Track XXVI - Graziocazz'
Durante la prima settimana di ritorno a Napoli, parenti e amici presero a fare le processioni non-stop a casa di Carmine. Tutti volevano conoscere la stramba tipa straniera che, senza alcun preavviso, si era portato a casa dal Giappone.
Non si poteva certo dire che Clelia, la madre di Nelluccio, avesse particolarmente apprezzato la sorpresina. Anzi, in un primo momento mi odiò con tutta l'anima perché ero il principale colpevole di averle trasportato il figlio fino in Giappone e, per giunta, di non averlo fermato dalla pazzia di tornarsene a casa con una forestiera sconosciuta.
Tuttavia le bastarono pochi giorni per convincersi della bontà della cosa, alla vista del figlio così incredibilmente felice, imparando anche a conoscere e apprezzare la simpatia di Shizuka pian piano.
Quest'ultima in Italia prese subito il nome di "Zukka", affibbiatole proprio dalla signora Clelia, che non riusciva a memorizzare come si chiamasse la ragazza neanche segnandoselo sul palmo della mano. Il nuovo soprannome era certamente più facile da ricordare, considerati anche i suoi brillanti capelli arancioni.
Lei stessa la prese benissimo. Anzi, ne fu così contenta che aggiornò subito il suo username su tutti i social per allinearsi col nuovo nomignolo italianizzato.
– Shizuka è un nome che ho sempre odiato – puntualizzò storcendo il naso a patata – Significa "tranquilla". Vi sembro una tipa tranquilla io?
Al ricordo di come l'avevamo conosciuta, a suon di bestemmie e botte sulla lamiera di un distributore automatico, e anche alla luce della folle impresa di seguire un estraneo in un Paese dall'altra parte del globo dopo un paio di settimane di frequentazione... no, si poteva affermare con una certa sicurezza che il termine "tranquilla" non la descriveva manco un'antecchia.
– La tranquillità è sopravvalutata, comunque – considerò ancora lei, gli occhi penetranti scrutavano l'orizzonte nuvoloso che sembrava tenere la sagoma scura di Capri sotto assedio come se dovessero parteciparvi con una schiera di invisibili guerrieri.
Pensai che quella constatazione suonasse tanto come qualcosa che avrei potuto sentir uscire a quello stesso modo dalla bocca di Teresa, ma non dissi niente.
– In effetti, avevo sentito storie molto diverse sulle ragazze giapponesi – evidenziai piuttosto, perché l'unica immagine delle donne asiatiche con cui cresce un ragazzino nativo digitale è quella spacciata su YouPorn.
– Non per spararmi la posa da "not like other girls", ma noi giovani siamo molto diverse dalle nostre madri – assicurò lei, con una pennellata di orgoglio e speranza nello sguardo. Per fortuna, dalla sua risposta seria capii che non aveva colto la tristezza della mia reference.
Era sabato pomeriggio e stavamo schiattati a fumare sugli scogli di Mergellina mentre aspettavamo che ci raggiungessero, sissignori, Teresa e Angelica.
Loro non sapevano ancora niente di Zukka, non ci eravamo neanche sentiti nell'ultimo paio di giorni da quando eravamo tornati in Italia. Era stato Carmine stesso a chiedermi il favore di organizzare subito un'uscita insieme a loro, un po' a sorpresa com'era diventato suo stile ultimamente.
A detta sua, non vedeva l'ora di riappacificarsi con Teresa e chiederle scusa per tutto il dramma che le aveva fatto passare. A me sembrò un po' prematuro, ma Carmine e Zukka andavano così veloce che io mi ero un po' perso per strada.
Piuttosto il mio, di tempo, sembrava essere stato forzosamente messo in rallenty da un Dio dispotico e dispettoso, a tal punto da essermi sempre più insopportabile. Non riuscivo ancora del tutto a realizzare con chiarezza il fatto di essermi preso una brutta sbandata per una ragazza più grande, fidanzata, che viveva dall'altra parte del mondo e che non potevo incontrare quasi mai.
Eppure ero ridotto proprio come quel cagnolino giapponese, l'Hachiko speranzoso e sull'attenti, in costante e trepidante attesa di lei: del suo atterraggio ovunque potessimo incrociarci ancora, dei suoi messaggi languidi, delle sue chiamate brevi ma spaccacuore, masochiste e romantiche. Per poi ritrovarmi, di nuovo, con l'agonia che sembrava infinita fino al round successivo di melanconici contatti sfuggenti o a distanza.
Alle 19:30 la vibrazione del cellulare mi riportò alla realtà del trafficato lungomare di Napoli.
Ma era Teresa.
– Terry, dove state? – mi guardai intorno alla sua ricerca.
Lei si lamentò che sugli scogli c'era troppa gente e, nel buio, non riuscivano a scovarmi con lo sguardo. Convenni che sarebbe stato meglio andare a prenderle, così mi alzai e tornai verso la strada all'altezza del consolato degli USA.
Entrambe mi fecero tante feste nel rivedermi, ci annodammo in un lungo abbraccio finché non le avvertii sottovoce, con tono misterioso e trasudante aspettativa: – C'è anche Carmine.
La loro reazione interdetta ma felice mi fece capire che i tempi per chiarire erano già molto più maturi di quanto pensassi. Ma, in uno slancio di preoccupazione, chiesero anche se fosse successo qualcosa. Io risi, un po' incerto su quanto preannunciare senza togliere a tutti il bello della scoperta.
– È successo qualcuno, più che qualcosa! – spoilerai un po', con inflessione leggera ma volutamente enigmatica.
Dallo sguardo di Teresa capii che aveva iniziato a intuire, ma la storia era così tanto più complessa di quanto potesse mai figurarsi che non riuscivo a immaginarmi la faccia che avrebbe fatto dopo aver messo insieme tutti i tasselli, finendo col ritrovarsi i grandi occhi a mandorla di Shizuka davanti.
Feci loro strada attraverso la foresta di scogli, quando ormai era così buio che riuscivo a scorgere ancora la coppietta in lontananza solo grazie al riverbero della luce dei lampioni sui capelli neon di Zukka. Carmine ci vide arrivare e balzò in piedi, venne spedito verso di noi per stringere tra le braccia Teresa come un soldato che è appena tornato dalla guerra.
Lei sprofondò nella più prorompente commozione in un nanosecondo. Lo avviluppò con tutti gli arti che aveva a disposizione, anche con qualche ricciolo ribelle, e pianse copiosi lacrimoni di gioia. Serrò forte gli occhi, poi, quando lui urlò: – Terry, perdonami! Mi sei mancata tantissimo.
Devo ammettere che anche io mi emozionai, perché non c'era niente di cui avevo sentito più la mancanza che dei miei due migliori amici insieme. Vederli singolarmente non era la stessa cosa di quando ci riunivamo nel trio storico e inseparabile che eravamo sempre stati.
Teresa, i polsi impiegati a evitare che il mascara colasse dappertutto, guardò prima me e poi Angelica, infine tornò su Carmine prima di sentenziare: – Non hai niente di cui scusarti.
E sorrise.
Angie si gettò ad abbracciarli entrambi, e il riflesso dei lampioni sui suoi grossi occhiali illuminò anche la curiosità che se la stava divorando: – Allora, si può sapere che succede?
Certo, siparietto strappalacrime a parte, c'era una quinta persona con noi su quegli scogli e si era capito che Carmine aveva novità da raccontare.
Lui si voltò a indicare Shizuka che, nel frattempo, si era alzata in piedi e ci aspettava dove l'avevamo lasciata.
– Vi prego di essere gentili con lei e di parlarle in inglese, perché me la sono appena portata dal Giappone – spiegò, con la voce rotta dalla trepidazione – Si chiama Shizuka ed è la mia ragazza.
Pose grande enfasi su quella definizione, non tanto per suscitare una qualche gelosia nella vecchia fiamma (come altri avrebbero potuto pensare), ma proprio perché lo entusiasmava il poter dichiarare ai quattro venti che Shizuka era "la sua ragazza".
In passato neanche una delle svariate meteore nella vita di Carmine era durata più di due scopate, e non aveva mai definito "la sua ragazza" nessuna di loro. Invece mo, per quanto ne sapessi io, con Shizuka non c'era ancora neanche mai andato a letto, ma era diventata "fidanzata" a pieno titolo senza la minima ombra di esitazione.
Angelica scoppiò a ridere, mentre Teresa finì con la mascella per terra: – Scusa? Che cazzo hai fatto? – volle sapere, con gli occhi di fuori e la faccia esterrefatta – Lillo, gli hai permesso di rapire una povera giapponese indifesa, senza dire niente? – e giù a scompisciarsi pure lei.
Noialtri ci unimmo alle risate, poiché la loro reazione era del tutto coerente con la folle realtà dei fatti: – Uè, siamo tutti colpevoli qui. E Zukka è tutto fuorché indifesa! – ci scagionai, con un sorriso soddisfatto.
Shizuka era entrata nelle nostre vite da pochissimo, come un improvviso temporale estivo, e aveva già meriti che nessun altro era riuscito a ritagliarsi nelle situazioni scombinate in cui noi stessi ci eravamo impelagati. Non solo aveva reso Carmine felice come non lo vedevo da quando avevamo iniziato il liceo, ma mi aveva anche restituito il gruppo di amici che avevo perso dopo quel fatidico capodanno di due anni prima.
Teresa si avvicinò a Zukka quasi con preliminare cautela, ma non ci volle molto prima che le si fiondasse addosso per abbracciarla quando la stessa Shizuka le rivolse un caldo sorriso e aprì le braccia per incoraggiarla. Carmine doveva averle già spiegato la situazione da cui stavano uscendo.
– Benvenuta! – strillò, e la strinse forte al petto come se conoscesse anche lei fin dall'infanzia. La inglobò al punto da non riuscire più a distinguere dove iniziava l'una e finiva l'altra, dato che Terry era alta almeno venti centimetri più della nuova arrivata.
Tuttavia notai che la mise subito alla prova, forse perché quella giapponese non sembrerebbe essere una società nota per progressismo e inclusività. Richiamò a sé la sua ragazza per presentarsi: – Io sono Teresa e lei è la mia fidanzata, Angelica.
Zukka non fece una piega, continuò a sorridere con affetto a entrambe: – Sono veramente felice di conoscervi!
Passammo il resto della serata a chiacchierare e bere sulla scogliera fino a tardi, dando un bel battesimo di fuoco a Shizuka su che tipacce "poco raccomandabili" fossero le nostre migliori amiche. Solo qualche giorno prima, infatti, Teresa aveva ricevuto una specie di diffida temporanea dalla procura dopo aver quasi fatto lo strascino a una dei carabinieri accorsi per sedare una lite scoppiata all'ufficio immigrazione, dove lei era impegnata ad assistere dei richiedenti asilo.
– Gli anni passano, ma sei ancora pienamente degna del nickname "Terror"! – commentai io, rivangando uno dei nomignoli che le affibbiavamo io e Carmine da piccoli, quando faceva ampio uso del terrorismo psicologico per farci rigare dritto con lo studio – La donna di Legge che c'è in te che ne dice?
Lei levò un enfatico pugno alle stelle: – Lo sai, bisogna conoscere bene il nemico per poterlo piegare e distruggere.
– Terry, non ti fare arrestare prima di aiutarmi a sbrigare pure le nostre carte, eh, che mo anche la guagliona mia è un'extracomunitaria! – irruppe Carmine, con un velo di serietà e preoccupazione nel tono di voce. Ma poi sogghignò e le diede un pacchero sulla nuca; si complimentò per la prode impresa contro le guardie.
Lasciammo che il ritrovato stato di grazia ci trascinasse negli immancabili vaneggiamenti notturni da ubriachi per ore, cullati dalle onde placide del golfo e da ampi sorsi di liquori economici.
Avrei detto "ricomincio da tre", ma oramai eravamo in cinque.
***
Finalmente, da quel giorno in poi, la ripresa dei loro classici rapporti fu una leggera e rapida discesa. L'unico che non se ne vedeva bene nella nostra fiorente vita da adulti credevo di essere proprio io.
Perché non riuscivo a scacciare il pensiero che, se quel bel quadretto si fosse formato mentre stavo ancora con Elena, allora sì che tutto sarebbe stato perfetto. Avrei avuto una carriera musicale di successo, il mio gruppo di amici unito che si allargava accogliendo altre belle persone, la ragazza dei miei sogni al mio fianco e sempre più soldi sul conto in banca.
Invece mo stavo a guardare gli altri che si sistemavano, mentre io ero rimasto l'unico stronzo a rincorrere delle donne che mi sfuggivano costantemente dalle dita.
E quanto mi venivano a costare quelle tarantelle!
Annachiara mi contattava solo quando non faceva scalo a Napoli o, comunque, quando non lo faceva in concomitanza al suo fidanzato pilota. Io, puntualmente, cercavo di raggiungerla ovunque per quanto mi fosse possibile.
Eh, già, inutile negare le evidenze. Ero finito così tanto con le mutande in testa da decidere consapevolmente di frequentare una ragazza più grande e fidanzata da anni, nella speranza che (chissà quando) decidesse di lasciare quell'altro testa di cazzo per accasarsi con la mia, di testa di cazzo.
È dura, tante volte, constatare a mente lucida le follie fatte dietro la spinta dell'esasperazione.
Però amavo Annachiara.
Davvero, in una maniera del tutto nuova rispetto alle mie precedenti passioni.
Della nostra relazione mi piaceva proprio il sentirmi "quello piccolo", quello che pende dalle sue labbra quando lei racconta di mondi lontani e sconosciuti, quello con cui si esce in gran segreto, quello che è paziente, comprensivo, ingenuo. Quello che, però, è l'unico capace di farla venire anche più volte nella stessa notte. Quello che lei guarda con gli occhi affamati.
Per questo non sarebbe giusto se si dicesse che io sia stato una sua vittima. L'ho inseguita perché volevo farlo.
Qualche volta, addirittura, riuscivo persino a strappare a lei lo scettro della persona "di mondo", in special modo quando ci addentravamo in quelli che erano tradizionalmente i "miei" territori.
Come durante il weekend che passammo ad Amsterdam. Quando mi rivelò di non aver mai fumato una sigaretta in vita sua, men che meno erba, e la presi in giro per mezza giornata. Poi la considerai una challenge accepted.
– Ma io non voglio iniziare a drogarmi! – protestò lei sbuffando, mentre la conducevo spedito tra i vicoletti del quartiere ovest alla ricerca di un Coffee Shop economico.
– Troppo tardi, Annare', ti ho già vista bere caffè e alcol! – rimbeccai, svelando le contraddizioni dei suoi preconcetti acquisiti – Cosa significa per te "drogarsi", eh? Lo capisci che l'unica differenza tra le sostanze la fanno i quadri legislativi e gli accordi con le mafie?
– Lo sai bene cosa intendo dire! Parlo delle dipendenze – sbottò seria, l'intensità della stretta della sua mano sulla mia aumentò, come monito.
La guardai fisso nei begli occhi di cioccolato, e sfoderai il mio sorriso più rassicurante: – Teso', ma infatti mica te faccio fa' a eroina! Ti fidi di me?
Le sue iridi sfumate come un buon whisky mi trafissero il cervello da parte a parte. Annuì: – Qualcosa di leggero però – si raccomandò.
E, nelle intenzioni, volevo anche accontentarla; solo che sbagliai a calibrare le dosi di hashish sulla mia tolleranza invece che sulla sua (praticamente inesistente).
Seduti sotto a un grosso albero sul prato di fronte al canale che costeggiava il Westerpark, fu un'esperienza al limite dell'erotico iniziarla alle sostanze rilassanti col bonghetto che avevo comprato apposta per insegnarle a tirare il fumo, come avevo imparato in Turchia con lo shisha dei miei compagni di corso. Ma bastarono dieci minuti per vederla cadere in un trip molto più pesante di quanto avessi programmato. Per fortuna era indica, il che rese tutto più divertente.
– Andiamo a prenderci un waffle? – propose con entusiasmo, appena fu colta da un attacco di gola improvvisa.
Mi accorsi che era entrata nel pieno dell'effetto nel momento in cui mi fece quella stessa domanda per la terza volta, a distanza di pochi minuti, e già eravamo per strada verso il centro città.
– Non riesco più a distinguere quello che dico ad alta voce da quello che penso! – realizzò quando glielo feci notare – Mi sento la testa così lenta... Aspe', ma quella donna in bicicletta non è già la seconda volta che ci passa davanti?
Può prendere così, le prime volte. Un'esperienza simile al venire piazzati davanti a una pellicola trasmessa a rallentatore per un po', finché la botta iniziale non si placa.
Eppure facemmo del gran sesso anche quella notte, forse proprio grazie all'avvolgente sensazione di relax e comunione con l'universo che sopraggiunse qualche ora dopo, che rese il suo corpo caldo e morbido come il waffle che avevamo consumato per fame chimica.
Gli unici a sapere di noi e delle nostre avventure, oltre a Carmine naturalmente, erano Teresa, Andrea, Gennaro e Francesco. In effetti, molta più gente di quella che avrebbe dovuto saperlo secondo Annachiara.
La settimana successiva al viaggio in Olanda venne il giorno di San Valentino, che il destino aveva voluto legare alla mia vita professionale molto più che a quella amorosa (non a torto, tutto sommato), quando festeggiavamo l'anniversario del debutto di LIBERATO su YouTube con il mio team.
Quella sera sfogai proprio con loro la frustrazione della mia nuova passione clandestina, mentre lavoravamo sulla sceneggiatura che Francesco aveva scritto per il film che mi aveva "promesso"; o meglio, per la serie di video a tema Capri che avrebbe realizzato per le nuove canzoni della tracklist del mio primo album.
Il mio primo album.
Ancora non ci credevo.
La cosa più assurda era che avevo la mente talmente tanto altrove da non riuscire a godermi affatto quel momento epico della mia carriera. Come al solito, le mie sofferenze amorose costituivano, al tempo stesso, sia la fonte primaria del mio successo esteriore che quella della mia disfatta interiore.
Mi rabbuiai ulteriormente quando Francesco mi mostrò lo storyboard finale della saga di Capri Rendez-Vous, prima di spostarsi sull'isola e iniziare le riprese la settimana successiva.
– E io non posso neanche venire a fare la bella vita insieme a voi.
Lui rise e si strinse nelle spalle: – A tuo rischio e pericolo, Lillù, lo sai che per noi non ci sono problemi.
Fui tentato, ma rifiutai: – Nah, comunque vado incontro alla mia ragazza che fa scalo a Roma in quei giorni.
La chiamavo "la mia ragazza" per mancanza di alternative. Alle mie orecchie non suonava del tutto come una menzogna, ma neanche come una verità. Forse più come un augurio.
I lunghi vagabondaggi per inseguire gli spostamenti di Anna si andarono presto ad aggiungere alle mie misteriose sparizioni da casa, agli occhi di mamma. Io mettevo tutte le scuse, rigorosamente inventate sul momento, nel calderone "lavoro", perché proprio lei era la persona che, più di tutte, non avrebbe mai dovuto sapere di me e Annachiara. Mia madre conosceva di persona la famiglia di lei tramite amici in comune e, senza dubbio, era a conoscenza del fatto che la loro figlia maggiore fosse residente all'estero e fidanzata da tempo.
Solo una volta, un'unica misera volta, Annachiara si concesse di farsi vedere alla stessa ora e nel medesimo posto in cui mi trovavo anch'io in quel di Napoli, in occasione della festa che organizzammo prima che Shizuka tornasse in Giappone allo scadere dei tre mesi di visto turistico. Ma quasi finse di non conoscermi per tutta la sera.
Si portò dietro anche alcuni suoi ex-colleghi dell'Orientale, con cui la povera Zukka poté finalmente parlare la sua lingua dopo mesi di full immersion nel napoletano.
Era la fine di aprile.
Maggio, quello che ormai era il "mio" mese più a causa di LIBERATO che per il mio compleanno, era alle porte.
A quel punto non avrei saputo dire con precisione se il mio esaurimento fosse più dovuto al lavoro sul primo disco o alla continua e spasmodica ricerca di Annachiara in giro per il mondo. Dopo il nostro primo weekend ad Amsterdam, l'avevo seguita due volte a Roma e poi a Praga, Parigi e Bruxelles. Praticamente ormai prendevo più aerei che R2.
Ciononostante, sapevo bene di non poter sperare nella sua presenza per il mio ventunesimo compleanno. Per questo avevo deciso di evitare qualsiasi festeggiamento, anche se fui travolto dalla festa a sorpresa che mi organizzarono Teresa e Andrea alla casa a mare di quest'ultimo a Maiori.
La sera del 10 maggio 2019 la costiera era una cartolina, forse la solita bellissima cartolina ma, ai miei occhi, in quel momento specifico, sembrò avere dei tratti più nitidi del solito, dei colori più vividi che mai, un'aria più fresca e un mare più cristallino di come li avessi mai visti; sembrava essersi fatta bella per me. Almeno lei.
Il mio team mi celebrava ormai come se fossi una gallina dalle uova d'oro e avevo, infine, guadagnato la compagnia della mia migliore amica a condividere con me quei rari momenti in cui mi sembrava che Filippo e LIBERATO convivessero lucidamente insieme nel mio corpo per qualche ora, prima che la grande star si assopisse e riemergesse solo nei momenti di composizione e performance.
Eppure, non so quelli di LIBERATO, ma i ricordi di Filippo di quella notte si fermano alla bottiglia di vodka che arraffai dalla parete dei drink e mi chiavai liscia in corpo per intero, senza neanche aspettare il momento della torta.
Non avrei mai sospettato che si potesse essere più pericolosi per sé stessi e per gli altri con un terribile hangover che ti macera il cervello, piuttosto che con lo stato d'ebbrezza dei venti minuti seguenti a quando ti sei scolato l'impossibile. Invece, io mi svegliai quella mattina con mente e corpo arrevogliati in una pervasiva combo di delusione, rabbia e capriccio, il cui unico naturale sfogo sembrava la spinta a prendermela con qualcuno il prima possibile.
A farmi scattare la nervatura fu, innanzitutto, il messaggio di auguri di Annachiara. Era un haiku di tre righe meditative sulla lontananza di due amanti e terminava con una firma che mi suonò gelida come la notte che avevo appena passato sul pavimento a piedi scalzi: "Tanti auguri, Filippo. Mi manchi".
Non guardai nemmeno che ora fosse.
Non appena ebbi letto e riletto quel messaggio un numero tale di volte da farmelo sembrare più ridicolo a ogni ripetizione, con il viso che mi bruciava per l'incazzatura suprema premetti sul bottone della cornetta accanto al suo nome su WhatsApp.
Squillava a vuoto. Non rispose.
Mi infuriai ancora di più.
Presi a urlare e sputacchiare sul microfono per registrare un messaggio vocale pieno di kitemmuorti mentre, tra me e me, pensavo che era da tempo che avrei voluto fare la stessa cosa anche con Elena.
Per l'appunto! Anzi, cazzo, lo avrei proprio fatto da lì a poco se non fosse arrivata di corsa Teresa a salvarmi la faccia e la reputazione. Sembrò una provvidenza mandata dal cielo come l'angelo che salvò la pelle a Isacco.
Con i profondi occhi neri ancora assonnati, ma lo sguardo caparbio, mi strappò il telefono dalle mani e cancellò il messaggio. Poi si incatastò il mio cellulare tra le tette, fin dentro al reggiseno, e proclamò solennemente: – Questo per oggi te lo sei giocato. Consideralo un mio secondo regalo di compleanno.
Scoppiai a piangere come un creaturo in un nanosecondo, così, bell'e buono. Un pianto scosso dai fremiti di una furia incontenibile che, però, mi faceva sentire impotente anziché essere motore propulsivo di una reazione di contrasto al mio dolore.
Era un attacco di blackout che non ce l'aveva fatta, rimasto solo in potenza. Anzi, mi si era schiattato in corpo, volente o nolente, un po' per merito dell'intervento di Teresa e un po' per via del tremolio che mi aveva corrotto le mani fino a rendermi incredibilmente difficile tenere fermo il dito sul pulsante dell'interfaccia per registrare.
La mia migliore amica mi cinse con entrambe le braccia, paziente, accarezzandomi i capelli e lasciando che sfogassi tutte le lacrime che avevo da buttare: – "Un altro Lillo è possibile" – scherzò, per strapparmi una risata con la parafrasi di uno dei suoi intramontabili slogan del cuore. Poi aspettò in silenzio che i miei singhiozzi si placassero.
Ma tenne davvero il mio cellulare in ostaggio per tutto il fottuto giorno.
Eppure, forse proprio grazie a quello, passai il resto della giornata in grazia di Dio. Come non mi capitava da secoli.
Nelle ventiquattro ore che dovevano essere le più caotiche dell'anno, con tutti i giornali che parlavano del mio primo disco e conoscenti che mi cercavano per il mio compleanno, io stetti steso sul divano in perenne sorseggio di caffè amaro e freddo, a guardare i vecchi film di Bellavista insieme a mamma che mi coccolava come se avessi di nuovo sei anni.
Quella riduzione di me stesso a un apatico stato larvale nel giorno del mio compleanno stava diventando una tradizione. Che, tutto sommato, mi piaceva; perché era l'unico momento in cui mi si perdonava il fatto di essere un lunatico accollo con tendenze depressive.
A seguito di quella strana terapia d'urto, la mattina dopo mi sentii rinato.
Mi svegliai prestissimo, andai a prendere la colazione a mamma al bar di fronte alla statua di piazza Borsa e contemplai la primavera che era tornata nell'aria tra le urla dei gabbiani e l'odore di salsedine proveniente da via Marina.
Portai la colazione anche a Teresa, buttandola giù dal letto a un orario veramente poco cortese per una domenica mattina, e ripresi possesso del mio telefono anche se mi guardai bene dal riaccenderlo subito.
– C'è un evento all'OPG stasera, vieni con noi? Ci portiamo anche Carmine che sta ancora come una pezza – annunciò lei, la prima tazzina di caffè mandata giù come un cicchetto mentre si versava già la seconda. Spezzò il cornetto crema e amarena in due e mi offrì una delle metà.
Alzai le spalle e risposi un – Ok – molto poco coinvolto, addentando il primo morso di sfoglia.
– Saresti stato molto più impaziente di venire all'OPG se Elena fosse ancora a Napoli, eh? – mi sfruculiò, nel tentativo di smuovere le redini della mia apatia.
Il mio cuore mancò un battito al solo sentir pronunciare quel nome ad alta voce, ma feci finta di niente.
– Sto con Annachiara adesso – risposi seccamente – E, comunque, non capisco il motivo di rivangare Elena dopo così tanto tempo.
– Per una cosa... anzi, perché siete due stupidi – ribatté, la lingua che vagava alla ricerca dalla crema che le si era arenata sul labbro superiore – Ieri sera ci siamo sentite per un fatto del collettivo e lei si è ricordata del tuo compleanno. Mi ha chiesto di farti gli auguri.
Sentii crescermi dentro la stessa collera cieca del mattino precedente, da cui ero stato salvato proprio dalla stessa persona che mi stava davanti anche in quel momento: – Ah, che gentile! E la signorina non ce l'ha il mio numero per conferire direttamente con me? – sbuffai acido.
Teresa annuì: – È quello che le ho detto anch'io! Ma lei non mi ha risposto – tirò su le spalle con sufficienza – Comunque, se vuoi saperlo, di norma non parliamo mai di te.
Buttai gli occhi al cielo: – Sempre meglio degli auguri che mi ha fatto Annachiara, comunque – fu allora che riaccesi il cellulare per farle leggere il messaggio.
Teresa rise: – Ti piacciono proprio le tipe un po' particolari a te, Lillo – sentenziò, neanche una nota di sorpresa in quella constatazione estemporanea – Poi te la prendi con loro se non corrispondono alle tue aspettative.
Mi sembrò ingeneroso da parte sua fare quelle insinuazioni, specialmente alla luce del fatto che ero sempre io quello che ci andava sotto.
***
Quella sera arrivai all'evento con estremo ritardo nonostante non avessi nient'altro da fare.
Ero stato, come il giorno prima, a quattro di bastoni sul divano a macinare passivamente una serie che mamma stava bingewatchando su un sito di streaming pirata: la storia di un pasticciere che poteva riportare in vita le persone morte col solo tocco. Il protagonista aveva usato il suo potere per resuscitare anche l'amore della sua vita, morta ammazzata, pur sapendo che non avrebbe mai più potuto toccarla perché altrimenti sarebbe schiattata di nuovo.
Mi si stracciarono le budella al solo pensiero di una situazione del genere: – Ma chi le pensa 'ste trame? – mi lamentai; accartocciai sul posacenere l'ennesima sigaretta fumata per distrazione come se spegnessi con essa anche il disappunto. Eppure, al tempo stesso, mi fece stare meglio vedere il rampante protagonista di un'appassionata storia d'amore passarsela peggio di me.
Quando infine mi decisi a raggiungere Teresa e Carmine, le rampe del casermone di Materdei erano già invase da una folla incalcolabile.
Tentai di chiamarli al cellulare, ma nessuno rispose.
La musica era alta e il chiacchiericcio della folla pure, immaginai che fosse improbabile che avrebbero mai sentito il telefono squillare a meno che non lo avessero tenuto già davanti agli occhi.
Nel farmi strada verso l'ingresso dell'area del palco tozzai con forza la spalla di una ragazza bruna, che si voltò con l'aria di chi si voleva prendere la disturbata.
Ma i nostri occhi si incrociarono e ci riconoscemmo, con una dose crescente di disagio, all'istante.
– Ciao... – sussurrò con un filo di voce, quasi intimidita dalla mia presenza.
– Ciao, Erica – replicai, attraversandola con lo sguardo come uno spettro – Sei l'ultima persona che mi sarei mai aspettato di trovare in un posto come questo.
E anche in un momento come questo. Caro il mio fantasma del Natale passato.
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