Track XXIX - Nunneover
Annachiara sparì dalla mia vita in maniera, se possibile, ancora più improvvisa e totalizzante di come aveva fatto Elena. Sembrò che non avesse mai davvero incrociato il mio cammino; qualcosa di molto simile al passaggio di una stella cadente, che se per un attimo sbatti le palpebre ti viene da chiederti se l'hai vista sul serio o l'hai solo immaginata.
Anche la sensazione di abbandono che mi pervase non fu la stessa provata ai tempi di Elena. Non saprei dire se la maturità degli anni in più avesse cambiato qualcosa in me oppure se fosse dovuto alla natura del tutto diversa del rapporto ma, durante quel grigio settembre, mi sentii solo svuotato.
In passato avrei pianto tutte le mie lacrime nel segreto delle mie lenzuola, da solo, senza mangiare per giorni e ignorando qualsiasi tentativo di contatto esterno nei miei confronti.
Quella volta, invece, presi la bici e sfrecciai in giro per la città senza meta, meccanicamente, per giornate intere. Le cuffie al massimo volume mi sparavano in linea diretta tra le pieghe del cervello la randomizzazione delle playlist più depressive di Spotify in loop che, però, per qualche motivo, tornavano a riprodurre così spesso Il grande incubo che mi chiesi se il destino non avesse preso il brutto vizio di parlarmi con quei subdoli mezzucci. Molto a tema, in effetti, l'inseguimento fino al "Dream Motel". Il mio angelo custode doveva saper leggere molto bene tra le righe del caos che mi passava per la testa.
I miei deliri di solitudine e vagabondaggio ciclistico furono bruscamente interrotti da Love. Ebbe il mazzo di intercettarmi e braccarmi nei giardinetti costieri del Rålambshovsparken, come un detenuto evaso da Azkaban, in uno dei rari momenti in cui ero stato costretto a fermarmi per riprendere fiato dopo ore di pedalate ininterrotte.
Avevo eluso le sue chiamate per svariati giorni.
Mi costrinse ad andare a mangiare una pizza affermando che, magari, un po' di sapore di Napoli mi avrebbe fatto rinsavire. E anche riprendere tutti i chili che stavo sudando 'ncopp a chella bicicletta. Proprio poco più in là, sul lungomare della Stadshuset, c'era la migliore pizzeria napoletana di Stoccolma.
Mi lasciai convincere.
– Almeno ti lavi ancora? – si informò, il naso arricciato con un po' troppa serietà, mentre aspettavamo la nostra ordinazione a uno dei tavoli accanto alle grandi vetrate affacciate sulla strada. Era una tiepida giornata di sole ma, in quel periodo di transizione verso l'autunno, il tempo cambiava a velocità allucinante di minuto in minuto. Quasi come il mio umore.
Feci finta di non sentire e provai a spostare il discorso altrove; il mio ostinato mutismo si tramutò quindi in una tempesta improvvisa di domande sulla sua tesi. La mia era ancora in alto mare, ma divenne presto l'ultima delle mie preoccupazioni.
Quando giunse al tavolo la mia salsiccia e friarielli fumante, fui sopraffatto dall'urlo del cameriere che ci servì: – Filippo!
Il mio nome riecheggiò in tutta la saletta.
Lo sguardo alzato piano, con un po' di sospetto, finì per incontrare i grandi occhi neri di Yousef. Allora urlai anch'io di rimando, meravigliato: – Uè, fratm'! Ma che cazzo ci fai tu qua?
Il mio vecchio amico prese una sedia e si accomodò qualche momento al nostro tavolo per raccontarmi di com'era arrivato a Stoccolma all'inizio dell'anno, incoraggiato da un suo cugino che aveva trovato lavoro in quella catena di pizzerie, dove l'ambiente era bello e pagavano bene.
– Vediamoci più tardi, così mi racconti anche tu quello che stai combinando – si raccomandò, con occhi affettuosi e colmi di genuina felicità di rivedermi. In effetti erano anni che ci eravamo persi di vista, nonostante ci volessimo un gran bene e in passato avessimo l'abitudine di giocare a calcetto insieme ogni settimana.
Realizzai che, in quel periodo della mia vita, avevo iniziato ad avere sempre più contatto diretto con un fenomeno di cui in Italia si parla sempre in astratto ma che, quando lo tocchi con mano e lo vedi succedere ripetutamente davanti ai tuoi occhi, inizia a diventare pesante. A lasciarti il magone.
La realtà dei giovani italiani che scappano altrove.
Carmine, Yousef, Annachiara, e anche la stessa Elena, se ne erano andati da Napoli perché era una realtà che aveva iniziato a stare stretta a tutti, perfino a quelli che mai avrebbero voluto andarsene.
"Goodbye Malinconia".
Faceva impressione viaggiare col pensiero, dal nostro disastroso XXI secolo indietro verso quel passato ormai remoto, quando Napoli sembrava essere il centro dell'universo. Un luogo dove poeti, artisti, attori e scienziati di tutto il mondo transitavano ammirati, portandosi il suo ricordo nel cuore al punto da trasmetterlo in varie forme a noi generazioni successive.
Dicono dei napoletani che siamo un popolo di nostalgici, che viviamo nel passato e che ci raccontiamo un sacco di cazzate per farcelo sembrare migliore di quello che fu. Ma io penso che le testimonianze di chi, da straniero, solcò con sguardo incantato i nostri vicoli nei secoli del loro massimo splendore, senza riuscire mai a dimenticarli, non possono essere tutte liquidate come semplici vaneggiamenti da neoborbonici.
A suo tempo, Goethe scrisse: "Non sarà mai del tutto infelice chi col pensiero può tornare a Napoli". Ma, per l'appunto, solo questo è rimasto oggi ai giovani napoletani costretti a emigrare: il pensiero.
Quella stessa sensazione fu proprio Yousef a confessarmela, quando ci rivedemmo quella sera: spinello di erba buona e profumata in bocca, stravaccati lunghi lunghi su una panchina panoramica di Monteliusvägen.
Le giornate si stavano accorciando e si poteva finalmente ammirare il manto notturno tornare ad avvolgere le isolette centrali della città, accarezzate dal mare.
– A Napoli mi ero ridotto solo come un cane, fra' – ringhiò Yousef, la boccata di fumo resa troppo amara dai ricordi, quando ancora parlava solo il napoletano e mai mi sarei aspettato di sentirgli emettere suoni italiani o, men che meno, anglofoni – Non riuscivo a legare con le ragazze perché tengono tutte il fetish del cazzo nero, anche quando non lo ammettono. Non riuscivo a trovare lavoro, forse sempre in quanto nero, chi lo sa... fatto sta che nessuno mi chiamava neanche per andare a pulire i cessi dei pub – si stappò una birra leggera da supermercato, perché non avevamo fatto in tempo ad andare al monopolio di Stato prima che chiudesse.
Ne passò una anche a me, che bevvi di malavoglia giusto per bagnarmi la bocca, e continuò: – Ma sai cos'ho pensato? Che al nord non ci volevo andare. Io li odio quei bastardi marchigiani, veneziani, milanesi... quelli sono i più razzisti di tutti, in Italia. Capace che mi andava a finire come George Floyd. Allora mi sono detto che se proprio dovevo andarmi a schiattare al nord per campare, che fosse almeno ancora più a nord – fece un vigoroso cenno con la testa, un'ulteriore firma su quel contratto stipulato con sé stesso.
Io annuii di riflesso: – Tieni ragione, Sef. Ti capisco.
Anche se, ringraziann 'a Maronn, la mia situazione a Napoli non era mai diventata così drammatica da spingermi alla fuga, né avevo problemi di razzismo con cui dover fare i conti.
– La cosa più pazzesca è che in Italia, ovunque andassi, c'era sempre qualcuno pronto a prendermi per immigrato, a chiedermi i documenti, il permesso di soggiorno... invece qui, che immigrato lo sono per davvero, non mi succede mai! – sottolineò quel paradosso quasi urlando contro la superficie immobile e indifferente del mare di fronte a noi – A te non viene chiesto costantemente di confermare di essere italiano. Perché a me sì?
Il sorso di birra che buttai giù mi parve il più aspro che avessi mai bevuto. Non era la prima volta che sentivo Yousef parlare della discriminazione che subiva, anzi, ero lì presente insieme a lui mentre accadevano alcuni di quegli episodi. Quello che mi parve davvero più difficile da digerire era la realizzazione che, per colpa della sovrastruttura razzista della nostra società, alle persone come lui non era concesso di sentirsi a casa da nessuna parte.
– A Stoccolma non solo ho trovato subito un lavoro pagato il giusto e che, bene o male, mi mantiene con un piede a Napoli – spiegò, riferito alle pizze e al fatto che lo staff del locale fosse tutto italianissimo – Ma ho pure trovato una guagliuncella svedese che è nera... Capi'? È nera ma anche svedese, e questa cosa non sembra stupire nessuno!
Era ovvio che non avessi mai guardato la TV in Svezia, ma lui mi assicurò che, se l'avessi fatto, mi sarei stupito del grado di integrazione della diversità etnica nei media, a riflesso dalla demografia svedese di oggi: una normalità così consolidata che, ormai, solo noi stranieri ci facevamo caso. O, perlomeno, noi stranieri provenienti da Paesi in strenua lotta contro l'eterogeneità dei popoli, puntualizzò: – Persino l'influencer più famosa della Svezia è una vrenzola mezza italiana!
Mentre discutevamo animatamente saltando di tema in tema senza continuità logica, dai miei racconti sul Giappone ai suoi allenamenti di calcio, ci raggiunse anche Love. A fine nottata, il biondo ci invitò ad andare a farci l'ultimo bagno della stagione prima che arrivasse il freddo inverno.
Promise che ci avrebbe portato nel posto perfetto per dire addio all'estate.
***
Il "posto perfetto" di Love si trovava a casa di Cristo, e spostarsi 'ncopp a n'arcipelago non fu certo cosa facile. Ci mettemmo quasi due ore ad arrivare, cambiando bus e treni quattro volte. Proprio quando io e Yousef stavamo per oltrepassare la soglia della nostra limitata pazienza per lo sbatti sui mezzi pubblici, raggiungemmo finalmente Kärsön, l'"isola dell'amore".
Il nome era, con molta probabilità, dovuto all'atmosfera intima, hippie e un po' favolesca del posto: una specie di paradiso terrestre che, tra l'altro, ospitava una spiaggia per nudisti. Non ero mai stato in un ambiente del genere prima di allora, né avrei mai pensato di visitarne uno. In quel momento, per di più, vi ero stato inconsapevolmente trascinato proprio insieme ai due ragazzi più belli che conoscevo.
Non ero il tipo da farmi paranoie sull'aspetto fisico, anche perché l'universo femminile aveva sempre confermato un certo favore nei miei confronti pur nella mia più totale mancanza di attenzione e dedizione. Eppure, accostato a una diafana bellezza scandinava come Love e alla lucente pelle scura di Yousef, mi sentii un po' come una portata malriuscita di quel menù. Né carne né pesce.
La leggerezza con cui gli svedesi trattavano la nudità a livello sociale mi aiutò molto a lasciarmi andare e, ancor di più, fui facilitato dal fatto che Yousef e io ci eravamo già visti nudi tante altre volte negli spogliatoi dopo le partite di calcetto. La sensazione più strana, trovai, era proprio quella della vergogna legata allo sguardo dei conoscenti, più che di quello di decine di altri sconosciuti sulla stessa costa.
Ma, superato quello scoglio, fu addirittura una bella esperienza, perché mi restituì un po' di quella noncuranza e spensieratezza che ero solito perdere per strada dopo le grosse delusioni amorose. Ci lasciammo alle spalle tutti i pregiudizi acquisiti, le ansie, le aspettative preconfezionate, le preoccupazioni stantie, le insicurezze superficiali.
Love si era davvero spinto oltre ogni limite umanamente immaginabile per azzeccare il modo migliore di farmi distrarre, dimostrandosi un amico fidato e sensibile.
Ispirati dal clima molto laissez-faire del posto, appicciammo le casse bluetooth a tutto volume e cantammo a squarciagola canzoni italiane e napoletane così che nessun altro potesse capirci. Qualcuno apprezzò, e vennero addirittura a chiederci il nome di certi pezzi, come Noia Mortale di quel duo di siciliani che piaceva tanto a Love.
"Benedetta la notte, che spegne i pensieri ed accende la luna".
E andò proprio così.
Finalmente mi riuscì di spegnere il cervello e godermi quella luminosa serata, a cantare, fumare e bere con due dei miei più cari amici. Come ai bei vecchi tempi in quel di Napoli.
Trovammo riparo nei pressi della spiaggia, su una collinetta attrezzata di vindskydd, quelle casette di legno semiaperte di cui sono piene le riserve naturali svedesi, e accendemmo un fuoco altissimo nel braciere centrale. A quel punto ci raggiunse anche la fidanzata di Yousef, Linnea.
Si presentò con un largo e bianchissimo sorriso, in netto contrasto con l'incarnato immerso nella notte, espressione gioiosa che riverberava anche sui suoi incredibili occhi verdi. Nel notare il mio stupore spiegò che, per via di quei begli occhi, era sorda da un orecchio poiché si trattava di un disturbo che aveva dalla nascita e non di un carattere genetico.
– Quando si dice che per essere belli bisogna soffrire! – scherzò.
Era abbigliata con una di quelle tute da meccanico colorate piene di stemmi che invidiavo molto agli universitari svedesi, lei la teneva viola perché studiava Architettura alla KTH.
– Siete tutti e tre napoletani eppure diversissimi, non corrispondete per niente allo stereotipo che conoscevo – osservò, mentre discutevamo della nostra città e di quello che ci mancava o non ci mancava per niente della madrepatria.
– Cioè? – si incuriosì Yousef, con le braccia a cingerle teneramente la vita e il mento poggiato sulla sua spalla.
– Non lo so... pensavo a Gomorra! – chiarì lei in un risolino, facendo il gesto della pistola con le mani per librarle in aria come se fosse una sparatoria immaginaria.
Oilloc'!
N'ata vota coi cagamenti di cazzo degli italiani all'estero. Non mi abituerò mai al dover convivere con la croce di venire da un Paese che, per un motivo o per un altro, tutti conoscono. Sarà per la forma, la posizione, la storia, la lingua, la cucina, la mafia, il fascismo, l'impero romano... cazzo, non lo so il perché; so solo che tutto il mondo sembra interessato a chi siamo e cosa facciamo, e tutti hanno un serbatoio sempre pieno di domande allusive perché pensano di sapere già qualcosa su di noi. Quante volte avrei preferito essere, chessò, bulgaro o uzbeco.
– Ah! Camorristi, quindi? – realizzò Love.
Aggrottai la fronte, inalando l'ultima boccata di fumo dalla mia cannetta: – Anche se lo fossimo, potresti non accorgertene nemmeno. La camorra... è un nodo così stretto da diventare invisibile.
Linnea parve intrigata da quella constatazione: – Allora come si fa a sapere se c'è?
Beh, almeno lei dimostrava di voler imparare e non dava per assunti i suoi preconcetti senza chiedere ai diretti interessati.
Decisi di essere pragmatico: – È negli edifici che crollano poco dopo essere stati costruiti, o in quelli che restano degli aborti incompiuti nelle campagne e nelle periferie. È nel cibo e nell'aria che ci fanno venire il cancro. È nelle buche insanabili sull'asfalto allungato con la sabbia, nell'edilizia popolare massacrata. È nei concorsi truccati, nella disoccupazione, nelle fatture in nero, nei fondi che vengono costantemente tolti ai servizi pubblici. Nel fare figli e figliastri per costruire l'intera società attorno alla legge del più forte – corsi con lo sguardo sulle stelle del cielo come se rappresentassero ognuna un punto del mio elenco di sciagure.
Seguì un lungo silenzio, forse dovuto tanto alla pesantezza della conversazione quanto al nostro stato mentale non del tutto lucido. Poi lei stemperò l'atmosfera con la leggerezza di un sorriso tiepido: – Allora, tutto sommato, ne abbiamo un po' anche in Svezia... solo che non lo sapevo!
Quella Linnea era senza dubbio una persona interessante, e mi fece piacere constatare che Yousef fosse riuscito ad accasarsi con una ragazza degna di stare al suo fianco. Senonché, quando si cacciò fuori dalla tasca della boilersuit una piccola busta colorata piena di pasticche e polveri, capii che neanche lei lo avrebbe fatto uscire da quel tunnel.
– Ho preso un po' di roba da Alex – fece il nome di qualcuno che doveva essere il loro pusher di fiducia, mentre spargeva le bustine più piccole sul legno umido della panchina – Gli ho chiesto di farmi un mix rispetto al budget, così proviamo roba nuova... Però ora non ricordo più cosa siano alcune di queste cose!
Scansionai con rapidità le bustine come se i miei occhi fossero dotati di raffinati raggi X da studio medico. Sarebbe rimasto per sempre quel residuo degli strumenti del mio primo mestiere, stoccato in uno dei cassettini del mio cervello.
Presi in mano dal mucchio un sacchetto piccerello, riempito per un terzo di polvere marroncina: – Alla fine è arrivata fin qui? – me ne stupii, ma fino a un certo punto. Quelle sono le uniche cose a riuscire a girare per il mondo, indisturbate, alla velocità della luce – Questa è Kobret.
Magari veniva anche direttamente da Scampia.
Il gruppetto mi rivolse un'occhiata ammirata. Yousef menzionò alla sua ragazza che, in passato, ero proprio io il suo rivenditore di fiducia.
Lei allora, con occhi vispi e curiosi, volle sapere: – Quindi le conosci tutte! Tu di cosa ti fai?
Mi venne da ridere: – Solo di erba e, quando si trovano, psichedelici – sospirai, divertito – Credo che, in realtà, gli spacciatori siano proprio le persone che fanno meno uso delle droghe che vendono. Soprattutto perché la roba davvero buona non la trovi con facilità neanche al mercato nero, oppure è troppo cara rispetto al resto della munnezza che gira sulla Piazza.
Mi fermai un attimo a rifletterci meglio, poi sottolineai: – In fondo lo sanno molto bene che vendere l'LSD a buon prezzo sarebbe sistemicamente svantaggioso per loro, perché non solo non crea dipendenza ma, anzi, è una cura alle altre dipendenze.
In ogni caso, essere drogati e anche spacciatori mi era sempre suonata tanto come la formula perfetta per un business fallimentare.
***
L'estate si consumò alla velocità impressionante di un fiammifero. Nei mesi successivi mi tramutai nella persona più assennata e stacanovista che mai avrei sognato neanche lontanamente di poter essere. Completai la composizione originale e l'elaborato scritto di tesi a tempo record considerato che, nei tre mesi precedenti, non avevo fatto un cazzo. Ne uscì la bozza della melodia che sarebbe diventata la mia Per Elisa, ma per Anna.
Nel frattempo conobbi tanti altri emigrati italiani amici di Yousef, un piccolo microcosmo. Quando venni a sapere quanto guadagnava uno di loro che faticava come muratore, mi attaccai al telefono come un pappece con la noce, nel tentativo di convincere la mia famiglia a farmi raggiungere da Gianpaglia per cercargli un lavoro in Svezia.
Spiegai a mamma che sarebbe convenuto a tutti: sia in termini di guadagno che di benessere psicofisico, perché lì gli handicap fisici e mentali non venivano additati come un irreparabile difetto di fabbrica con cui è impossibile convivere. Anzi, gli sarebbero stati offerti tutti i mezzi necessari a condurre un'esistenza normale senza che la sua condizione diventasse un ostacolo insormontabile, ancor più ingigantita da una società strafottente e insofferente come quella italiana.
E dubitavo anche che lì sarebbe mai morto cadendo da un'impalcatura senza equipaggiamento di sicurezza, com'era successo al padre di Carmine.
Con enorme fatica e giornate intere di tiro alla fune, ebbi successo nell'impresa di liberare il mio cuginetto dagli artigli di quell'arpia di sua madre, con la promessa che Gianpaglia sarebbe dovuto tornare di corsa a Napoli dopo tre mesi se non fosse riuscito a trovare lavoro in quel lasso di tempo.
Mi raggiunse tardi, purtroppo, e con lui ebbi solo il tempo di passare la notte del capodanno 2021 coi piedi penzoloni dal molo dirimpetto al palazzo reale in Gamla Stan, ad ammirare i riverberi dorati dei fuochi che infiammavano il sereno specchio d'acqua di fronte a noi proprio come lo sguardo deciso e felice del mio parente preferito.
Visto che arrivò quando ormai io stavo per ripartire, lo lasciai nelle sapienti mani di Sef e Love. Grazie a loro trovò lavoro poco più di un mesetto dopo, presso un'altra sede della catena di pizzerie dove lavorava anche Yousef. Coi soldi del primo stipendio, riuscì persino a pagarsi dei corsi privati per essere ammesso al conservatorio.
Lasciai Stoccolma durante il mite inizio di gennaio, e non aveva ancora nevicato neanche una volta. Me ne andai a malincuore, un po' perché mi ero abituato bene alla città e alla compagnia dei miei amici, ma anche perché la Scandinavia non mi aveva regalato quel momento da winter wonderland che mi era stato promesso secondo l'immaginario classico del Paese. Poi seppi che venne a nevicare, a cazzimma, proprio un paio di giorni dopo il mio ritorno a Napoli.
Niente di meno, quella settimana finì col nevischiare persino al Vomero. Ma non ero più abituato allo strano inverno partenopeo e la quotidianità dimenticata: l'aria era troppo pesante di smog, le strade troppo piene di gente, i mezzi troppo lenti e sempre scassati.
Mi ero come resettato.
A riportarmi alla solita routine con la sua calda familiarità fu, come sempre, Teresa.
Un freddo pomeriggio, poco dopo l'epifania, fumavo sul balconcino sbilenco del piano abusivo della sua palazzina a Sedile di Porto, e lei stava finendo di raccontarmi dei drammi (di cui non capii assolutamente nulla) tra lei e la professoressa a cui voleva chiedere di farle da relatrice. Quando ebbe finito di sorseggiare il caffè, freddatosi dentro alla tazzina che teneva in mano da due ore mentre ciarlava, la raggiunse sul cellulare un messaggio che le illuminò il volto.
– Ci vieni alla festa di compleanno di Angelica, sabato? Visto che siamo in zona gialla la facciamo all'OPG, c'è anche un altro volontario che festeggia questa stessa settimana – mi invitò con grande aspettativa negli occhi – Possibilmente non finire a letto con vecchie fiamme o future spose, però – puntualizzò infine, con una linguaccia dispettosa.
Avevamo toccato l'argomento "Annachiara" molto piano, perché erano passati diversi mesi e le avevo fatto capire che c'avevo messo una pietra sopra. Faceva ancora un po' male, ma era uno strano dolore nostalgico, più per gli avventurosi momenti passati in giro per il mondo che per la nostra storia d'amore che non era mai davvero partita.
– Tale madre, tale figlio – aveva commentato Teresa, scatenando una mia reazione un po' troppo piccata.
Ma poi aveva subito approfondito il suo punto: – Quando ci si ritrova a fare l'amante di qualcuno già impegnato, non lo si fa certo per cattive intenzioni nei confronti di chi viene tradito. Lo so bene. Ma l'illusione che la persona che tradisce lascerà il partner storico per quello nuovo è tanto effimera quanto dura a morire.
Come suo solito, lei mi capiva molto meglio di quanto io capissi me stesso.
Così fui catapultato di nuovo dentro alle solite faccende del Majella, delle mie amiche e i loro spazi occupati, del clima di tensione sospesa sul filo del rasoio della pandemia sempre incombente su tutto e tutti. Seppi che, solo pochi mesi prima, era scoppiata la rivolta per le strade di Napoli proprio perché nessuno ne poteva più di quell'andirivieni di privazioni e decreti sempre più confusi che si erano susseguiti senza sosta per tutto l'anno.
– Che strano che a voi sembri così tanto una libertà ritrovata mentre io, in Svezia, ho continuato a fare il cazzo che volevo come se niente fosse – notai, lo sguardo alto sul cielo buio che non preannunciava niente di buono per i giorni a venire.
– Tu sei sempre il figlio della gallina bianca, Lillù – sbottò Teresa, rise e mi sferrò uno schiaffetto sulla testa – Tieni proprio un mazzo grosso così.
Né io né lei avremmo saputo quantificare quanto in termini reali ma, senz'altro, di dimensioni considerevoli. Perché, a quanto pareva, nella vita continuavo a trovarmi sempre al posto giusto nel momento giusto.
Nel momento in cui, quel sabato sera, varcai la soglia del casermone dell'OPG scivolando tra i gruppetti di volontari appartati a parlottare a fianco alla guardiola dell'androne, mi sentivo ancora un po' spaesato da Napoli e dallo stato in cui l'avevo trovata, piagata dalle misure anti-Covid. Sapevamo di dover tornare tutti a casa entro le 22, quindi la festa iniziò presto come se si celebrasse un compleanno di pre-adolescenti.
Ciononostante, il cielo era già scuro e coperto da grossi nuvoloni violacei e minacciosi che, in combo col rosso pompeiano delle pareti del cortiletto centrale poco illuminato, dava a tutto l'ambiente un'aria ancora più sinistra.
Scorsi Teresa galopparmi incontro all'impazzata come una maratoneta, scattando da dietro all'albero che troneggiava sulle aiuole squadrate del giardinetto.
Quando mi si piazzò davanti e si allungò verso il mio orecchio per sussurrarmi: – Guarda che non sono riuscita ad avvertirti prima che oggi c'è anche Elena.
Era già troppo tardi.
L'avevo individuata proprio in quel momento, in lontananza, perfettamente allineata a ore dodici sulla mia traiettoria visiva.
Come una visione.
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