Track XXIII - Anna
Passai il resto della vacanza a bere, fumare e presenziare a ogni singolo evento mondano notturno che fosse organizzato sull'isola. Alla fine del mese, la conta dei nuovi contatti di ragazze che mi seguivano su Instagram era tale da potermi lanciare in una nuova carriera da influencer. O da tronista.
Sì, in fondo era sempre quella la strategia che usavo per seppellire i miei dispiaceri, da sempre. Mi ritiravo come un eremita per qualche giorno, a stento bevevo acqua per sostentare il mio metabolismo e poi, quando ne avevo le palle strapiene del mio stesso dolore, uscivo e mi mettevo a fare baldoria nella speranza di affogare le pene più grandi in mali minori, tipo hangover e risse puerili.
Avevo parlato della storia del vecchio a chiunque, fino all'esaurimento di chi mi ascoltava, specialmente quando ero ubriaco. La maggior parte delle interlocutrici mi assecondava con condiscendenza senza credere a una parola di quanto stessi raccontando, forse scambiandoli per deliri d'ebbrezza.
Mi erano rimasti impressi nel cervello gli occhi di Enrico quando ci eravamo salutati. Lui mi aveva stretto a sé così forte che immaginai, chissà, magari un tempo abbracciava anche il suo fratellino in quel modo, e mi aveva fatto promettere di non rinunciare mai al vero amore. Mi raccomandò anche di andarlo a trovare in Inghilterra semmai fossi capitato da quelle parti.
Mi resi conto solo quando era ormai troppo lontano, mentre agitava la grossa mano in aria dalla banchina d'attracco dei traghetti, che ero venuto a conoscenza di tutti i segreti del suo fratello morto ma non sapevo quasi nulla su di lui che, col suo racconto nostalgico e roco, aveva segnato così profondamente la mia estate caprese.
Sul ponte dell'aliscafo di ritorno verso Napoli digitai con mano tremante l'username di Elena nella barra di ricerca di Instagram. Ero pronto a rivedere il suo viso, cercare di carpire i pensieri più recenti sullo sfondo dei suoi occhi limpidi, immortalati in questo o quello scatto preso da qualcuno che non ero io. Invece niente; scoprii, con enorme disappunto, che il suo profilo era diventato privato e quello su Facebook lo aveva chiuso.
Ci riprovai di nuovo, stavolta più baldanzosamente, una sera di metà settembre. Ero andato in giro con Carmine prima che iniziasse il suo turno di chiusura, e mi feci lasciare col motorino nei pressi del Parco Ventaglieri. Camminai avanti e indietro sullo stesso metro quadro di vicolo, così tante volte che temetti di essere stato io ad aver ridotto il sampietrino sotto al suo balcone a una massa liscia e informe. Ero irrequieto e angosciato; non ero sicuro di cosa volessi fare e perché, ma c'era anche qualcosa di strano nella sua finestra che mi perplimeva. Non sembrava più "sua".
Immaginai di essere Vincenzo Russo, dritto come un chiodo, sotto al palazzo della sua ossessione amorosa.
Oi Marí, oi Marí, quanto suonno ca perdo pe' te...
Calciai via i mozziconi della sigaretta che avevo appena fumato troppo velocemente.
– ... famme 'ddurmí... – sospirai tra me e me.
E finalmente trovai il coraggio.
Citofonai.
Attesi per quelle che mi sembrarono ore, invece dovevano essere stati solo pochi secondi, finché rispose la voce severa di sua madre. Mi presentai e lei si ammutolì per un istante, prima di informarmi: – Ciao, Filippo. Elena non vive più qui, ora frequenta l'università a Torino.
Sentii il mio cuore sprofondare in quel mare scuro e piatto che avevo lasciato a Torre Saracena la notte di San Lorenzo, quando non avevo incrociato con lo sguardo neanche una fottuta stella cadente a cui esprimere il mio desiderio più disperato.
Avrei voluto chiederle come stava, cosa studiava, se aveva ancora i capelli corti e un sorriso irresistibile, invece dissi solo – Ok, grazie... arrivederci – e me ne andai a testa bassa come un verme.
Decisi di sfogare la mia frustrazione e i brutti pensieri nello studio, per poter dare almeno qualche esame durante la sessione invernale e un senso alla miseria che provavo.
Nel frattempo, ispirato dall'avventura isolana e dal colpo basso ricevuto al citofono, scrissi due pezzi nuovi di cui Andrea fu oltremodo entusiasta: – L'anno prossimo facciamo uscire questo tuo primo album, Lillù! – annunciò, e mi strinse forte al petto come se fossi il suo gioiello più prezioso.
Quella sera cenavo da lui insieme a Francesco e, quando fui brillo abbastanza, decisi di ammorbare anche loro col racconto del mio incontro col vecchio a Capri. Non mi aspettavo grande partecipazione emotiva, invece il nostro regista si dimostrò molto colpito da quella storia, di cui sembrava conoscere quasi più particolari di me. Forse perché, avendo studiato cinema, riusciva a collegare più dettagli storici di quelli che avevo potuto cogliere io.
Giurò sul suo onore professionale che, per festeggiare l'uscita del mio primo album, avrebbe tirato su un film per raccontare quella storia. Sapevo che metterla in mano a lui significava ridare vita, in forma aggiornata, alla poesia della Dolce Vita caprese del dopoguerra nel modo appassionato che lo contraddistingueva. Fantasticai su come sarebbe stato bello riportare i due storici amanti sfortunati su quella spiaggia mediante la sua pellicola, immortalarli un'ultima volta nel momento culmine della loro storia d'amore.
Se davvero fossimo riusciti a produrre qualcosa del genere, mi chiesi se Enrico lo avrebbe mai visto e riconosciuto.
Il resto dell'autunno mi scivolò tra le mani senza che riuscissi a tenere il passo, probabilmente perché spinto a forza da Carmine che si era messo a celebrare ogni singolo giorno trascorso che ci avvicinava al nostro capodanno in Giappone.
A Natale mi regalò il biglietto per Napoli - Bologna, vista insieme al San Paolo la sera prima del viaggione. La nostra euforia post-partita si trascinò, poi, fino a poco prima di salire sull'aereo a Fiumicino, quando festeggiammo il 3 - 2 al pub dell'aeroporto bevendo come spugne prima di imbarcarci.
Chissà se fosse l'effetto dell'alcol o l'incanto delle prime volte, ma proprio non riuscivamo a smettere di parlare di quanto fosse possente e magnifico l'aereo destinato ai voli intercontinentali. Effettivamente era enorme, come non immaginavo che potesse essere un bestione che si libra nel cielo senza sosta per così tante ore. Aveva due corsie di larghi corridoi con una lunga isola centrale di file da quattro posti, mentre noi eravamo seduti in una di quelle da due accanto al finestrino.
Carmine, che non aveva mai preso l'aereo prima di allora, si comportava come se fosse il passeggero di un viaggio intergalattico.
Passammo le prime ore di volo a scavare in lungo e largo nell'archivio di film, giochi e serie TV disponibili sullo schermo interattivo di fronte a ogni sedile, come due bambini che hanno appena ricevuto un giocattolo nuovo, finché le hostess non iniziarono il giro dei posti per portarci la cena.
Il mio stomaco brontolava già in modo molesto mentre le sentivo avvicinarsi, fin troppo lente, con la loro cantilena di "pork or veggie?". Ma la voce che infine si fermò col carrellino al mio fianco sinistro, un po' chinata in avanti per assicurarsi di sentire meglio la mia risposta alla sua cruciale domanda, mi suonò stranamente familiare.
Quando mi voltai, incuriosito, mi ritrovai davanti una bella ragazza bionda e sorridente. Navigai con lo sguardo dai suoi grandi occhi di melassa fino alla targhetta sul suo petto: "Annachiara" recitava l'intarsio a lettere latine e katakana sul metallo placcato in oro.
– Anna... sei Annachiara, la sorella di Clemente? – proruppi, forse a voce troppo alta.
L'assistente di volo spalancò gli occhi e increspò le labbra, perfettamente truccate di un rosa pallido, in un enorme sorriso: – Filippo? – mi riconobbe subito – Cosa ci fai qui?
Le presentai Carmine e spiegai che eravamo all'inizio di una lunga vacanza che progettavamo da tutta la vita.
Lei reagì in modo molto caloroso ed espansivo, proprio come quando ci conoscemmo la prima volta. Si ricordava, addirittura, dei discorsi appassionati che avevamo fatto su Final Fantasy e Evangelion sui tavolini del bar di suo nonno.
Mentre sistemava i vassoi con le portate del menù che avevamo scelto, propose: – Io non faccio in tempo a tornare a casa questo capodanno, devo lavorare! Ma visto che anche voi siete in città, potreste unirvi a me e un paio di colleghi per andare a vedere i fuochi di mezzanotte sul fiume Sumida domani.
Carmine urlò di gioia senza neanche lasciarmi il tempo di sentire la fine dell'invito: – Cazzo, sì! E poi potresti portarci un po' in giro, magari. Da quanto tempo stai a Tokyo?
– Quasi due anni – rispose lei con un pizzico di orgoglio, accettando di farci da guida.
Poi ci strizzò l'occhio e si accomiatò, passando a servire i passeggeri della fila successiva.
Due anni... mi sembrò incredibile che qualcuno potesse mettere tutta una vita in valigia e andarsene dall'altra parte del mondo bell'e buono, per così tanto tempo.
L'ultima volta che l'avevo vista era ancora una normalissima studentessa universitaria di Pozzuoli. Quella che mi ero ritrovato davanti su quell'aereo, invece, era una donna con una brillante carriera lanciata in un angolo di mondo a me sconosciuto, dove non aveva neanche più occasione di parlare la sua lingua nativa con nessuno.
Ragionai sul coraggio, la determinazione e la passione fuori dal comune necessarie per intraprendere un percorso come quello. Di certo, anche molta ambizione personale.
Sentii montarmi dentro il desiderio di raccontarle "Anche io ho fatto grandi cose in questi ultimi anni! Pensa che adesso ho migliaia di fan che aspettano ogni anno il 9 di maggio, solo per sentirmi cantare!", ma mi sentii subito un coglione per averlo anche solo pensato.
Quando finalmente atterrammo a Narita, dopo ben dodici ore di volo, il jetlag fu bello forte anche se meno di quanto mi fossi prospettato. Sarà stata l'euforia del momento, che non ci concesse neanche il minimo accenno di stanchezza.
Muovere il primo passo sullo Shibuya crossing che è, credo, uno degli scorci urbani più famosi del mondo, mi fece scattare nella testa le note di Viaggio al centro del mondo perché sentii di esserlo davvero.
Se non avessimo avuto dei valigioni più grossi di noi, come palle al piede, non ci sarebbe neanche venuto in mente di andare subito in albergo; anzi, la pulsione più forte era quella di andarci a sperdere per i vicoletti incorniciati dai cavi elettrici e dalle colorate lampade di carta, dove frotte di vecchi stanchi e curvi bevevano già come se fosse piena notte.
Invece erano solo le 17 e decidemmo che fosse la cosa più saggia andare a dormire almeno un paio d'ore, prima di festeggiare il capodanno con Annachiara e i suoi amici.
L'alloggio che avevo prenotato online mesi prima, senza troppa selezione, era una specie di affittacamere in un palazzone altissimo composto da minuscoli monolocali attrezzati con bagno e cucinino, incastrati in stretti corridoi a mo' di puzzle. Contrariamente alla leggenda che vorrebbe i giapponesi essere il popolo più pulito del mondo, in camera nostra trovammo polvere ovunque. Se non altro, il rapporto qualità-prezzo era ben ripagato dalla posizione centrale ad Akihabara, il vivace quartiere dei nerd.
Appena toccato il letto ci spegnemmo come device scarichi, per molto più tempo di un paio d'ore. Furono solo le urla del mio cellulare, che squillava senza sosta dalla tasca anteriore del mio zaino, a riuscire nell'impresa di risvegliarmi dal coma.
Risposi con estrema lentezza senza ricordare con esattezza chi ero e dove fossi: – Pronto?
– Filippo! Ma dove siete finiti? È da un'ora che ti chiamo! – riconobbi a stento la voce di Annachiara, più preoccupata che incazzata. Avrà pensato che ci fossimo già persi o peggio, finiti nella rete della malavita, in una delle città più grandi del mondo a milioni di anni luce da casa.
– Dimmi dove alloggiate che vi vengo a prendere.
Le inviai la posizione GPS su WhatsApp perché mi riuscì impossibile capire come usassero scrivere gli indirizzi in Giappone. Dopo una ventina di minuti ci aveva già raggiunti. Io, invece, stavo ancora cercando di raccogliere le energie per continuare a vivere, avendo sottovalutato alla grande l'effetto di mezza giornata di volo e otto ore di differenza con l'Italia.
Quando sentii bussare alla porta e andai ad aprire senza pensarci troppo, ero vestito solo a metà e mi stropicciavo gli occhi ancora appannati dal sonno. Ma mi convinsi subito di non essermi ancora del tutto risvegliato.
La ragazza che mi ritrovai davanti aveva tutta l'aria di essere una visione, anzi, mi sembrò di avere davanti una bambolina di porcellana. Dovetti strizzare le palpebre e scuotere la testa un paio di volte prima di realizzare che fosse una persona vera, o meglio, che fosse proprio Annachiara.
Portava i bei capelli lunghi acconciati con nastri e bacchette colorate, un kimono a stampa floreale dalle tinte pastello e degli alti zoccoli di legno smaltato di rosso.
Rimasi lì a fissarla, totalmente imbambolato, almeno per un minuto intero. Lei si fece paonazza. Con una lieve spinta mi scostò dall'ingresso e si fece strada dentro la stanza fino a chiudersi in bagno: – Scusa, devo fare pipì prima di andare! – urlò da dietro la porta.
Io ero ancora fermo impalato sull'uscio, col cuore contratto in uno strano spasimo.
Mi voltai per controllare se Carmine fosse stato colpito da lei tanto quanto me, invece era ancora impegnato ad armeggiare davanti allo specchio coi bottoni della camicia blu che stava indossando, del tutto incurante dell'arrivo della nostra accompagnatrice.
Quando Annachiara riemerse in camera da letto, lui le lanciò solo una breve occhiata per complimentarsi col suo look: – Uè, stai una bomba! – prima di tornare a chiudersi il nodo della cravatta scintillante che si era comprato per l'occasione.
Lei lo ringraziò e si voltò verso di me, che ero rimasto immobile a torso nudo con il pomello della porta ancora in mano come una testa di cazzo.
– Beh? Quanto tempo ancora ti serve per prepararti, Filì? Ci stanno aspettando! – mi rimproverò.
Dovetti raccogliere una grossa dose di energie, che non credevo di possedere in quel momento, per costringermi a destarmi dalla botta di sonno e dalla strana, inaspettata, emozione che mi aveva innescato la nuova arrivata.
Arrossii vistosamente e mi scusai, rifugiandomi in bagno per lavarmi e vestirmi.
Finalmente, un quarto d'ora dopo, eravamo per strada.
Annachiara si muoveva a Tokyo come se fosse sempre stata casa sua. Si districava con incredibile familiarità attraverso vicarielli che sembravano tutti uguali, sottopassaggi bui, intersezioni delle fermate della metropolitana che, al solo scrutarne la mappa, mi facevano venire il mal di testa.
Ciò mi permise, però, di concedermi il lusso di smettere di pensare. Mi affidai ciecamente a lei e alla sua sapienza, seguendone ogni movimento come sulla scia di una forza magnetica, per godermi ogni minimo dettaglio dei posti arcani e inediti che attraversavamo.
L'orologio segnava pochi minuti mancanti alle 23 quando ci ricongiungemmo ai suoi colleghi che aspettavano al parco in riva al fiume, già così stracolmo di gente che temetti non saremmo più riusciti a respirare se ne fosse arrivata altra prima di mezzanotte.
Dopo un breve giro di presentazioni di rito con le due colleghe hostess giapponesi e un tizio francese che era il marito di una di loro, iniziammo finalmente a bere. Avevo lo stomaco ancora scombinato dal viaggio in aereo, zero fame, e una voglia di fumare che ormai controllavo a malapena.
Durante una noiosissima conversazione su quanto fossero diversi i veri french toast da quelli che si vendono in Giappone, Annachiara venne a sedersi accanto a me e mi allungò la quarta birra della serata, quando avevo quasi dimenticato di averne già bevute altre tre.
– Mi devi assolutamente raccontare che cosa hai combinato in questi ultimi anni! – mi incoraggiò con un sorriso luminoso.
A quel punto mi risultava già troppo complesso riuscire a distinguere se fossi più stordito dalle birre o da lei, e mi feci sfuggire un sospirato: – Eh, sapessi, Annare'... – con un'intonazione molto più misteriosa di quanto avrei voluto.
Lei, ovviamente incuriosita, iniziò a tempestarmi di domande che non ero abbastanza lucido da riuscire a glissare finché, per fortuna, fu presto interrotta dal frastuono dei primi fuochi che avevano iniziato a sparare dalla riva opposta alla nostra.
Guardai l'ora sul cellulare. Le 23:56.
Pensai che tutta la gente che conoscevo avrebbe vissuto quell'esatto momento con svariate ore di ritardo rispetto a me. Mi trovavo letteralmente nel futuro. E tutto, nell'aspetto di ciò che avevo intorno, me lo faceva credere: i grattacieli fluorescenti, gli strani cellulari pieghevoli, i treni proiettile che sfrecciavano con l'autopilot sul ponte in lontananza, lo strambo abbigliamento della gente, gli spot degli idol digitali sui maxischermi HD che cantavano con voci sintetizzate.
Guardai la chioma dorata di Annachiara splendere sotto ai riflessi brillanti tracciati dai fuochi d'artificio nel vuoto sopra di noi. Mi parve un'incantevole aliena, coi tratti così familiari della ragazza con cui avevo preso il caffè al bar di via Toledo e, al tempo stesso, così perfettamente inserita in quel contesto allucinante che sembrava appartenere a un altro sistema solare.
Quando iniziò il conto alla rovescia e l'intero parco intonò, in un gioioso coro, i soli numeri in giapponese che conoscevo, presi d'istinto la mano di Annachiara e la strinsi forte.
I colori vividi e ipersaturi delle esplosioni specchiate sul fiume mozzavano il fiato, ma lei era su un altro livello quella sera. Non riuscivo più a staccarle gli occhi di dosso.
– San... Ni... Ichi... – urlava lei, all'unisono con gli altri spettatori in riva al fiume.
Poi si voltò verso di me, mi catturò anche l'altra mano nella sua ed esclamò: – Buon anno!
Io le sorrisi con calore, senza riuscire a trovare le parole per rispondere a quell'augurio, ma raccolsi piuttosto tutte le forze e il coraggio che mi erano rimasti in corpo per tirarla con decisione addosso a me e unire le mie labbra alle sue.
***
Con la testa completamente soverchiata dalla birra, appena quattro ore di sonno alle spalle e più di una decina di volo intercontinentale, mi stupii di riuscire ancora a reggere botta e scopare con Annachiara per tutta la notte di quell'inaspettato primo gennaio 2019.
In un breve attimo di lucidità che ci fece rinsavire entrambi da quell'incantesimo, sudati e ansimanti, mi resi conto di non sapere dove avessi abbandonato Carmine. Solo più tardi, quello stesso giorno, appresi che era stato furbo abbastanza da scoprire su Google dei posti per nerd e disoccupati in cui si poteva anche dormire: i Manga Cafè.
Il Giappone dalle mille sorprese.
Nonostante il senso di colpa che mi montò addosso nel realizzare di aver inconsapevolmente mollato il mio migliore amico da solo, in un Paese sconosciuto, la prima notte di pernottamento (nonché dell'anno), riflettei anche su che persona d'oro e insostituibile fosse Carmine.
Annachiara tornò a distrarmi dalle mie osservazioni sull'amicizia; mi cinse una gamba con le sue cosce lisce e incastrò la testa tra la mia clavicola e l'orecchio. Le accarezzai i capelli di seta, mentre lei giocava con i quattro peli di cui facevo mesto sfoggio sul mio petto.
– Ti faccio una confessione scema – spezzò quel pensoso silenzio con un sospiro emozionato e timido – Già dal primo giorno che ci incontrammo al bar di mio nonno, pensai che tu fossi proprio il mio tipo.
Rise imbarazzata e si alzò su un gomito per leggermi negli occhi la mia reazione più profonda a quella rivelazione. Il suo seno morbido premeva contro la mia spalla e mi annebbiava i sensi.
– Ma eri piccolino! – aggiunse, con lo sguardo divertito di chi sta scavando indietro nella memoria alla ricerca di un tenero frammento perduto – Invece ora ti sei fatto uomo...
Mi baciò lentamente morsicandomi con dispetto il labbro inferiore, preso prigioniero nella sua bocca umida e calda dal sapore floreale del suo rossetto semipermanente. La sua lingua mi sembrò la cosa più gustosa che avessi mai assaggiato.
Ne approfittai per scendere di nuovo con una mano verso il suo inguine per constatare, con gioia e anche un po' di sorpresa, quanto fosse ancora bagnata. Allora mi imposi nuovamente sopra al suo corpo e lei mi accolse gemendo e inarcando la schiena per ricevermi ancora più in fondo.
Non avrei mai più voluto alzarmi da quel letto scombinato e pieno di polvere ma che, quella notte, mi sembrava il nostro unico angolo di paradiso. Con le sue voglie e i suoi orgasmi rumorosi, urlati, scanditi dagli scippi appassionati che mi tracciava sulla pelle con le unghie e con i denti, mi incitava a continuare il mio moto ondoso dentro di lei, ancora e ancora.
Quando, infine, collassammo sotto al peso inevitabile della stanchezza e del sonno, maledii la limitatezza del corpo umano. Eppure era già mattina inoltrata e io non avevo ancora idea di che fine avesse fatto Carmine.
Fummo bruscamente risvegliati solo un'ora più tardi da una suoneria che non conoscevo e che, nel dormiveglia, intuii che provenisse dalla borsa di Annachiara.
Lei, infatti, balzò fuori dalle coperte come un lampo e afferrò il cellulare in gran fretta, forse temendo che fosse una chiamata di lavoro. Invece ebbe un momento di tentennamento prima di rispondere, quando lesse in sovrimpressione sul display il nome del mittente. Temporeggiò, pensosa, in fissa sul telefono che trillava disperato tra le sue mani, come un neonato che chiama la mamma nel cuore della notte.
Io ero troppo stordito per fare domande, ma rimasi a guardarla un po' in apprensione; mi chiesi se ci fossero problemi di cui non ero al corrente e che potevo aver aggravato in qualche modo.
Quando la musica si interruppe di botto e lo schermo si spense, lei rimase ancora lì con lo sguardo attonito e tutte le membra irrigidite. Tempo neanche un minuto, la suoneria riecheggiò nuovamente nel monolocale e il suo ritmo cominciò a essermi insopportabile. Mi portai due dita alle tempie per massaggiarle energicamente: – Anna, ti prego, fallo smettere – implorai.
Lei corse nel cesso microscopico, separato dal letto solo da una parete ad angolo che sembrava carta velina.
E fu allora che la sentii rispondere alla chiamata, con un sospiro nervoso e concitato: – Ciao, amore, buon anno! Com'è andata ieri?
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NdA: Eeeeee, quindi, è tornata Annachiara! Forse non nel migliore dei modi? Ma tant'è...
Ve la ricordavate? Che ne pensate del suo personaggio? Vi incuriosisce? 🤗
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