Track XXVII - 'Na storia e 'na sera


La solidarietà e l'empatia sono emozioni incredibilmente sottovalutate nella società contemporanea. Eppure, senza di esse, l'essere umano non avrebbe potuto svilupparsi per millenni fino ai giorni nostri.

Se penso a tutte le persone che sono state innamorate prima di me, nello spazio e nel tempo, mi viene il mal di testa. Ma, parimenti, è rincuorante il pensiero che tutti (proprio tutti!) ci siano passati così come ci sono passato anch'io; e che, nonostante il dolore atroce che si prova quando le storie finiscono male, si sopravvive.

E tutti possono capire.

I patemi amorosi che ci accomunavano in quel momento, come scoprii più tardi, spinsero me ed Erica a comportarci come grandi amiconi a dispetto del malo modo in cui ci eravamo lasciati tre anni prima.

Credo sia umano.

Per quanto me ne meravigliai io stesso mentre accadeva, non opposi alcuna resistenza dovuta al rancore o all'orgoglio.

Finimmo seduti, due birre in mano, sul muretto della grossa rampa d'ingresso all'OPG; a parlare senza sosta per ore. Ognuno di noi era, teoricamente, venuto con il proprio gruppo di amici; ma questi si erano tutti sciolti nella folla come se non fossero mai esistiti.

Parlammo, parlammo e parlammo senza sputà n'attimo 'nterra, come se avessimo aspettato quel momento per troppo tempo e le cose da dirci erano diventate così tante da doverle recuperare tutte il più presto possibile.

Il primo mistero da risolvere era come mai lei, una figlia dell'alta nobiltà di Napoli, quella sera si trovasse in mezzo al popolano pubblico di un evento di musica elettronica africana in un centro sociale occupato di Materdei.

– Il mio ex fa il volontario qui, alla palestra popolare – chiarì, e i suoi zigomi spigolosi si colorarono, forse perché contrariata dal pensiero di lui e della fine della loro storia – Mi ha lasciata due mesi fa. Speravo di beccarlo stasera ma, purtroppo, mi hanno detto che non c'è – abbassò gli occhi sul motorino che sfrecciava in quel momento lungo la strada sotto di noi – Me ne stavo per andare quando ci siamo scontrati.

Ma dai, non mi dire... Che coincidenze.

– Anche la mia ex faceva la volontaria qui prima di andare a studiare al nord – constatai, tracciando le prime similitudini e affinità tra i nostri sentimenti di quella notte – E anche Teresa... l'ho persa nella folla, ma ci sono anche lei e Carmine qui da qualche parte.

Erica sospirò laconica, e si cacciò giù per la gola un sorso dell'Heineken che si stava facendo troppo calda. Lei non era mai riuscita a legare con Teresa, al contrario di Elena.

– Eri venuto anche tu a cercarla? – domandò, una scintilla di curiosità le illuminò i grandi occhi scuri.

Era la domanda che avrei dovuto fare a me stesso prima di uscire di casa.

D'istinto risposi: – No. Cioè... sto con un'altra adesso – ma mi chiesi subito se quella fosse una ragione sufficiente per convincermi di non essere andato lì alla ricerca di Elena.

Forse non esattamente di lei come persona. Più che altro, alla ricerca di lei come ricordo.

Di certo alla ricerca dello spettro onnipresente dei suoi occhi cristallini che si aprono sul letto accanto a me e si accorgono di avermi sbavato sul pigiama, la mattina di quel giovedì che non aveva sentito la sveglia ed era in ritardo di mezz'ora in bottega. O di quella sera che fummo costretti a tornare a casa a piedi dal concerto di Caparezza al Palapartenope, perché il bus notturno non passò mai. Oppure di quel lunedì che scoppiò la caffettiera in cui dimenticammo di mettere l'acqua, abbandonata sul fuoco mentre ci eravamo rifiondati a letto in preda ai frequenti attacchi di passione mattutina.

– Mi sa che stai con tutt'e due, nella tua testa – l'acuta osservazione di Erica comportò il mio brusco ritorno alla realtà dai nostalgici viaggi nel tempo che stavo attraversando con il pensiero.

Come darle torto?

Quel sentimento disperato per due ragazze con cui non potevo condividere la quotidianità, come farebbe una coppia qualsiasi, mi stava facendo campare di storie d'amore che esistevano solo nei miei ricordi. E, nella memoria, il tempo si mescolava senza soluzione di continuità: potevo essere, al tempo stesso, sul letto con Annachiara a Tokyo nel 2019 e con Elena sul prato della Floridiana nel 2016.

Farmi psicanalizzare dalla mia ex più odiata non era poi così male. La relazione col ragazzo dell'OPG l'aveva senza dubbio cambiata molto, in meglio.

Infatti si leccò le labbra con un po' di nervosismo, poi mi guardò dritto negli occhi e disse: – Senti, mi dispiace tantissimo per come ti ho trattato quando stavamo insieme – si sistemò, con timidezza e rammarico, una ciocca bruna meshata dietro l'orecchio – Ti meritavi molto di meglio. Io ero troppo piccola e stupida per capirlo.

Rimasi di pietra.

Non tanto per quelle scuse, sincerissime, pronunciate così inaspettatamente dalla persona da cui meno me le sarei mai aspettate. Quanto più per il fatto che sentivo davvero di meritarmele, un sentimento che mi coglieva molto di rado.

– Grazie... – biascicai con voce fitta di stupore.

Ma non seppi come continuare, oltre al rapido accordare il suggellamento di quell'amnistia con un colpo di tosse.

Lei mi tolse dall'imbarazzo di trovare le parole adatte, tornò a scherzare per cambiare discorso: – Comunque non è giusto che ti stai facendo sempre più bello! Proprio vero che gli uomini invecchiano meglio – stese un grosso sorriso e mi tirò un'affettuosa pacca sulla spalla.

– Eh, "vecchio" mo! Teniamo ventuno anni! – rimbeccai, finsi di non reggere il gioco.

Finimmo a raccontarci di tutti i viaggi che avevamo fatto in quegli anni, di Carmine che si era trovato la fidanzata giapponese, di lei che avrebbe ereditato il prestigioso studio notarile del padre pur non avendone molta voglia.

Le svariate bottiglie che ci eravamo scolati cominciarono a dare i loro effetti e mi montò la paura di farmi sfuggire troppo dalle confessioni accorate che ci stavamo facendo. Dovevo fare attenzione a non nominare Annachiara, LIBERATO, il 9 di maggio, e il perché fossi stato proprio a Torino, Milano, Barcellona.

Ma la verità è che non vi può essere certezza del fatto che continuammo a parlare tanto più a lungo di quanto io ricordi. Perché, dopo un momentaneo vuoto, mi ritrovai a baciarla sotto le coperte del suo letto già mezzi svestiti.

Fu incredibile provare di nuovo, dopo un botto di tempo, l'ebbrezza di fare del sesso senza essere troppo coinvolto sentimentalmente dall'altra persona. Scopammo come farebbero due sconosciuti che si conoscono a una festa, si piacciono, e finiscono a consumare quell'attrazione fisica sapendo che non si trasformerà mai in legame amoroso.

Mi sentii leggero e spensierato come un tredicenne.

Erica, in uno slancio di generosità di cui non l'avrei mai creduta capace, mi concesse di prendermi tutto il piacere della carne senza doverne pagare le conseguenze emotive. Si mosse con dedizione e attenzione, come un'umile devota che serve il suo santo patrono.

Mi sorprese soprattutto la lucida realizzazione che i baci che ci davamo non significassero niente per me, erano solo un modo in più per stimolare la nostra voglia.

Solo quando il suo corpo lampadato si accasciò di fianco a me, ansimante e soddisfatto, ai primi bagliori violacei dell'alba che sgomitavano dalle tapparelle socchiuse, mi resi conto che Erica non fosse davvero un'estranea.

Uh, marò, e che cumbinaje?

Dovevo assolutamente accertarmi che quanto appena accaduto avesse, per lei, lo stesso significato che aveva per me.

– Chest'è 'na storia e 'na sera – ribadii, forse con tono più brusco di quanto non fosse necessario – Ricù, questa notte è figlia unica... sì?

***

Lo fu davvero.

Ci aiutammo a stare meglio per qualche ora, poiché i nostri cuori avvertirono la sofferenza comune l'uno dell'altro, ma non cademmo nell'errore di fingere che tra noi due ci fosse ancora qualcosa.

La vicenda sconvolse sia Carmine che Teresa, quando glielo raccontai per giustificare la mia sparizione dalla serata dell'OPG. Ma non me.

Fu una roba così naturale e spontanea che mi lasciò un ricordo dall'insospettabile retrogusto tenero; come se fosse il finale a sorpresa per la nostra travagliata storia adolescenziale, scritto da un autore particolarmente ottimista.

Il resto del mese passò veloce, troppo, soprattutto a causa del lavoro, quando iniziammo a definire i termini per la colonna sonora che Francesco mi commissionò per il suo primo lungometraggio su Netflix. In più, stavamo preparando la mia partecipazione al Rock in Roma del mese successivo.

Per tutto quel tempo vidi Annachiara solo in videochiamata su WhatsApp, sporadicamente.

Chissà come, mi ritrovai nell'imbarazzo di non sapere se dirle o meno della mia scappatella con Erica.

Perché avrei dovuto dirglielo? O meglio, perché avrei dovuto nasconderglielo? Non riuscivo a capire se avessi tradito lei, Elena, o nessuna delle due. Non mi era chiaro neanche perché mai provassi quella sensazione di colpevolezza.

Ma ci pensarono il concerto alle Capannelle e la sessione estiva a drenarmi di tutte le energie necessarie a capire i miei stati d'animo e i miei obblighi da pseudo-fidanzato. Il punto più alto dell'estate 2019 fu seguire in diretta TV la crisi di governo e veder volare pesci in faccia e paroloni contro l'allora ministro degli interni, nel pomposo scenario del parlamento. Il che dovrebbe bastare a rendere l'idea di che genere di stagione fu, tanto per me quanto per il resto del Paese.

Non ebbi nemmeno il tempo di una breve vacanza. E neanche di passare l'estate con i miei migliori amici, come avevo programmato di fare mo che finalmente potevamo uscire di nuovo tutti insieme.

In effetti non rividi Carmine per parecchio. Sparì in modo stranamente graduale, quasi senza che me ne riuscissi ad accorgere, complice il già poco tempo che avevo da dedicargli. Anzi, devo aver pensato che fosse proprio per rispetto dei miei impegni lavorativi che lui aveva iniziato a chiamarmi sempre meno.

Fu solo quando trovai sua madre a parlottare con la mia in cucina, con tono drammatico e facce visibilmente abbattute, che iniziai a sentire puzza di nuove tarantelle.

Beccandomi in uno dei rari pomeriggi in cui non ero a casa solo di passaggio, le due mi chiamarono per sedermi al tavolo con loro.

– Io pensavo che Nelluccio uscisse con te tutte 'ste notti che non torna mai a casa. Invece, tua madre mi sta dicendo che tu sei troppo impegnato col lavoro in questo periodo – menzionò la signora Clelia, con la voce rotta.

Annuii, anche se dubbioso su quanto e cosa esternare.

– Infatti – confermai – Sono già diverse settimane che non vedo Carmine.

Una pesante apprensione iniziò a premermi sullo sterno.

– Non è più lo stesso da quando Zukka se n'è andata. Si sentono a tutte le ore del giorno e della notte, ma non gli basta mai. Sta sempre nervoso e depresso – continuò Clelia, gli occhi stanchi e lucidi fissavano l'unghia irrequieta impegnata a grattare un punto già strappato della tovaglia di plastica.

Mamma mi squadrò con aria indagatrice e aggiunse: – Tu sei sicuro che non ne sai niente? Non gli puoi parla' tu?

Mi sentii offeso. Sia dal loro vago insinuare che non mi occupassi a dovere del mio migliore amico, quanto pure dal fatto che, quello stesso migliore amico, mi stesse tenendo all'oscuro di qualcosa per cui valeva la pena preoccuparsi.

Oppure forse era solo il solito Carmine, l'eroe romantico che si schiattava tutto in corpo e soffriva in silenzio.

– Ovvio – assicurai, colpito nell'orgoglio – Ci penso io.

Senza aggiungere altro uscii di casa per direttissima, come se sapessi già dove andare e a fare cosa.

Visto che era tutta scena e, in realtà, non sapevo un cazzo, presi a chiamare insistentemente il numero di Carmine, senza però nessun riscontro. Anzi, ebbi la chiara sensazione che la telefonata venisse deviata di proposito.

Mi innervosii ancora di più.

Invocai Teresa.

Lei rispose subito, ma disse di non saperne niente. Poi riattaccò in fretta perché era in fila per un esame.

Vagai per un po' senza meta su via Caracciolo, nella speranza che le mie venti chiamate perse lanciassero a Carmine il furente messaggio che volevo parlargli. Tuttavia, per il momento in cui i miei piedi raggiunsero piazza Sannazzaro, più di tre quarti d'ora dopo, lui non l'aveva ancora fatto.

Ma non ce ne fu più bisogno.

Nella penombra del tramonto lo vidi sfrecciare sul suo inconfondibile motorino rosso con lo stencil di Maradona proprio davanti ai miei occhi, infilandosi nella galleria in direzione Fuorigrotta.

Non gli urlai appresso, non me ne diede neanche il tempo. Mi lanciai, piuttosto, a correre verso la stazione di Mergellina per menarmi dentro al primo treno diretto ai Campi Flegrei.

Arrivato a piazzale Tecchio, nessuna traccia di Carmine. Passai per dietro allo stadio, in via Claudio, ma ancora niente. Allora scesi a prendere la cumana, raggiunsi persino Bagnoli. Pure lì, nessun vagabondaggio solitario di Carmine sul Pontile Nord. Mi spinsi fino ad Agnano per controllare se fosse andato a trovare sua zia, ma nessuna traccia di lui o della sua vespa sotto al condominio.

Poi mi venne in mente.

Quel losco garage dove eravamo stati a giocare a Poker con Yousef, un sacco di anni prima. Era ovvio, non so come avevo fatto a non pensarci prima.

Tornando indietro verso piazza Leopardi mi ripromisi di spendere meno in viaggi per rincorrere Annachiara e investire, piuttosto, in un cazzo di mezzo di trasporto. Ormai potevo aspirare perfino a una bella moto giapponese.

Come sospettato: scovai Carmine proprio in quella bettola di Rione Cavalleggeri. E sbiancò come un cadavere appena mi vide entrare dal grosso portone in lamiera blu.

Non saprei dire se si aspettasse che gli facessi la paternale o se credesse addirittura che avessi intenzione di trascinarlo fuori per vatterlo. Chissà cosa si era immaginato nella sua testa.

Io, chiaramente, non feci niente di tutto questo.

Mi sedetti di fianco a lui allo stesso tavolo, in perfetto silenzio, e mi unii alla partita che stava per cominciare. La sbancai, perché si sa che per essere fortunato nel gioco bisogna essere sfortunato in amore. Mentre raccoglievo le fiches lui allungò una mano e mi afferrò il braccio con un po' di titubanza, per farmi segno di accompagnarlo fuori.

In cortile, davanti ai colorati graffiti dell'ingresso, rollò velocemente una canna e me la passò. Mi fissò con aria colpevole, temporeggiò, finché non tirò un lungo sospiro quando si rese conto che non avrei detto nulla se prima non avesse iniziato a parlare lui.

– Fra', io non posso vivere lontano da lei – spiegò, con voce sincera e concitata – Mi sembra come se mi mancasse l'aria.

Io annuii, senza spezzare il mio rispettoso mutismo, solo per mostrargli la mia comprensione.

– Mi ha detto che non ha intenzione di venire a vivere in Italia e io la capisco... perché è vero che il Giappone sta inguaiato, ma sicuramente, per certi versi, lo siamo ancora di più noi – continuò – Quindi mi servono tanti soldi se voglio tornare da lei, però già sai quanto mi danno in pizzeria...

Il pensiero del suo misero stipendio gli strozzò la boccata di fumo in gola. Tossì e tornò a guardarmi con gli occhi umidi, forse per l'intorzamento, se non per la tristezza: – Allora ho avuto 'sta brillante idea di venirmi a sfottere i già pochi soldi che tengo 'inta sacc' ccà dint a 'stu cess.

Stava per tirare ancora, ma poi non lo fece e aggiunse a bruciapelo: – E mo stong chin'e debit'.

– Uà, 'o frat', putiv ij a rubba' – reagii con mite stupore, gli rubai lo spinello dalle dita come per infliggergli una blanda punizione.

A quel punto, ormai, non mi sorprendeva più così tanto la piega che avevano preso le cose.

– Quanti soldi devi e a chi?

Smise di comunicare per svariati minuti e io non insistetti, perché sapevo che non aveva altra scelta che cedere. Infatti, dopo qualche volo pindarico, me lo rivelò.

Meglio evitare di scendere nei dettagli, per buona creanza, e anche perché si trattava di una persona che conoscevo bene per via del mio vecchio giro. Mantenni la calma, forse coadiuvato dall'erba buona. Lo abbracciai e annunciai senza batter ciglio: – Stai coperto, Nellu'. Mo a 'sto fatto ci penso io.

Mi aspettavo già che, per orgoglio, avrebbe preso a fare un sacco di storie e, difatti, si mostrò disturbato da tutti i soldi che avevo già uscito per lui e dall'ingerenza nei guai in cui si era cacciato per idiozia personale.

Capivo perfettamente che fosse un orrido mix di emozioni quello che stava provando. C'ero passato anch'io anni prima.

C'era la sensazione pervasiva di fallimento, perché viveva una condizione di lavoro miserabile da cui sarebbe stato impossibile fare level-up. Una situazione che non può che generare la più abissale spirale di impotenza.

Poi la vergogna per la fossa che si era scavato stupidamente da solo, nel vano tentativo di sfuggire a quella stessa miseria.

Infine la gratitudine, per il fatto di poter godere almeno dell'amicizia di qualcuno che gli avrebbe parato il culo sempre e comunque, senza se e senza ma. Quello sì che è un lusso che non appartiene in esclusiva a nessuna classe, perché non si può comprare. In pochissimi, purtroppo, possono vantarsi di avere almeno quel privilegio nonostante la povertà.

– A riportarti da lei ci pensiamo io e Annachiara, ok? – lo persuasi, anche se ancora non sapevo bene cosa avremmo potuto inventarci – Tu non devi fare più niente.

Lui mi trascinò in un angolo scuro, lontano dai gruppetti in pausa dal gioco fuori al locale che fumavano e bevevano. E lì, nel buio di quell'anfratto di cortile, assicurandosi di essere coperto dalla palma di una grossa aiuola, si concesse di piangere come un bambino sulla mia spalla.

***

Incontrai Annachiara qualche giorno più tardi, a Venezia.

Ridemmo e scherzammo come se non fossimo stati lontani per mesi, ma scopammo come se non ci fossimo visti per anni.

Avevo quasi dimenticato (come avevo potuto!) la foga con cui vagliava il mio corpo con la sua bocca come se fosse un orso alle prese col primo succoso salmone della stagione, dopo il lungo inverno di letargo.

Quando infine fummo soddisfatti entrambi, dopo ore di arrevogliamento incessante che metteva a dura prova i letti cigolanti degli improbabili ostelli di periferia che ci accoglievano, tra un bacio e l'altro le esposi i problemi di Carmine.

Lei sembrò molto colpita dalla situazione. Disse che, quando aveva conosciuto Shizuka alla sua festa d'addio, era rimasta folgorata dalla relazione che avevano costruito lei e Carmine in così poco tempo, abbattendo qualsiasi barriera culturale e linguistica perché sembravano fatti l'uno per l'altra.

– Ho tanti amici nel Kansai, il padre di uno di loro è il proprietario di un noto ristorante italiano a Kyoto – ragionò tamburellandosi un dito sulle belle labbra truccate – Dato che Carmine ha esperienza da pizzaiolo e in sala, posso chiedere se gli può servire una mano esperta.

Lo fece già l'indomani mattina, mentre facevamo colazione in uno sfarzoso bar di piazza San Marco di cui finsi mi piacesse il caffè per giustificarne, inconsciamente, il prezzo oltre il limite della decenza.

Il padre del suo amico era un uomo barbuto di mezza età dai modi un po' goffi e rozzi, la cui stazza sfondava i confini dello schermo del cellulare, ma che aveva tutta l'aria di essere un pezzo di pane.

Affermò che lui era costretto a cambiare costantemente il personale del suo locale proprio perché i ragazzi italiani andavano e venivano dal Giappone in continuazione. In pochi si stabilivano nel Paese a lungo termine o, comunque, a lavorare nella ristorazione; quindi gli avrebbe fatto piacere trovare qualcuno con cui costruire un rapporto di lavoro più duraturo. Riuscimmo a fissargli un primo colloquio virtuale con Carmine per una mattina della settimana successiva.

E finalmente, mentre Nelluccio risolveva i suoi problemi d'amore e di lavoro, io cercavo di fare lo stesso coi miei.

La romantica fuga a Venezia mi aveva restituito il buon umore. Tornato a Napoli scoprii che niente meno che 3D dei Massive Attack era stato agganciato da Andrea per affiancarmi nei lavori sulla colonna sonora del film di Francesco.

Conoscere Robert fu uno dei più grandi onori della mia vita, musicale e non. Tuttavia non poté che scatenare in me una piccola crisi da sindrome dell'impostore come, per fortuna, ne avevo sempre meno oramai. Riuscii a tenerla a bada quel tanto che bastava per conviverci senza farmici inglobare dentro.

Il fatto che sempre più gente credesse in me e nella mia professionalità mi sembrava stesse facendo, alla buon'ora, opera di convincimento su quel miscredente del mio subconscio. Mi sentivo stranamente positivo e ottimista, due emozioni del tutto nuove ed estranee al mio default state. Non sapevo da dove arrivasse quella dopamina, ma di certo non dall'erba che fumavo, perché era sempre la stessa.

Per la fine del 2019 mi misi a sognare dei festeggiamenti grandiosi degni dell'anno appena passato, con tutta la cricca riunita per riprenderci da tutto quel tempo in cui non ci eravamo più potuti frequentare al completo.

Invece Carmine se ne tornò a Osaka in fretta e furia a fine novembre, perché pareva che ci fosse un sacco di lavoro ad attenderlo e lui e il signor Maurizio erano diventati subito compagnoni.

– L'anno prossimo ci saranno le Olimpiadi in Giappone! Faticheremo come pazzi e io sarò il responsabile di sala – preannunciò con gli occhi pieni di gioia, quella piovosa mattina che andammo a salutarlo in aeroporto.

Clelia era distrutta, ma io e Teresa non potevamo essere più orgogliosi di lui.

Anche dopo che Zukka se ne era tornata in Giappone, il nostro amico aveva continuato a studiare giapponese come un forsennato, imbucandosi alle lezioni caotiche e affollatissime dell'Orientale. Non sapeva ancora scrivere o leggere bene ma nel parlato era fluente abbastanza da poter servire i clienti in pizzeria, e aveva già fatto molta pratica coi turisti giapponesi a via dei Tribunali.

Ci aveva lasciati di nuovo da soli, quindi, e noi restammo in città a festeggiare il capodanno con quei chiattilli dei colleghi universitari di Teresa e Angelica, a casa di uno di loro in via Scarlatti. Io li appellavo come la pagina Facebook Vomeresi e altri infami, ma lei si imbarazzava quando lo facevo. Non erano antipatici, solo incredibilmente alienati dalla realtà e privilegiati da far schifo. Anche lei detestava tutta quella roba lì ma, dato che era costretta ad averci a che fare ogni giorno, ormai si era un po' assuefatta ai loro modi asettici e naive.

Il ciclo dell'anno ricominciò da capo e venne di nuovo San Valentino, che non sembrava voler smettere di darmi più soddisfazioni professionali che romantiche. Uscì quel giorno il singolo We come from Napoli, che preannunciava il rilascio del film di Francesco su Netflix il mese successivo e che mi incoronò re napoletano delle collaborazioni internazionali più bucchinare della storia della musica elettronica.

Un venerdì sera della fine di quel lento febbraio, quando finalmente potei concedermi un po' di riposo, stavo guardando la TV affossato dentro al divano come se fosse il mio unico porto sicuro, ignorando il fatto che lo sarebbe stato davvero per molti mesi a venire.

Volente o nolente.

Su La7 c'era il conduttore di Propaganda Live che si stava facendo afferrare per pazzo perché temeva di essersi preso un virus mortale che, pareva, venisse dalla Cina.




Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top