale che piacevano tanto ai compagni nordici e il fatto che, quando beveva, avesse bisogno del cesso ogni due secondi non la aiutò a sentirsi più a suo agio in quel contesto.
A me rimase il ricordo di un'esperienza unica nel suo genere, per il sapore ritualistico e pagano che si cela dietro una festività come quella. Mi sentii un po' come se mi avessero catapultato nel 1200 per un paio di giorni.
Rivedere Annachiara e spendere intere giornate insieme mi faceva ricadere, in maniera sistematica e inevitabile, nell'inganno di avere una qualche parvenza di relazione seria con lei. Avevo la sensazione di re-innamorarmi over and over again come fosse il primo giorno, ogni singola volta, e che tutta l'emozione dei primi baci, delle farfalle nello stomaco, degli sguardi ammiccanti, della voglia matta di farla mia si resettasse e ricominciasse da capo.
Credo che fosse proprio quello stato dell'essere che tutti vorrebbero sempre provare in una storia d'amore ma che, di solito, va scemando quanto più tempo si condivide con la stessa persona, giungendo a una diversa maturità di rapporto. Invece con Annachiara non aveva mai il tempo di sfumare, poiché non avevamo neanche lontanamente le condizioni necessarie su cui poter costruire insieme quella routine tipica delle coppie davvero stabili.
Tuttavia, quello fu il periodo in cui riuscimmo a vederci più spesso di quanto sarei mai riuscito a immaginare o prospettare prima di partire, soprattutto considerati i tempi di isterismo globale. Proprio l'unicità di quella coinvolgente estate dalle reminescenze adolescenziali mi illuse che si stesse apparecchiando la possibilità di un futuro più saldo e radioso per la nostra coppia.
Il secondo anniversario del nostro fatidico capodanno di passione si avvicinava e io mi sentivo pronto a chiedere di più. Ormai stavamo "insieme" da un anno abbondante e mi ero addirittura messo in testa di prepararmi un discorso per dichiararle il mio amore e la mia volontà di impegnarmi seriamente nella nostra relazione, se lei avesse deciso una volta per tutte di lasciare quel rincoglionito del suo ragazzo pilota.
Ciò che scoprii in quello stesso periodo fu che, al contrario, spesso si avverte maggior vicinanza proprio in prossimità dell'incombente momento dell'addio definitivo.
Ma quali discorsi? Non mi diede neanche il tempo di buttare giù le prime righe.
Una notte di fine agosto andammo a fare sentimento di fronte alla linea del sole che non tramontava mai all'orizzonte, imperterrito nell'infuocare le alte guglie delle chiese del centro storico visibili dal parco della Skinnarviksberget.
Acquattati stretti stretti sotto una coperta di pile, ma con una birra ghiacciata in mano, Annachiara mi informò: – Riccardo mi ha proposto di sposarci – così, bell'e buono.
Sentii il corpo perdere gradualmente ogni tacca di calore. La mia pelle divenne fredda come il vetro della bottiglia che tenevo in mano. Balbettai: – Come hai detto, scusa?
Lei mi guardò con degli impassibili occhi nocciola che, illuminati dai fiochi raggi del sole di mezzanotte, pareva lampeggiassero di pagliuzze dorate attorno alla larga pupilla. Era un'adorabile e spietata androide, pronta a farmi a fette il cuore e lo spirito senza pietà.
– Gli ho detto di sì – aggiunse schietta, priva di alcuna inflessione emotiva che le attraversasse gli occhi o la voce.
Cercai di acciuffare pensieri e memorie che avevano preso a corrermi con frenesia in testa, a velocità allucinante, come quando si sta per morire e si vedono sfrecciare tutti i frammenti della propria vita davanti. Presi una parola da qui, un'altra da lì, cercai di metterle in fila ma mi sembrava che non assumessero mai alcun senso compiuto.
Non so come riuscii a comporre una breve richiesta di chiarimenti, in uno slancio disperato: – Ma scusa... perché?
Assunse l'espressione contratta di qualcuno che non si sarebbe mai aspettato quella domanda, come se si sentisse costretta a spiegare un'ovvietà e io fossi in torto marcio anche solo a pensare di elaborare un quesito simile: – Ovviamente perché lo amo, Filì – sbottò.
Poi, però, dovette leggere qualcosa nel mio sguardo che la colpì. O chissà cos'altro le passò per la testa. Prese una lunga boccata d'aria gelida che sembrò aiutarla a ritrovare un briciolo di empatia, per me e per sé stessa.
– Non capirò mai l'amore e i suoi limiti. Né il bisogno di fossilizzare i propri sentimenti in maniera esclusiva su una persona sola, però è quello che siamo chiamati a fare quando diventiamo adulti e raggiungiamo una certa tappa della vita. Credo di essere giunta a quel momento della mia esistenza, anche se ho cercato di ritardarlo il più possibile.
Parlava ancora in modo troppo enigmatico per poterla seguire fino in fondo, ma mi arrivò forte e chiaro il messaggio che lei la sua scelta l'aveva finalmente fatta.
E non era ricaduta su di me.
A quel punto non furono più solo i flashback della nostra storia a passarmi davanti agli occhi come un film, ma anche quelli del burrascoso passato con Erica ed Elena.
Un'ammesca francesca di delusioni, abbandoni, risentimenti, incomprensioni, solitudine, perdita di appetito e nottate intere a piangere e perdere il sonno.
Era un circolo.
Tornava sempre a trovarmi, prima o poi, quella sensazione di sconfitta. Il non essere mai "scelto" da nessuna.
Realizzai di essere esattamente come il soldato di Samarcanda: ogni volta saltavo sul cavallo e correvo, correvo, correvo all'impazzata, convinto di riuscire a sfuggire alla morte dell'amore in cui mi crogiolavo come un povero illuso. Invece la falce arrivava, infine arrivava sempre, inesorabile, e scoprivo di essere stato proprio io stesso a correre verso di essa per tutto il tempo, ingannandomi di essermene allontanato il più possibile.
Avvertii la collina di Zinkensdamm sgretolarsi in una valanga di pixel come se fossimo in Minecraft, mentre il mio cuore cadeva perpendicolare a tutte quelle rovine, dritto nelle acque ghiacciate del Mälaren. Raccolsi le ultime forze rimaste in corpo per trovare il coraggio di chiedere ancora, pur conoscendo già la risposta: – E ora...?
Allora mi rivolse un ultimo sguardo dolce e sorrise; strinse una mia mano tra le sue e solo così potei intercettare un tremolio teso, quasi di collera, ma controllato con grande maestria: – Ora andremo avanti con le nostre vite, ognuno per la sua strada. Tu sei meraviglioso, Lillo, e ti ringrazio di aver avuto così tanta pazienza con me. È stato davvero bello finché è durato – lo disse con lo stesso tono di una maestra che spiega ai suoi bambini perché non possono restare all'asilo per sempre – Se ci fossimo incontrati in altre circostanze, forse sarebbe andata a finire diversamente.
Quell'ultima frase mi risuonò nel cervello per giorni, nel vano tentativo di trovarvi un senso, con il sentore che fosse solo lo strascico lamentoso di un vecchio disco rotto.
L'avevo già sentita quella scusa.
Però lei non aveva certo una rivoluzione da combattere come Gulê, o il peso delle proprie ambizioni che si scontravano con le mie cazzate, come Elena.
Di quali altre "circostanze" stava parlando?
Solo molto tempo dopo, per vie traverse, venni a conoscenza del fatto che, in quel momento, lei e il suo fidanzato stracornuto aspettavano un figlio già da qualche mese.
I lost my backbone somewhere in Stockholm, come AVICII.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top