Track XXV - Rione Terra
Sebbene arrivati in città con un po' di scetticismo, scoprimmo che Osaka era davvero la Napoli del Giappone.
Trovammo la gente del Kansai molto più aperta, sorridente, amichevole e, in media, meno scocciata dagli stranieri rispetto ai nativi della East Coast.
Anche il caos metropolitano, nonostante fosse una megalopoli quasi identica a Tokyo, era molto più simile al nostro, se non altro in termini di vivacità e colorite sfumature di kitemmuorti nel loro dialetto, a tutte le ore del giorno e della notte.
Si rivelò perfino molto più economica. Riuscii ad affittare un miniappartamento proprio come quello che avevamo nella capitale, ma più pulito, alla metà del prezzo, in posizione così centrale da poter ammirare il romantico castello dai tetti verdognoli dall'affaccio della nostra finestrella.
La totalità delle nostre serate finirono votate all'alcol più economico servito dagli izakaya dei vicoli incastrati sulle sponde dei ponticelli di Dotonbori e al farci, di tanto in tanto, degli amici tra altri turisti o studenti universitari affascinati da quanto bordello potessero fare due napoletani ubriachi.
La seconda, o forse era la terza sera, eccedemmo.
Ci eravamo spersi per quelli che credevamo pub e che, invece, si rivelarono Hostess Club un po' spinti, quando ormai eravamo già troppo brilli per rendercene conto. Dato il chiasso anomalo per gli standard nipponici, da noi imbastito in una delle salette più interne al locale, ci eravamo conquistati l'attenzione della maggioranza delle ragazze impiegate come intrattenitrici. Chiaramente, mentre facevano le civette con un bombing di domande pseudo-interessate sull'Italia e sulla pizza, nel tipico inglese maccheronico dei giapponesi, il loro reale obiettivo era farci ordinare ancora più alcolici di quanti non ne avessimo già sul tavolo, e né io né Carmine avevamo nessuna intenzione di deluderle.
Una biondona stratinta che mi stava addosso da quando eravamo entrati nella struttura non riusciva a credere che avessi solo ventuno anni: – Con tutta questa barba! – ripeteva (nonostante mi fossi rasato un paio di giorni prima) con fascinazione, dando schiaffetti sul braccio a una delle sue colleghe – Viene bene lo stesso baciare all'italiana? – si informò, con finto tono innocente.
– Forse vuoi dire "alla francese"? – la corressi, dubbioso.
– Così – preannunciò lei, prima di afferrarmi la testa di peso e schiaffarmi la sua lingua in gola.
Quasi misericordiosamente ci interruppe quello che capii subito essere il suo pappone, che prelevò con forza la ragazza dalla sua posizione appollaiata sulla mia gamba e la spinse via dal tavolo: – Questi gaijin proprio non capiscono fin dove ci si può spingere senza pagare gli extra! – sbraitò, un dito severo sbandierato a pochi centimetri dal mio naso.
Feci per rispondere che era stata lei a baciarmi, ma ero ancora abbastanza lucido da rendermi conto che, con molta probabilità, era quello che rispondevano tutti i clienti furbetti.
Mi strinsi nelle spalle e mi scusai, il gin si prese la colpa senza poter controbattere.
Lui sembrò apprezzare la mia finta sincerità e ci scrutò incuriosito mentre Carmine, seduto accanto a me, aveva appena alzato la testa dal foglietto su cui si stava facendo scrivere il suo nome in katakana da un'altra hostess.
– Da dove venite? – investigò l'uomo, che non sembrava poi molto più grande di noi anche se, considerato che gli asiatici non invecchiano mai, immaginai che avrebbe potuto anche avere l'età di mio padre.
Altri suoi compari si avvicinarono al nostro tavolo, tutti rigorosamente agghindati come i più banali e appariscenti yakuza dei film di Takeshi Kitano. Uno di loro intimò qualcosa al nostro interlocutore, a bassa voce, ma sentii che lo appellò con il nome di "Ryo".
L'intero gruppo di mafiosetti strillò come delle ragazzine quando rispondemmo di venire dall'Italia.
Eillann aì.
Sempre la solita crocifissione degli italiani all'estero. Mai un attimo quieti, col beneficio dell'oblio, senza che qualcuno ti fracassi i coglioni con le storielle su Gomorra, la munnezza e Berlusconi.
Eravamo circondati.
Da un lato le ragazze, abbarbicate con ostinazione al nostro tavolo nella speranza di accaparrarsi laute mance, dall'altro i loro papponi che pure avevano preso posto sul divanetto ad angolo per martellarci con le stesse domande scontatissime che ci avevano già fatto le loro protette pochi minuti prima.
Noi, invece, ridotti a scimmiette da circo.
L'intrattenimento preferito di tutti gli stranieri, ovunque nel mondo: costringere gli italiani a illustrare il celeberrimo e mematissimo "linguaggio dei gesti" del Bel Paese.
Con le mani chiuse a coppino, due di loro iniziarono a dondolare i polsi avanti e indietro: – Questo lo uso pure io con mia moglie! – scherzò quello più alto rivolto a Ryo, che esplose in una fragorosa risata.
Ne vollero sapere altri.
Carmine li accontentò. Era la sua prima volta all'estero, non ne aveva ancora le palle piene di quella sceneggiata.
Io feci roteare gli occhi sul soffitto di lucine soffuse viola e contai i minuti esatti che ci avrebbero messo a stufarsi del teatrino trito e ritrito.
Non successe.
Dieci minuti dopo stavano ancora gesticolando come delle teste di cazzo e non mi davano l'impressione di voler smettere.
Mi leccai le labbra e stirai un sorriso di circostanza, prima di acchiappare il braccio di Carmine a mezz'aria per interrompere il suo flow da insegnante improvvisato: – Aspe', aspe'! – esclamai – Gliene spiego uno anche io.
Tutti gli occhi attorno al tavolo furono puntati su di me in concitata attesa.
– Questo che significa? – domandai, entrambi i diti medi fecero sfoggio di sé di fronte all'allegra combriccola.
Ryo non la prese bene. E neanche i suoi tirapiedi.
Iniziarono a farsi afferrare per pazzi, imprecando in un qualche dialetto e invocando botte da orbi per lavare l'onta che avevo appena gettato su di lui e sul suo locale.
Carmine si guardava intorno sconcertato e mi lanciò un'occhiata interrogativa quando gli afferrai una spalla e lo spinsi fuori dall'angolo del divano, con l'intenzione di coinvolgerlo nella rissa.
Ma lui, invece, mi cinse un polso con entrambe le mani e io mi bloccai, proprio mentre mi arrivava un pugno in pancia da uno scagnozzo di Ryo alto neanche un metro e mezzo. Piegato in due, fui spinto dal mio amico nel corto corridoio d'ingresso ai bagni e lo lasciai provare a ragionare (in una macedonia disordinata di lingue) con quell'orda di invasati per sedare i loro alluccamenti feroci, senza molto successo.
Forse spaventati dall'idea di picchiare a sangue dei turisti che non reagivano alla violenza, Ryo si affrettò a chiamare con un fischio tre dei suoi buttafuori che vennero a prenderci di peso per scagliarci a calci in culo sul retro del club.
Giacemmo per terra dove ci avevano lasciati per qualche minuto, le mani strette sull'addome dolorante, e scoppiammo a ridere come dei cazzoni senza sapere perché.
Non ero incazzato, non mi prudevano le mani per le mazzate che non avevo chiavato, non avvertivo la freva di prendermi la disturbata. Non mi dava fastidio che Carmine avesse interrotto l'imminente zuffa, anzi. Mi colse un sentimento inedito nella mia vita, perché non avevo nessuna voglia di accollarmela neanche io, quella lite.
Mi resi conto che era ormai da qualche tempo che non cadevo più preda dei miei blackout.
Ma, a interrompere bruscamente le nostre risate e le mie realizzazioni, giunse un rumore forte e continuo da dietro la curva del vicolo che incrociava il nostro, come se qualcuno battesse a ripetizione contro qualcosa di metallico.
Quando ci alzammo per svoltare nella traversa, incuriositi, ci raggiunse anche il suono di una voce acuta e femminile che imprecava in giapponese. Riconobbi la parola "merda", che avevo sentito tante volte negli anime in lingua originale.
Ci trovammo davanti un distributore di bevande bianco candido incastrato nella rientranza tra due muretti e una ragazza minuta coi capelli arancione fluo, vestita come uno spacciatore di Piazza Bellini, che inveiva scagliandosi brutalmente contro la fredda plastica della vetrina espositiva.
– Uè, ferma, ti fai male! – Carmine le corse incontro, le braccia stese tra lei e la macchinetta per fermare l'attacco di spallate della tipa. Nella fretta, la frase gli uscì metà in inglese e metà in napoletano.
La ragazza si fermò di scatto, più perché sorpresa di essere approcciata da due stranieri sconosciuti che non perché Carmine tentasse di distoglierla dall'intento di distruggere quell'ingombro di lamiera.
– Ti ha mangiato i soldi e non è scesa la lattina? – chiese lui, con lo sguardo che vagava tra il caschetto fluorescente e la vending machine.
Lei fece di sì con la testa, poi cantilenò: – Capita sempre a me!
Lui sorrise: – E ora risolviamo – la rassicurò.
Si chinò ad afferrare il bordo della macchinetta con ambo le mani e lo tirò su di qualche centimetro per poi lasciarlo cadere di botto, togliendo improvvisamente il supporto dei suoi palmi.
Il distributore tuonò su tutto il vicinato e, per un attimo, pensai che si fosse scassato qualcosa. Invece riuscì a reggere l'urto e, con uno scatto metallico, rilasciò una lattina.
Gli occhi della ragazza si illuminarono di gioia, come quelli di un bambino che riceve il suo regalo direttamente dalle grasse dita di Babbo Natale.
– Domo Arigato Gozaimasu! – ringraziò, e raccolse la bibita come se fosse un premio.
La faccia di Carmine pigliò fuoco; abbozzò un sorriso timido che gli permeò anche lo sguardo: – Di niente. Come ti chiami?
– Shizuka – si introdusse lei mentre stappava trionfante la sua Fanta all'uva, e rivolse la stessa domanda a noi.
Io feci per presentarmi ma Carmine parlò prima che potessi aprire bocca: – Lui è Filippo e io sono Carmine, molto piacere di conoscerti – le tese la mano e Shizuka, con un po' di titubanza, gliela strinse.
– Sei di queste parti? – si intromise ancora lui, senza smettere un attimo di fissarla.
– Sì, mai mossa da Osaka in vita mia – scherzò la piccoletta, con una punta di amarezza nella voce. Si avvicinò di nuovo al distributore e mise dentro altre monete. Premette due volte uno dei pulsanti rossi delle bibite calde e, per fortuna, stavolta entrambe vennero giù senza intoppi.
– Vi offro un caffè per avermi aiutata – annunciò nel porci delle latte piccole e dorate.
Io non me la sarei sentita di chiamarlo "caffè", qualsiasi cosa fosse la roba che spacciavano in quelle boatte, ma fu un gesto molto carino da parte sua (rischioso, se vogliamo, dato che sarebbero potute restare incastrate anche quelle).
Bevemmo e vagammo insieme per le stradine del centro in direzione del castello, dialogando del più e del meno per conoscerci. In realtà, Carmine non mi faceva azzeccare 'na scopa, perché prendeva sempre prima lui la parola e finiva per imporsi a parlare a nome di entrambi. Ma non mi diede fastidio, anzi, mi divertiva ascoltare le loro chiacchiere in background, con la testa un po' altrove, lo sguardo buttato di tanto in tanto sul cellulare per rispondere ai messaggi di Annachiara che mi aggiornava sui suoi spostamenti in Europa.
Shizuka stava spiegando al mio amico di come finisse spesso a girovagare in strada la notte dopo aver litigato con sua madre, per questo o quell'altro motivo, poiché la famiglia non approvava i suoi modi di fare e le sue scelte di vita. Spiegò che in Giappone ci si aspetta dai giovani che a vent'anni siano già instradati verso una carriera d'ufficio, un buon matrimonio e una famiglia con figli, mentre lei non ne voleva proprio sapere.
Era molto aperta e loquace per essere una giapponese.
Nel frattempo, però, avevamo raggiunto il nostro Airbnb e si erano fatte le 4 passate. Impunemente, feci segno a Carmine che avevo sonno.
– Ti va di farci da guida della città domani? – balbettò allora lui in saluto alla ragazza, colorandosi un po' sul naso come quando era ubriaco o imbarazzato.
Lei gli rivolse un sorriso radioso e annuì con profondi inchini del capo. Si fece dare il cellulare per scrivergli il suo numero.
– Chiamatemi quando volete – dispose, prima di salutarci con la manina e sparire nei meandri di un altro vicariello illuminato solo da piccole lanterne di carta bianca.
Carmine si voltò verso di me con gli occhi di chi ha appena preso roba buona: – Gesù, ma hai visto quanto cazzo è carina?
Annuii, assecondando il suo entusiasmo.
Appena entrammo in camera e mi sfasciai sul letto come un morto, aggiunse con aria sognante: – Quando mi ha ringraziato in quel modo mi sono sentito come il protagonista di un manga!
***
Ebbi l'impressione che Carmine non avesse quasi chiuso occhio, quella notte. Ciononostante lo trovai in piedi che non erano manco le 9, raggiante e profumato come una rosa, mentre scavava rumorosamente nella sua valigia.
– Nellù, a chest'ora?! – bofonchiai appena mi resi conto dell'orario lampeggiante sul display del mio telefono.
– Senza fretta, Lì – mi rassicurò lui, flemmatico – Ho solo fatto una doccia.
Io stetti per un po' a fissarlo senza dire niente. Lo vidi scegliere accuratamente cosa indossare, mettere un sacco di attenzione nel radersi bene la barba, spazzolarsi i capelli più e più volte per trovare la forma più giusta per ogni ciuffo ribelle. Poi si lustrò i denti per svariati minuti, con movimenti dello spazzolino potenti e minuziosissimi.
Infine accese la piccola TV appesa nell'angolo della stanza vicino alla finestra e fece zapping di canali finché non ne trovò uno in cui c'era la pubblicità. Dopo un paio di spot surreali e variopinti per automobili e cellulari, ne venne trasmesso uno in cui una gigantesca fragola disegnata dai tratti antropomorfi sembrava tessere le lodi di una specie di yogurt da bere.
Lui, che stava seduto sul bordo del suo letto, balzò in piedi e allungò in alto le mani per indicarmi la televisione: – Eccola! Non la riconosci? – mi interrogò, entusiasta.
Dovetti focalizzare tutta l'attenzione di cui ero capace di prima mattina per capire di cosa cazzo stesse parlando: – Ah – sospirai, con poca energia – È la voce della tipa di ieri?
La reclame finì e lui tornò a sedersi come stava prima, ma con un nuovo sorriso scemo stampato in faccia: – Che forte quella Shizuka! Visto che la famiglia non voleva pagarle gli studi di Informatica, si è messa a lavorare come doppiatrice e come cameriera pur di permetterseli da sola... È proprio un piccolo genio – proclamò con ammirazione.
– E perché non le vogliono pagare l'università? – investigai, ma senza troppo interesse.
Lui scrollò le spalle: – Dicono che Informatica non va bene per una femmina.
– Uà, stann' ancora accussì? – mi meravigliai. Proprio vero che la modernità di un Paese non si misura in grattacieli e automazione.
Il suo telefono squillò e lui si catapultò anima e corpo a prendere la chiamata come se ne valesse della sua stessa vita. Gli occhi iniziarono a brillargli di una luce che mi parve familiare: – Sì, siamo quasi pronti. Ci vediamo giù tra mezz'ora?
Io mi feci due conti sullo stato in cui versavo e mi chiesi se, realisticamente, ce l'avrei mai fatta a rendermi presentabile in mezz'ora.
– Fra', non mi dire niente, volete iniziare ad andare voi? Poi mi mandate la posizione di dove state e vi raggiungo – proposi, rigirandomi tra le coperte.
Carmine mi guardò scettico, come a voler implicare che mi sarei sicuramente perso, ma non protestò perché gli era piaciuta l'idea di restare da solo con Shizuka. Alzò le spalle e andò in bagno a finire di prepararsi con molto più impegno del solito.
Quando uscì, io rimasi a quattro di bastoni sul letto per tanto tempo quanto ce ne aveva messo lui a farsi bello, fissando il soffitto come se potessi leggerci il futuro dentro.
Quello che avrei voluto vederci apparire, in quel vuoto liscio e beige che sembrava chiazzato di caffè in alcuni punti, era la predizione di quando avrei potuto rivedere Annachiara.
Il suo nuovo calendario di voli l'avrebbe impegnata in Europa per diverse settimane, prima di tornare di nuovo alle tratte intercontinentali. E non andava per niente bene, perché significava che i periodi dei nostri spostamenti più prossimi non avrebbero combaciato per quando sarei tornato a Napoli.
Dallo spionaggio su Instagram avevo scoperto che il suo fidanzato era un pilota di aerei di linea e che si erano conosciuti ai tempi dell'università. In cuor mio pensai che, in effetti, solo due persone con stili di vita così simili potessero riuscire a stare insieme a quelle condizioni per così tanto tempo.
Una storia d'amore che durasse già da tre anni? In quel momento potevo solo sognarmela. Non ne avevo mai vissuta una che avesse retto neanche la metà di quel tempo.
Circa un'ora dopo, quando non potei più fingere indifferenza verso il mio stomaco che iniziò a scalpitare per i morsi della fame, Carmine mi inviò la posizione di un centro commerciale vicino la stazione centrale.
Finalmente raccolsi un po' di energie per alzarmi e menarmi sotto la doccia, ma non mi curai di farmi la barba. Indossai in fretta i vestiti del giorno prima che giacevano sulla sedia e, dopo l'ardua selezione di quale onigiri prendere al conbini sotto casa (vinse quello con l'umeboshi), che sarebbe stato l'appezzottamento della mia colazione, andai a prendere la metro per raggiungere l'insospettabile coppietta.
Osaka somigliava a Napoli anche in termini di clima. Era molto più calda di Tokyo e, anche a gennaio, le giornate erano miti e luminose. Forse proprio per via della botta di caldo, trovai Carmine e Shizuka seduti a un tavolino del piano terra del mall, intenti a succhiare dei coloratissimi parfait da bicchieroni quasi più alti di loro (o, senza dubbio, di lei).
L'HEP Five era un enorme palazzo dello shopping, con un'iconica ruota panoramica di un rosso sgargiante incastonata in mezzo. Molti dei palazzi visti in giro per il Giappone mi avevano più volte fatto dubitare della sobrietà degli architetti del posto ma, del resto, faceva tutto parte del fascino fuori dagli schemi per cui il Paese è conosciuto in tutto il mondo.
– Vogliamo fare un giro sulla ruota! – annunciò Carmine con entusiasmo e il muso sporco di gelato come un bambino.
Shizuka rise intenerita e gli ripulì l'angolo del labbro con un fazzoletto, con un'intimità che non mi aspettavo.
Fu allora, quando lui si voltò per ringraziarla goffamente, che riconobbi la natura della scintilla che avevo visto nei suoi occhi già quella mattina prima che uscisse.
Quello sguardo. Era lo stesso che, in passato, riservava solo a Teresa.
Non potei frenare una certa dose di timore e apprensione dall'insinuarmi i pensieri, che mi impedirono di rallegrarmi alla vista del mio migliore amico di nuovo così preso e felice accanto a una ragazza. Mi sentii subito in colpa di non riuscire ad essere contento per lui ma, forse, la brutta situazione sentimentale in cui mi ero appena cacciato io mi faceva vedere le cose dalla prospettiva peggiore, per riflesso.
Decisi, però, di non fare lo stronzo e lasciarlo vivere quel momento nella maniera più spensierata possibile, senza mettergli le pulci all'orecchio. Se lo meritava.
Quando sarebbe arrivato lo tsunami di realismo e catastrofe a travolgerlo alla fine della vacanza, sarei rimasto al suo fianco per superarlo insieme. Come era sempre stato.
Stranamente, dato che in Giappone pareva impossibile fare anche la più banale delle cose senza prima affrontare una fila chilometrica, non dovemmo aspettare molto per il nostro turno sulla ruota panoramica. Anzi, di fronte a noi erano allineate con diligenza solo tre studentesse che avevano marinato la scuola e una giovane madre con una bimba piccola.
Il tipo alla cassa non faceva altro che reiterare "Gruppi da tre in cabina!" al microfono, in tutte le lingue che conosceva, come se fosse il dogma di un nuovo culto.
Di nuovo, decisi di lasciare che Carmine avesse il suo momento romantico senza che io dovessi fare la candela. Mi menai quindi nella carrozza con la madre e la bambina, lasciando libera l'ultima solo per lui e Shizuka.
Lui sorrise complice, e ringraziò con una strizzata d'occhio.
Osaka vista dall'alto era davvero bella, incastrata al centro di un labirintico assetto di fiumi e canali che sfociavano in un enorme golfo. Mi sorprese lo scorgere più verde di quanto mi aspettassi dopo averla vista da giù ma, comunque, mi scoprii a non essere il tipo da apprezzare a pieno i paesaggi urbani così moderni e squadrati. Sembrava letteralmente una scatola aperta di regoli per bambini che spuntavano, tutti dritti e colorati, dal terreno.
Perlomeno durante il giorno. In effetti, la notte acquisivano quel fascino sci-fi che rende iconiche le metropoli asiatiche.
Tornati a terra supplicai i due piccioncini di portarmi a pranzo, poiché la fame atroce stava peggiorando il pessimismo cosmico di cui ero caduto vittima dal primo momento in cui mi ero svegliato quel giorno.
Shizuka ci guidò con destrezza nel marasma delle linee della metropolitana fino alla parte opposta della città, un quartiere con lo stigma da "ghetto" perché abbandonato a sé stesso dopo la distruzione della seconda guerra mondiale, e afflitto dagli affari della criminalità organizzata.
In realtà a me piacque a prima vista. Lo ricordo ancora come uno dei posti più belli e caratteristici che vidi in tutto il Giappone.
– Si chiama "Shinsekai", vuol dire "nuovo mondo" – ci narrò la nostra abile accompagnatrice, la guida migliore che avessimo mai potuto scovare. Non tanto in qualità di persona del posto, quanto piuttosto perché ci spiegava le peculiarità della sua città e della sua cultura in modi mai banali.
– Anche se è una zona bistrattata da tutti perché ritenuta "pericolosa" e malfamata, io me la rivendico in termini di potenziale. Penso che quello che c'è di buono qui a Shinsekai potrebbe riuscire a traghettare il Giappone verso un mondo davvero nuovo, nella direzione in cui non abbiamo ancora mai avuto il coraggio di viaggiare.
La definizione così profonda di quelli che erano, all'apparenza, solo vecchi palazzoni dalle forme strambe, mi riportò con la mente al centro direzionale di Napoli che, tra l'altro, fu progettato proprio da un architetto di Osaka. Due posti agli antipodi del globo, eppure così spiritualmente e geneticamente vicini.
Lei continuò raccontando di come quell'area fosse disprezzata dai benpensanti perché "gli indesiderabili" della società come i pensionati, i senzatetto, le prostitute e la comunità LGBTQ avevano iniziato a rifugiarsi lì dagli anni '90. Disse che, per come la vedeva lei, se il Giappone avesse abbracciato quella diversità invece di rigettarla, risolvendone le contraddizioni interne, l'intero Paese sarebbe potuto diventare quel "mondo nuovo" in cui varrebbe davvero la pena vivere.
Tuttavia, Carmine le fece notare una cosa che avevo pensato anche io senza aver avuto il cuore di dirlo, quasi inibito da tanta ingenuità: – Uà, se questo per voi è un ghetto non avete veramente la più pallida idea di cosa sia davvero il degrado!
Il confronto mentale tra quella bistrattata periferia nipponica e l'aridità di Poggioreale o Scampia ci scattò in automatico.
Finalmente andammo a mangiare l'okonomiyaki, il piatto che sapevo essere il preferito di Annachiara, che era una specialità tipica proprio della regione di Osaka.
Dopo una lunghissima pausa pranzo in cui ci imbrattammo di uovo e di ogni tipo di salsa che trovammo nel cassettino del nostro tavolo, decisi di lasciarli di nuovo da soli per godersi a pieno il poco tempo che rimaneva loro per stare insieme.
Per il resto del pomeriggio ciondolai per la città come Kaonashi, nessuna emozione in volto ma tanti pensieri in testa, chiuso tra me e me in vaneggiamenti su cosa significasse veramente un "mondo nuovo" e sul perché, anche a migliaia di chilometri di distanza, i problemi che gli esseri umani sono capaci di crearsi si riducono sempre alle solite cazzate di cui tutti si lamentano ma per cui nessuno vuole combattere.
L'ironia era che a rifletterci su ero proprio io che delle paranoie, dell'immobilismo e dell'ingigantimento di problemi minimi o inesistenti ero il re indiscusso.
***
Le restanti due settimane e mezzo andarono avanti allo stesso modo. Tra una gita fuori porta ai templi di Kyoto, i cerbiatti di Nara, il porto di Kobe; io che mi estraniavo per mezza giornata facendomi guidare dai consigli che mi dava Annachiara per messaggio, per poi ricongiungermi alla (sempre più affiatata) coppia per andare a bere da qualche parte fino a tarda notte.
Qualche giorno dopo la prima settimana di conoscenza, Shizuka prese l'abitudine di venire a dormire da noi. Non facevano niente, si limitavano a stare abbracciati nello stesso letto, e Carmine non mi aveva mai chiesto di andarmene da qualche altra parte anche se io stesso glielo avevo proposto.
Per il suo compleanno, il 20 gennaio, pochi giorni prima di ripartire, andammo a festeggiare con fiumi di alcol nella saletta di una grossa catena di karaoke, e lei gli dedicò una canzone. A metà serata si alzò di scatto dal divanetto, come se avesse avuto l'idea più geniale del secolo, tese una mano con l'indice puntato su Carmine e proclamò: – Questa è per te, anata!
Fece partire sullo schermo un pezzo J-rock molto ritmato di cui ovviamente non capii neanche una parola, ma il cui video mi lasciò perplesso. Il protagonista era un ragazzo innamorato di una sua compagna di scuola che immortalava in delle foto sullo sfondo di quello che pareva essere il loro liceo finché, nell'ultimo scatto, non si accorgeva con sgomento che lei si era buttata giù dal terrazzo.
Io pensai che solo una persona giapponese potesse mai trovare romantico quello scenario, o anche lontanamente capirne il senso più ampio, eppure vidi comparire sulla faccia di Carmine un'espressione che sfumò, in pochi brevi attimi, tra il commosso, l'estasiato e il disperato.
Senz'altro lei aveva una gran bella voce, e con quella performance aveva mandato un messaggio che solo a loro due era dato capire.
Finita l'esibizione, quando scese il più alienante silenzio sulla saletta microscopica e persino il televisore si era rabbuiato, quasi in segno di rispetto per il momento topico, loro rimasero a guardarsi negli occhi in una maniera così intensa che non mi lasciò più dubbi. Con mia immensa costernazione, constatai che Carmine ci era cascato di nuovo.
L'uomo degli amori impossibili.
Quella fu l'unica sera che Shizuka non dormì da noi.
Saltellando sulle scale d'ingresso al locale qualche minuto dopo la mezzanotte, un po' brilla, prese Carmine da parte e gli riferì qualcosa all'orecchio prima di salutarci e sparire verso la più vicina fermata della metro.
Era arrivato il momento di parlarne core a core, solo io e lui. In quelle ultime settimane, in effetti, non erano stati poi molti i momenti che avevamo passato completamente da soli.
– Nellù... – sussurrai, ancora incerto su come impostare la discussione. Eravamo tornati in strada, sulla sponda del fiume di fronte all'eccentrica e luminosissima City Hall di Osaka.
Lui annuì, come se sapesse già cosa volessi dire, un discorso che era già stato tutto affrontato nella sua testa. Dopo essersi sincerato che non ci fosse anima viva nei nostri dintorni, si accese una sigaretta e si sedette sullo spigolo di un'aiuola del ponticello che portava all'isolotto di Kita.
– Sono innamorato pazzo di lei, Lillo – ammise, spiattellato così, bell'e buono, senza giri di parole, preamboli o almeno permettersi qualche dubbio a riguardo.
Lo fissai accigliato, un pelo scettico per cotanta sbandierata sicurezza, nonostante avessi già capito tutto da giorni solo in base alla nuova luce affiorata nel suo sguardo.
Risposi solamente: – Eh... – in una sorta di sospiro sconfitto e angosciato – Ma avete scopato?
Lui scosse la testa e sorrise divertito: – No – dichiarò con somma sincerità, e mi sfuggì cosa ci trovasse di divertente nel fatto di non essere ancora stati a letto insieme, se davvero erano così perdutamente innamorati.
Mi innervosii. Non volevo che finisse col ripetere quel pattern struggente da film in cui si sentiva l'eroe tragico di un amore assoluto, ma platonico, destinato a non concretizzarsi mai. Quasi stavo per convincermi che gli piacesse soffrire per amore molto più di quanto sperasse di costruire, finalmente, una relazione che lo facesse stare bene.
– Ma vi ho lasciato soli un sacco di volte! Perché non l'avete fatto? – protestai.
Lui mi fissò con una sfumatura di commiserazione negli occhi che mi mise a disagio: – Perché a volte il sesso non è una priorità, Lillo. Tu non sei mai stato innamorato per anni di una ragazza senza mai scoparci, io invece sì. E so capire quando c'è da aspettare e quando, invece, arriva il momento giusto.
Sbuffai, incredulo: – Almeno un bacio?
A quel punto annuì, un sorrisetto ambiguo stampato sulle labbra sottili: – Quelli sì, tanti. Il primo ce lo siamo dati sulla ruota panoramica al centro commerciale.
Allora fui io a trovare la cosa divertente, poiché quella location per un primo bacio era proprio una roba che mi sarei aspettato di vedere in uno shoujo manga.
– Per tutto questo tempo avevo creduto che la mia anima gemella non potesse che essere Teresa, che mai avrei potuto avere altro amore nella mia vita – rimuginò con un sottotono estasiato nella voce, passandomi la sigaretta per poi sporgersi a guardare la corrente del fiumiciattolo portarsi via delle foglie secche – E invece non lo trovavo semplicemente perché non era a Napoli, Lillù. Anzi, non era neanche in Italia!
Mi sorprese il modo con cui pretendeva di trasmettermi il senso di quel concetto così fumoso, e di come pronunciò "semplicemente" quasi fosse una cosa ovvia e scontata l'idea fatalista dell'anima gemella da andare a ricogliere, dispersa chissà dove.
– Se tu, fratello, non mi avessi portato qui per un casuale allineamento degli astri o chissà cosa, io non l'avrei mai conosciuta! – si riprese la sigaretta e mi abbracciò fortissimo, quasi strozzandomi in gola il fumo che avevo appena tirato.
Io, di nuovo, mi ripromisi di non fare il guastafeste: – Sì, Nellù, è tutto bellissimo e sono felice per voi – mugugnai, con poca convinzione sul fatto se fosse vero o no ciò che avevo appena affermato – Ma quindi che cosa avete intenzione di fare mo? Considerato che tra pochi giorni ce ne dobbiamo andare.
Lui mi rivolse lo sguardo più profondo, grato e luminoso che gli avessi mai scorto in volto, e spalancò la bocca in una smorfia buffa ed estasiata: – Lei viene con noi!
Mi chiedo ancora che faccia feci a quella notizia, perché non riesco proprio a immaginarlo.
Ma andò esattamente così.
Poco più di un mese prima eravamo partiti in due da Roma, con la promessa di una vacanza senza precedenti.
Quel tempestoso giovedì 31 gennaio 2019, invece, facemmo ritorno a Napoli in tre.
In tempi non sospetti, Teresa aveva già diagnosticato, con precisione chirurgica, quel malanno condiviso da me e Carmine che ci spingeva a fare cose pazze per amore: l'hearteteca.
E chissà che non fosse proprio quello a rendere le cose così travolgenti e indimenticabili, nel bene e nel male.
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