Track XXIV - Nun ce penzà


Quando tornò in camera da letto dopo pochi minuti di convenevoli al telefono, non feci neanche in tempo a mettere le idee in fila per iniziare a fare domande prima di essere interrotti da un Carmine selvatico che bussò disperatamente alla porta.

Lei indossò in fretta l'accappatoio offerto dall'ostello e corse ad aprirgli, forse più per dribblare il momento delle spiegazioni che per sincera preoccupazione per le sorti del mio povero compagno di viaggio.

Tenni lo sguardo perso nel vuoto della parete verdastra di fronte al mio letto, sconvolto. Scosso anche un po' dalla faccia pallida ed esausta di Carmine, che aveva dormito malissimo perché i Manga Cafè sono posti tristi e affollati di gente che gioca online tutta la notte o si masturba sugli hentai. Ma, ammetto, molto di più a causa della conversazione di Annachiara che avevo appena origliato dal cesso.

Avrei voluto affrontare il discorso subito, di petto, ma non avevo voglia di mettere in mezzo Carmine e rovinare la mattinata a tutti.

E poi perché mi stavo preoccupando tanto? Ci eravamo solo fatti una scopata da buoni vecchi amici, in una notte di festa, ubriachi fradici e a miliardi di chilometri da casa. Insomma, che importanza aveva?

Eppure, mentre guardavo Carmine bestemmiare in mezzo alla stanza lanciando vestiti sporchi dappertutto, e lei era corsa a fare la doccia come se ne dipendesse la sua sopravvivenza, una vocina incastrata nelle pieghe dell'orecchio mi ripeteva con insistenza che quella cosa mi importava eccome.

M'importava anche troppo.

Perché quella strana e incantevole aliena che veniva dal passato ma mi aveva riportato nel presente o, forse, persino trasportato nel futuro, mi aveva fatto stare bene come non mi succedeva da tanto.

Con leggerezza e intimità avevamo riso e parlato di fumetti e viaggi per tutta la notte, nelle pause in cui non venivamo colti dalla passione e finivamo a fare l'amore per ore filate. Era proprio quel tipo di relazione che aspettavo con ansia di ritrovare, dopo così tanto tempo.

– Uè, Lillo! – l'urlo selvaggio di Carmine mi riportò alla realtà. Sussultai nell'accorgermi di scrutare intensamente lo stesso punto vacuo sul muro ceruleo da chissà quanto.

– Ma mi stai ascoltando o no? – incalzò.

Sospirai: – Nellù, manc' simm arrivat e agg' fatt già a primma strunzat' – considerai con voce tremante, indebolita dallo sconcerto.

Lui inarcò un sopracciglio e aprì la bocca per cominciare a subissarmi di domande, magari anche già pronto alle critiche, ma Annachiara uscì dal bagno e ci ammutolimmo.

– Ragazzi, scusate, devo scappare – ci informò atona, senza incrociare gli occhi con nessuno dei due.

Raccolse le sue cose dentro allo zainetto e si mosse rapida come un furetto verso l'uscita. Da quell'angolazione entrava solo nella traiettoria visiva di Carmine, in piedi in mezzo alla stanza, mentre io ero ancora rifugiato tra le coperte del letto nell'angolo più interno.

– Fatemi sapere se vi va ancora di fare qualche giro della città insieme... ciao – concluse piatta, prima di chiudersi la porta alle spalle.

Carmine tornò subito a fissarmi con un'espressione interrogativa, in perfetto silenzio, ma librando le braccia a mezz'aria come per incitarmi a parlare.

– Guaglio', amma pariat' malamente! – ammisi finalmente, leccandomi le labbra con soddisfazione al pensiero della nottata appena trascorsa.

Il momento d'euforia durò giusto il tempo di quella esclamazione, poi abbassai lo sguardo sulle mie mani intente a martoriare un lembo delle lenzuola sudate: – Però credo che sia fidanzata.

Carmine sgranò gli occhi e si sedette sul suo letto all'altro capo della stanza: – Uà, frate', ma come fidanzata?

– Che ne so... sono un coglione! – mi rimproverai; scossi la testa per fare mente locale, ma riuscii solo a stordirmi di più.

– Quella tiene sei anni in più a noi, si è laureata tempo fa, tiene la sua vita qui; sta praticamente su un altro pianeta... – elencai tutte le ragioni per cui sapevo già che quella cosa non si poteva fare.

Eppure non riuscivo a non sperare che fosse possibile.

– Sì ma, a quanto pare, le piaci veramente tanto se avete scopato tutto 'sto tempo fino a mo – considerò lui, denudandosi e infilandosi sotto al piumone con l'aria di chi aspettava quel momento da tutta la vita.

Quel suo commento riecheggiò pericoloso dentro alla mia scatola cranica, perché mi insinuava il seme imbattibile della speranza. Non sapevo chi fosse il suo ragazzo, ma lei sembrava sincera quando aveva confessato di essersi invaghita di me già dalla prima volta che mi aveva visto. E che, anche se all'epoca non si poteva fare perché ero troppo ragazzino, adesso "ero un uomo". Un dettaglio mica da poco. Doveva pur avere cambiato le cose... no? Anzi, era un indizio cruciale che giocava chiaramente a mio favore.

– Senti, perché non ci dormiamo sopra? Poi quando ci svegliamo la richiami, così ci andiamo a fare un giro e chiarite tutto – bofonchiò Carmine sprofondato nel cuscino, già a metà tra sogno e veglia.

Convenni che aveva ragione e, finalmente, riuscimmo a farci le dieci ore filate di sonno che i nostri corpi bramavano da due giorni abbondanti.

Riprendemmo i sensi a notte inoltrata e i nostri stomaci affamati inveirono all'unisono contro di noi.

– In giro sta pieno di minimarket aperti ventiquattro ore – mi comunicò, da bravo esploratore notturno improvvisato – Ieri non so quanto tempo ho passato dentro a un 7 Eleven a bere la fetenzia che chiamano caffè, e a sfogliare riviste che non riuscivo a leggere. Belle modelle però.

Io mi coprii gli occhi con una mano per il senso di colpa e di vergogna: – Marò, Nellù, perdonami... – biascicai con tono genuinamente rammaricato.

– Jamm', e che sarà mai? Nun ce penzà, a finale sono esperienze! – e scoppiò a ridere, senza neanche un briciolo di rabbia o risentimento.

Bello lui, Carmine. Il migliore amico di cui ogni uomo ha bisogno.

– Mo, però, vatti a lavare che puzzi! – aggiunse in un ghigno. Mi lanciò contro un cuscino come blanda punizione.

Lo schivai per miracolo e trovai magicamente la forza di rotolare fuori dal letto, ancora pregno di odore di sesso e di Annachiara.

Dopo che ripresi (più o meno) la forma di un essere umano presentabile, scendemmo alla ricerca di un supermercato.

Tutto intorno a noi sembrava la materializzazione di un anime. Le strade strette e poi improvvisamente enormi, sature di insegne neon dalle lunghe strisce di ideogrammi che scendevano perpendicolari ai grattacieli, la cui cima si perdeva nel buio un po' tetro del cielo da cui le stelle non riuscivano a vincere la competizione con le luci della città.

In giro non c'era anima viva, a parte sporadici tassisti sulle loro macchine colorate e qualche salaryman completamente ubriaco che era collassato agli angoli delle strade oppure che barcollava, vaneggiando, nel tentativo di tornare a casa.

Era affascinante, ma non sentii di potermi mai abituare a un posto del genere, neanche vivendoci per anni come Annachiara. Non mi trasmise quell'atmosfera di familiarità e calore che avevo sentito subito, invece, a Istanbul. Tokyo era algida, asettica, tradizionale ma ultramoderna, intrigante ma distante da tutto e tutti. Dubitavo che qualcuno che non vi fosse nato e cresciuto tutta la vita potesse mai definirla "casa".

C'era l'imbarazzo della scelta di conbini aperti in ogni isolato, tutti con la stessa identica offerta di prodotti, bevande e riviste. E tutti incredibilmente rumorosi: ogni azione scatenava un feedback sonoro insopportabile per il mio udito ancora stordito dal sonno. Partiva un jingle per quando si varcavano le porte scorrevoli dell'ingresso, un altro per quando si apriva il frigo delle bevande, un altro ancora per quando si pagava alla cassa. Solo l'eccitazione delle prime scoperte fece passare in secondo piano quel fastidio. Ci sentivamo come i bambini in visita alla fabbrica di cioccolato di Willy Wonka.

Presi dall'euforia di provare robe nuove, comprammo molto più cibo di quanto ce ne potesse mai servire e tornammo di corsa in albergo perché avevamo iniziato a puzzarci di freddo. Non ci eravamo informati su quanto potesse essere gelido l'inverno giapponese.

Ci addormentammo di nuovo un'oretta più tardi senza neanche accorgercene mentre, stesi sul letto a spuzzuliare da pacchetti di Pocky al tè verde e bustine di strane alghe croccanti al wasabi, stavo raccontando a Carmine tutti i particolari della notte di fuoco passata a capodanno.

Sarà che mi ero addormentato ripercorrendo minuziosamente le linee del corpo di Annachiara con il pensiero, ma fu ancora a lei che rivolsi il primo pensiero appena sveglio.

Fissai i numeri sul salvaschermo del cellulare, le 8:57, con una malinconia che poco si addiceva all'atto di controllare l'ora, e mi voltai a guardare Carmine lottare contro lo stato di dormiveglia.

Incurante se fosse già abbastanza sveglio e lucido per sentirmi o rispondermi, domandai ad alta voce: – Dovrei ricontattarla? – senza che aspirasse ad essere una vera domanda, quanto più un tentativo di autoconvincimento.

Certo che volevo richiamarla.

Volevo poter passare come quella notte anche tutte quelle successive della mia vita. Volevo sentire i nostri discorsi sui cartoni animati diventare piano piano sussurri, e poi trasformarsi ancora, fino a esplodere in orgasmi.

– Sì, fra' – farfugliò Carmine inatteso, a interruzione del mio flusso di elaborazioni da arrapamento – Questa città è impossibile da visitare da soli... non ci si capisce un cazzo.

Mi chiesi se lo pensasse davvero o se lo dicesse solo per incoraggiarmi a non arrendermi con Annachiara.

Mi ero sfogato con lui su quella che pensavo fosse una mia distintiva "arrendevolezza" con le donne e, per quanto fosse in realtà una caratteristica che ci accomunava, Carmine spiegò che secondo lui c'erano tempi e modi di poter insistere, perché non esiste la soluzione one size fits all per tutte le situazioni.

Mi chiesi come avrei dovuto capire se fosse proprio quello il momento giusto di farlo. In ogni caso, dalle ultime parole che Annachiara ci aveva rivolto prima di andarsene, appariva lampante che non sarebbe stata lei a ricontattarmi. Voleva lasciarmi lo spazio per capire da solo se volessi rivederla.

Allora annuii tra me e me, conoscendo già la risposta. Non avevo bisogno di attendere oltre.

Le scrissi su WhatsApp e lei, che stava online nello stesso momento, rispose immediatamente.

***

Fu una settimana di passione e scoperte.

Tra un buco e l'altro nella sua schedule di voli interni, Annachiara ci raggiungeva per farci da guida in questo o quel quartiere, grandi come intere città e all'apparenza tutti uguali.

Di tanto in tanto venivamo fermati da gruppetti di ragazzine o da uomini di mezz'età che volevano farsi una foto con lei, manco fosse chissà quale celebrità. Lei minimizzò il fenomeno, pareva che alle ragazze occidentali bionde capitasse di continuo: – Spesso succede perché, al pari del nostro stereotipo nei loro confronti, agli occhi degli asiatici siamo noi bianchi a sembrare tutti uguali. Forse mi scambiano per qualche attrice americana bionda che mi somiglia vagamente.

Ok, magari Anna non era la grande star che si pensavano i giapponesi, ma di sicuro era una bravissima guida turistica.

Non memorizzai nessuno dei nomi dei luoghi che visitammo (forse solo quello facile dell'antenna rossa stile Torre Eiffel) e tendo a fare un'ammesca francesca di percorsi e immagini in un tutt'uno indistinto, come se fossero avvenuti nel medesimo posto.

Ma ricordo benissimo ogni singola notte che passammo insieme.

Per evitare di buttare ancora fuori il povero Carmine dal nostro miniappartamento, affittammo stanze sempre diverse in quegli alberghi che si pagano a ore, tali "Love Hotel", in cui si può scegliere addirittura un tema strambo per ogni camera e sex toys abbinati per tutti i gusti.

Forse per via di quello, o per chissà cos'altro, ogni volta mi sentivo diverso. Una notte vestivo i panni di uno studentello con la cotta per la senpai, quello successivo ero un VIP internazionale con la fidanzata segreta, quello dopo ancora diventavo un disilluso uomo di mondo che si era fatto l'amante per dimenticare i dispiaceri di un matrimonio fallito.

Mi piaceva quel modo sempre nuovo in cui mi faceva sentire Annachiara. Non volevo che finisse e per questo continuavo io stesso a rifuggire quella conversazione da persone mature che, prima o poi, avremmo dovuto affrontare.

Invero, l'intero periodo vissuto in Giappone fu una specie di regressione allo stato adolescenziale. Nei momenti in cui lei non c'era, io e Carmine vagavamo per la città come dei ragazzini in gita di quinta superiore.

Spendemmo un capitale alle macchinette dei palazzi arcade, sale giochi enormi su interi piani di grattacieli, per lo più perdendo ma, qualche volta, conquistandoci grossi peluches e action figures impossibili da stipare in valigia.

Il nostro megastore preferito si chiamava Don Quijote, come il romanzo spagnolo, anche se vendeva ogni genere di cinesata possibile e immaginabile. Quando perdemmo la sfida con Annachiara su chi avrebbe avuto il coraggio di mangiare il natto, lei ci costrinse ad andare lì a comprarci dei kigurumi dei Pokémon e passare un'intera giornata in giro indossandoli. Io mi accollai quello di Charmender, Carmine quello di Squirtle e, segretamente, ne comprai uno di Bulbasaur per Teresa nella speranza (mai morta) che il trio si sarebbe ricomposto, prima o poi. Nonostante fossimo coperti dalla testa ai piedi da quelle cazzo di tute, come tramutati in pupazzi di pezza giganti, fummo cacciati da molti onsen che ci sgamarono lo stesso i tatuaggi.

– Che palle 'sto paradosso dei tatuaggi in Giappone! – urlò Carmine dopo che l'ennesimo bagno termale ci aveva negato l'ingresso. Annachiara ci aveva avvisati su quanto i tatuaggi fossero mal visti nel Sol Levante per via dell'associazione con la mafia giapponese, ma non le avevamo creduto.

– Sai che ti dico, Ca'? A questo punto l'unica cosa sensata da fare è farci tatuare ancora, proprio qui – proposi, in maniera quasi del tutto scorrelata. Forse volevo solo la mia esperienza alla Serpenti e Piercing.

Trovammo su Google un tatuatore consigliato da molti turisti a Shimokitazawa che, sebbene avesse uno degli studi più loschi che avessi mai visto, incise con mirabile maestria sul polso di entrambi il kanji di "amicizia" coi tratti che formavano la silhouette di un dragone.

Tutte le sere andavamo a bere a Kabukicho, l'angolo della città che non dorme mai, e ci appassionavamo (pur senza capirci un cazzo) alle risse tra gruppi di impiegati ubriachi e stanchi, o a quelle delle puttane appartenenti a clan diversi.

Quando arrivò finalmente il giorno libero di Annachiara, quella domenica, ci portò a leggere il nostro futuro negli stecchi di legno del tempio di Asakusa.

Il posto era così affollato che ci muovevamo a stento, anche se le ordinate file in puro stile nipponico aiutavano molto a non sentirsi sopraffatti. Lei ci spiegò che, per i giapponesi, quella tradizione fosse particolarmente importante da osservare all'inizio di ogni anno nuovo.

Giunto il nostro turno, dopo un'attesa che parve interminabile, pescammo un rametto a sorte da un contenitore cilindrico come un tassello della tombola. Quel numero ci indicò, poi, un cassettino dentro cui si trovava il biglietto con la predizione del nostro futuro.

Non ci avremmo mai capito un cazzo se non ci fosse stata Annachiara a tradurre.

– Azz', Carmine, hai pescato il più fortunato di tutti! – si congratulò lei, il foglietto fatto ondeggiare in alto sulle nostre teste – Vuol dire che una grossa fortuna sta per arrivare nella tua vita.

Carmine fece una smorfia poco convinta: – Considerato che questo viaggio è la cosa più bella che mi sia mai capitata da quando sono nato, basta davvero poco a migliorare le cose – replicò, fatalista.

Non potei fare a meno di ridere, gli diedi uno spintone affettuoso e gli urlai all'orecchio: – E magnate n'emozione ogni tanto, 'o scè!

– Lillo, anche tu hai pescato bene. Il tuo dice "Fortuna arriverà"! – continuò Annachiara, prima di stamparmi un bacio sulla guancia – Io invece ho avuto sventura! Ora vi faccio vedere cosa si fa in questi casi.

Si avvicinò a un grosso abete ai margini della piazza, già stracolmo di cartoncini arrevogliati ai rami più bassi. Prese anche il suo e lo legò vicino agli altri, poi annunciò: – Così si combatte la malasorte.

– Azz, oh, e poi dicono che sono i napoletani a essere un popolo di scaramantici! – sottolineò Carmine.

Lei sorrise e colse la palla al balzo per sciorinare un altro paio di curiose credenze asiatiche.

Andammo a mangiare la carne alla griglia in un ristorante così tradizionale che non c'erano neanche le sedie, tutti i clienti erano inginocchiati su dei sottili cuscinetti poggiati sul tatami.

– Da domani dovrò tornare a Roma per un po' – notificò Anna, a bruciapelo, con gli occhi bassi sulla piastra fumante in mezzo al tavolino.

Mi passò la fame istantaneamente.

– In che senso, scusa? Te ne vai? – lo stomaco mi si piegò in quattro, la voce si intorzò in gola.

– Non è che me ne vado... è che il mio lavoro è così. Sto da una parte per un po', poi vado via una settimana, poi torno e per qualche giorno sto da un'altra parte – commentò con noncuranza, fredda come l'acqua che si versò nel bicchiere.

Carmine mandò giù in fretta il suo boccone al sangue, poi mi lanciò un'occhiata complice e corse via con la scusa evergreen di voler andare a fumare.

Ci fu qualche secondo di concitata pausa finché lei riprese, con un filo di voce, per pronunciare quelle parole che, ormai, speravo di non dover mai sentire: – È il motivo per cui vedo poco anche il mio ragazzo...

Ecco.

Era arrivato.

Il momento del discorsone.

Strinsi i pugni sotto al tavolo e raccolsi tutto il coraggio che avevo in corpo per domandare: – Annare'... mi spieghi che cosa siamo e cosa stiamo facendo? – pur senza voler davvero conoscere la risposta a quel dubbio.

Lei parve estremamente turbata, come se proprio non si aspettasse un quesito simile. Aveva tenuto lo sguardo basso per tutto il tempo ma, a quel punto, alzò i grandi occhi per incrociare i miei e leggere nella mia espressione quanto fossi serio nella mia richiesta di delucidazioni.

– Lillo, tu... sei bello, divertente, e dolce. Mi rende molto felice passare del tempo insieme a te – espose in un rantolo balbettato – Però mi sento confusa. Non mi aspettavo di rincontrarti mai più. Non mi aspettavo di provare questa cosa... così... – il suo tono tradiva il dilemma nello scegliere le parole giuste – ... così forte, dopo tutto questo tempo. Io e Riccardo stiamo insieme da tre anni.

Azz', tre anni?

Voleva dire che, quando mi aveva messo gli occhi addosso al bar di suo nonno, già stava con quell'altro!

Provai a giocarmi quella carta a cazzimma: – Ok, però hai detto che io ti sono piaciuto subito, fin da quando ci siamo incontrati la prima volta. No?

Lei annuì senza tentennamenti. Allora decisi di rincarare la dose, con tono deciso: – E allora lascialo e mettiti con me.

Altro silenzio.

Iniziai a spazientirmi. Non capivo proprio quale fosse il suo problema, se quello che aveva detto di provare per me era vero.

Ma Carmine tornò proprio in quel momento.

Lei sembrò sollevata di rivederlo, io invece lo guardai con un po' di disappunto ma lui, giustamente, c'aveva ancora fame e pensò bene di mettersi a grigliare un altro straccetto con contorno di funghi anziché badare al mio sguardo torvo.

Mettendosi in bocca uno champignon abbrustolito, fece un commento su Tokyo che non memorizzai perché avevo ancora il sangue al cervello per la conversazione con Annachiara.

Loro si misero a discutere animatamente di non so quale posto che ancora non avevamo visto mentre io, ormai, mi ero chiuso in me stesso nel tentativo di capire in che cazzo di stato mentale e sentimentale fossi piombato.

– Tokyo non è certo il posto più bello del Giappone. Se volete vedere qualcosa di meglio dovete andare nel Kansai – la sentii elaborare in background, a un Carmine sempre più bramoso di scoperte – Osaka è praticamente la Napoli del Giappone.

Lui mi diede una pacca sulla spalla e mi guardò con gli occhi intensamente concentrati, per spronarmi a pensare meno e divertirmi di più: – Hai sentito, Lillo? Si va a Osaka?

Sospirai, sconfitto dalla strafottenza di entrambi nei confronti dei patemi della mia fragile anima: – Certo, Nellù, te porto addo' vuo' tu.

Fui sprucido per tutto il resto della giornata, e nun putev manc' fuma' perché in strada in Giappone è vietato. La rota e la tristezza mi stavano fagocitando il cervello, ormai totalmente estraniato da tutto ciò che mi circondava.

Carmine e Annachiara andavano a ruota libera, senza sollecitare miei interventi, che chissà cosa cazzo avessero da parlare così energicamente e così a lungo, ma mi rimase impresso con esattezza che nessuno dei due sputò nu minuto 'nterr.

O almeno così pareva a me, che non me li firav' cchiù e sentì.

– Perché ci sono così tante macchinette per le bibite a ogni angolo di strada? – tornai con la mente al presente giusto in tempo per captare il quesito di Nello mentre si avvicinava a uno sgargiante distributore rosso per prendersi una soda.

– Perché non le rompono – chiarì Anna, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

– Eh, infatti! Noi napoletani rompiamo sempre tutto – sbottai. Non so perché mi venne da dire una cosa del genere, certamente non mi stavo neanche riferendo davvero alle vending machines sulle strade giapponesi.

Finalmente si ammutolirono. Li avevo spiazzati.

Lui raccolse in fretta e furia la sua lattina dallo sportello e mentì platealmente: – Guagliu', scusate, tengo che ffà. Ce virimm' aropp – e si avviò alla cieca nella direzione opposta a quella verso cui stavamo andando.

Nessuno disse più niente.

Io inchiodai lo sguardo sul distributore automatico come se non ne avessi mai visto uno in vita mia. Il cuore mi rombava in petto come un tamburello siciliano, e temetti che il baccano rimbalzasse sui palazzi circostanti rendendomi ridicolo.

Annachiara prese il cellulare per controllare l'ora, o forse per fingere di farlo. Poi, bell'e buono, mi fece l'unica domanda che proprio non mi aspettavo che mi avrebbe mai fatto.

– Ma tu veramente vuoi stare con me?

Mi voltai a guardarla come se mi avesse chiesto una banalità, tipo se davvero mi chiamassi Filippo o se mi sostentassi respirando ossigeno.

– Nennè, ma sei seria? È da 'na semmana ca me faje spanteca', da quando ti ho sentito al telefono che davi gli auguri di buon anno all'innamorato tuo dopo aver scopato tutta la notte con me – allora non trattenni più lo sfogo furioso. Era arrivato il momento di togliersi tutti i sassolini dalla scarpa.

Sopra di noi sfrecciavano rumorose le automobili sull'autostrada soprelevata, il che mi spinse ad alzare ancora di più la voce per non farmi coprire dai loro ronzii e dalla pioggia che aveva iniziato a battere sull'asfalto.

– E io, che sono un coglione, la mattina dopo ti ho cercata lo stesso! – riconobbi, con il tono di chi è sorpreso persino da sé stesso – Ti ho cercata ancora, e non me ne pento! Perché sei bella, Annare', di una bellezza che mi stupisce ogni volta che ti guardo. Che non si manifesta solo nei tuoi tratti, ma anche nei tuoi racconti, nei tuoi movimenti, nelle cose che fai.

Pensai di confessarglielo: "Forse mi sto innamorando di te", ma non lo feci. Mi frenò più la paura di dirlo a voce alta a me stesso, che non quella di dirlo a lei.

Coi bei capelli che si stavano 'nfondendo, mi venne vicina al punto che sapevo di non poterle resistere.

La strinsi forte e ci baciammo.

La sua lingua calda, instancabile, non faceva prigionieri. Il mio senno diventava poltiglia nella sua bocca; si annientava quasi godendo della sua stessa morte, poiché consapevole di poter così diventare un tutt'uno con la sua saliva ed essere da lei ingoiato, trasportato e inglobato nei meandri di quelle sue curve perfette.

– Proviamoci allora – suggerì in un sussurro umido.

E io non volli sentire più nient'altro.

Mi bastava solo quello.

Le nostre mani si intrecciarono così saldamente da farmi temere che, se mai avessimo allentato la stretta, ci saremmo persi per sempre, e mi portò ad ammirare il tramonto sfumato dai nuvoloni blu petrolio sulla cima della torre di Tokyo.

Poi lei ripartì per Roma e noi prendemmo il treno in direzione di Osaka.



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