Track XX - Capri Rendez-vous pt.1


Finalmente a casa, proprio mentre mi schiaffavo di peso sul divano come se il mio corpo non avesse mai assunto posizione supina prima di allora, appresi con sgomento che non mi sarebbe stato concesso di riposarmi nemmeno ad agosto.

– Teso', ha chiamato la nonna... – esordì mamma, e già il preambolo non prometteva nulla di buono – ... ha chiesto se puoi passare un paio di giorni con Gianpaolo a Capri, che deve iniziare un tirocinio della Regione all'hotel sulla spiaggia di Marina Grande.

Gianpaolo era l'unico figlio della sorella maggiore di mia madre, nato con una lieve forma di autismo. Da quando aveva compiuto diciotto anni, un paio di mesi prima, non avevano fatto altro che sbatterlo da un apprendistato all'altro nella speranza che qualcuno lo assumesse permanentemente.

– E che c'azzecc ij? – sospirai, gli occhi al cielo.

Ero esausto.

– Lo aiuti a capire quello che deve fare, Lillù – espose lei, come se fosse una cosa così scontata da rendere la mia protesta ridondante.

Tutti in famiglia erano iper-apprensivi con quel ragazzo. Lo trattavano come un decerebrato, anche se io avrei scommesso tutto quello che avevo che fosse più sveglio di tutti loro messi insieme.

– Deve stare alla reception, magari lo puoi aiutare con le lingue straniere – precisò mamma, come ulteriore spezia su quell'impiattamento di vaghe giustificazioni.

Mi feci dare il nome dell'hotel e lo cercai su Google.

Scoprii che si trattava dell'albergo più costoso di tutta Napoli a cui, chiaramente, faceva comodo ripulirsi la coscienza per l'essere un covo di padroni borghesi dimmerda, assumendo "casi umani" e pubblicizzandolo online.

Lanciai uno sguardo risentito a mia madre che tuttavia passò inosservato, perché era china sui fornelli a preparare la cena.

Fui intenerito dalla sua schiena curva e stanca, i capelli arruffati chiusi dentro al mollettone scolorito, le ciabatte di plastica grattata, il modo brutale e approssimativo in cui afferrava le cipolle sminuzzate sul tagliere e le menava dentro alla pentola.

– Mammà – esclamai, sorpreso io stesso da quello che stavo per dire – Vieni anche tu con me! Ti voglio regalare un intero mese da principessa a Capri. Così, almeno una volta nella vita, ti fai delle ferie come Cristo comanda.

E quello sarebbe stato già il terzo viaggio che mi veniva in mente di regalare, quell'anno. Meno male che LIBERATO stava andando così bene da potermi permettere quelle spese folli.

Mamma girò lentamente la testa verso di me, quasi avesse paura di essere piombata in un sogno e che, voltandosi, si aspettasse di ricevere il brusco contraccolpo del risveglio.

Sgranò gli occhi e allungò verso il basso gli angoli della bocca, incredula: – Che staje ricenn', Lillù? Ma l'hai sentito bene il nome dell'hotel?

La sua reazione scomposta mi strappò una risata: – Eh, l'aggia sintut'! Proprio lì ti voglio portare.

***

Dopo la breve parentesi del festival pugliese a luglio, ultima tappa di quel frenetico tour estivo del 2018, ormai perfino io non vedevo l'ora di andare a fare il nababbo a Capri.

– Gianpaglia! – strillai mentre chiavavo un pacchero affettuoso sulla larga nuca di mio cugino, quando ci trovammo a prendere l'aliscafo dal molo Beverello insieme.

– Filippo... – mi rimproverò mamma, chiusa in un facepalm.

Ma Gianpaolo rise fragorosamente di rimando, a sfoggiare tutti i suoi incisivi storti, e mi abbracciò con calore smisurato.

Una sera di qualche anno prima, mentre stava a cena da noi, aveva visto me e Carmine fumarci una canna sul balcone. Quando aveva chiesto cosa stessimo facendo, davanti a tutta la famiglia, mia zia lo aveva arronzato inventandosi che ci fumavamo la paglia pur di non dovergli spiegare cosa fosse la marijuana.

Io e Carmine avevamo riso così forte, per ore filate, che il poverino dovette accollarsi il simpatico nomignolo di "Gianpaglia" da allora.

Durante il tragitto per mare mi azzeccò le cervella col racconto dell'agognata fine della scuola (si era finalmente diplomato al professionale per il turismo), di tutti i saltuari lavoretti usuranti e sottopagati che aveva fatto negli ultimi mesi e mi confessò persino che, per lui, ero sempre stato un modello; avrebbe addirittura voluto seguire le mie orme nel campo della musica.

Rimasi colpito da tutto quell'entusiasmo e quell'affetto nei miei confronti. Mi sentii pure in colpa per il fatto di non frequentarlo mai e averlo lasciato in balia di quell'arpia di sua madre. Ma non potei trattenermi dal constatare, tra me e me, che gli sarebbe servito un miracolo per entrare al Majella poiché, già solo al pensiero di come fu complesso il mio esame di ammissione, pure io tremavo ancora come una foglia.

Gli promisi, comunque, che lo avrei aiutato il più possibile. A quella generica rassicurazione, lui mi gettò le braccia al collo come se fossi un santo e sulla faccia di mamma affiorò un'espressione commossa e orgogliosa.

L'idillio familiare si attenuò quando arrivammo in hotel e ci scontrammo con una quotidianità a cui non eravamo abituati: quella dei ricchi.

La manager che ci aveva accolti trattò subito me e mamma con la tipica gentilezza farlocca che si riserva ai clienti paganti, mentre si rivolse con strafottenza e sufficienza nei confronti di Gianpaglia.

Proprio lui che era lì per faticare per loro.

Mi morsi la lingua per non prendermi la disturbata già nei primi cinque minuti di vacanza, ma non mi trattenni dal far notare alla "signora" il fatto che io e mamma fossimo parenti del nuovo stagista e che gli saremmo stati accanto per tutto il tempo del tirocinio.

Lei accolse la notizia con un sorriso fintissimo e uno sguardo che mi lasciò già intuire come avrebbe continuato a trattare Gianpaglia in privato, quando non avrei potuto vigilare sulla sua cazzimma.

Poi ci separammo quando mio cugino fu affiancato da un inserviente che sarebbe stato il suo mentore, mentre la stronza ben vestita guidò me e mamma in camera nostra.

Come promesso, avevo affittato per mamma una stanza Superior col terrazzino affacciato sul golfo e la discesa privata sulla spiaggia.

Mentre lei ascoltava a bocca aperta la responsabile istruirci su tutti i servizi inclusi nel pacchetto, "Piscina, palestra e sì, certo, signora, anche la sauna", ci raggiunse un cameriere con i welcome drinks su un carrellino tutto per noi. Dopo mille cerimonie, se ne tornarono finalmente affanculo da dove erano venuti.

Mamma si voltò allora verso di me con gli occhi lucidi ed esterrefatti. Bisbigliò con un flebile tremore nella voce: – Lillù, se scopro che tutti questi soldi li stai facendo di nuovo con la droga... Te lo giuro che come ti ho fatto ti distruggo – ma interpretai il suo tono come più commosso che minaccioso.

Spalancai un sorriso da un'orecchia all'altra e la abbracciai: – Mammà, ma nun staje buon'? Secondo te ti portavo a fare la regina così alla luce del sole, se guadagnavo ancora in quella maniera? Proprio dopo essere già stato in galera?

La risposta parve tranquillizzarla, sebbene mi domandai come facesse a fidarsi ancora così tanto di me. Certo, Andrea era stato carismatico e convincente, ma io non mi sentivo meno capa di cazzo di prima né credevo di aver dato particolarmente prova del contrario.

Distratto dal rumoroso brontolio improvviso del suo stomaco buttai l'occhio all'orologio e mi accorsi che, nel frattempo, si era fatta ora di pranzo. Avevamo così tanto ben di Dio da bere e mangiare sopra al carrellino di benvenuto che decidemmo che sarebbe stato il nostro pranzo. Lo spingemmo sul terrazzo per goderci lo champagne con lo sguardo perso lungo la lontana costa puntellata, come non avrei mai pensato che ci saremmo potuti permettere di fare nella nostra vita.

Non mi era mai interessato "sfondare", diventare ricco per il gusto di essere ricco e per potermi credere di essere un cazzo e mezzo, traducendo i soldi in influenza sul prossimo. Crescere con una madre single con le pezze al culo non aveva fatto di me il guaglioncello dei quartieri in cerca di rivalsa. Il motivo, magari, era puramente ideologico. Oppure, chissà, carattere. Forse per lo più riconducibile all'esperienza diretta con gli altoborghesi che mi era capitato di conoscere (mio padre e la sua famiglia primi tra tutti, senza dimenticare Erica e i suoi), che si erano sistematicamente rivelati dei pezzi di merda a cui non avrei mai voluto associarmi.

Le ragioni per cui avevo imboccato la strada dello spaccio non avevano nulla a che fare con l'arricchirmi o con l'ambizione di scalare le gerarchie alla "capo dei capi". Era stata, piuttosto, l'illusione di indipendenza che mi dava l'avere un impiego con cui guadagnavo bene senza faticare troppo, mentre mia madre era costretta a sgobbare quasi dieci ore al giorno per pulire il vomito dei creaturi sui banchi delle scuole di mezza Napoli.

La osservai sorseggiare con lentezza il suo cocktail, rapita dal contorno sfumato del Vesuvio. Indossava degli occhiali da sole con lo smalto increspato su un angolo, e qualche glitter staccato dalla composizione di quello che una volta doveva essere il logo del negozio della Pignasecca dove li aveva comprati.

Tutto quello che volevo, in realtà, era poter guadagnare bene per lei. Ironico che avessi deciso, invece, di tenerla all'oscuro della brillante carriera in cui ero incappato quasi per caso.

Ciononostante, l'intenzione primaria era ancora di renderla orgogliosa di me, sicura della scelta sacrificata che aveva fatto di tenermi e crescermi, fiera di com'era stata in grado di educarmi tutta sola.

Chiaro che, a quel punto, il mio desiderio più in grande fosse di riuscire a guadagnare bene anche per i miei amici, per la mia comunità, per la mia città. Per restituire qualcosa agli altri. Altrimenti che senso ha la ricchezza, se non viene redistribuita?

Mamma interruppe il mio flusso di pensieri col brusco rumore di un selfie scattato int'a scurdat', che flashò entrambi con l'innaturale luce della sua app di fotoritocco coreana e che mi immortalò con una faccia da fesso allucinato.

Emise un risolino sguaiato e lo inviò dritto dritto alla chat di famiglia su WhatsApp. Sua sorella, la madre di Gianpaglia, reagì subito con un secco "Quanti sacrifici ripagati", che suonò incredibilmente stonato, invidioso e fuori luogo.

Mia madre e quella lota della zia non potevano essere persone più diverse, per fortuna mia.

Lei tornò per un attimo con gli occhi fissi sul vulcano, che sovrastava il mare di un blu accecante, forse nel tentativo di nascondere quanto fosse rimasta piccata da quel messaggio.

Buttò giù di fretta l'ultimo sorso di alcol come se avesse paura che potesse smaterializzarsi da lì a poco senza il suo consenso, e tossì, per schiarirsi la voce e, credo, anche le idee.

– Filippo, tesoro mio – irruppe, con inflessione grave e intensa, in quel silenzio tormentato da brutti pensieri che si tagliavano con un grissino – Io sono felice di esserti madre. Anche se non posso negare di aver rimpianto innumerevoli volte la scelta di accollarmi un figlio, generato in circostanze discutibili e in un momento in cui non ero affatto pronta per una cosa del genere, del tutto sprovvista dei più basilari mezzi mentali ed economici per sostenere la tua crescita.

Gettato così, inaspettatamente, in fondo al burrone di ricordi e rimpianti di mia madre, fui quasi spinto a chiedermi se fosse un brutto sogno o se quel poco di alcol che avevo bevuto mi avesse già dato alla testa. Mamma era sempre stata una persona schietta e diretta, ma non mi aveva mai parlato in quel modo prima di quel momento.

– Lo sai già che, nello stesso periodo in cui rimasi incinta io, lo erano anche le mie migliori amiche... – continuò, col trasporto di un fiume in piena, in riferimento alle madri di Teresa e Carmine – ... e, lì per lì, ammetto che quello fu il condizionamento più forte che mi portò a tenerti. Si sommò poi all'ostracismo di tua nonna, alle sue urla dalla mattina alla sera su quanto mi stessi inguaiando la vita, che finirono col farmi incaponire ancora di più invece di farmi desistere.

Mi trafisse da parte a parte con i profondi occhi lucidi, ma non tristi quanto, piuttosto, commossi: – Tu sei stato in prigione. Costretto dentro a quelle quattro mura, giorno dopo giorno, ti sarai chiesto quando ne saresti uscito e come avresti fatto a ricominciare. Mo immaginati che quello è lo stesso modo in cui mi sentivo io quando sei nato.

Le sfuggì un singhiozzo, forse per l'alcol bevuto troppo in fretta oppure per il pianto contenuto a stento.

– Ma da una prigione si può uscire, dalla maternità no. Ero diventata, dall'oggi al domani, prigioniera eterna di quell'esserino indifeso che urlava e piangeva senza sosta, a cui avevo l'obbligo di dare sostegno come se io non avessi esattamente quel suo stesso stato d'animo disperato – scosse la testa e si addentò un'unghia come goffo tentativo di rallentare il flusso dei ricordi tetri che riaffioravano – Essere messi al mondo è una violenza, perché non lo decidi tu. Io, inconsapevolmente, ti ho fatto questo con leggerezza e poi ho dovuto accettare di pagarne il prezzo quando la tua capa tosta si è messa a ragionare per conto suo.

Mentre parlava il cielo mi sembrò diventare sempre più coperto, pure se un attimo prima non c'era neanche una nuvola.

Concluse a ritmo di un frammento di unghia che si spezzava tra le labbra piene: – Anche se una parte di me si è pentita di essere diventata mamma, questo non significa che io non ti voglia un bene dell'anima. Di questo devi sempre esserne certo.

Non sapevo più dove distogliere lo sguardo per mantenere intatta la mia parvenza di impassibilità. Ma risposi, di getto, qualcosa che avevo sempre voluto dirle: – Staje senza pensier, ma'! Che, tanto, se mi avessi abortito non me ne sarei mai accorto. Non ho motivo per serbarti rancore mo e, tanto meno, lo avrei avuto in quel caso.

Quella constatazione riuscì a strapparle un sorriso.

Per qualche minuto ci raccogliemmo in un teso ascolto del rumore delle onde, quasi a voler sincronizzare l'andamento delle nostre riflessioni alle stesse, placide e noncuranti, mentre quel dubbioso silenzio mi alimentava anche un pizzico di disagio e amarezza. Non tanto per la confessione di non essere stato un figlio voluto e progettato a tavolino (quando mai avevo creduto di esserlo?), ma più per il fatto di sentirmi come se fossi un inconsapevole reo per aver tolto e negato qualcosa di importantissimo a lei.

A sopresa, riprese con tonalità più gioiosa: – Ora tu tieni l'età che c'avevo io quando ti ho partorito. E sei un ragazzo meraviglioso, proprio il tipo che avrei voluto accanto in quei momenti e che invece nun song maje stata cazz 'e truvà – in effetti, riportai alla memoria che l'ultimo fidanzato che mamma aveva accolto in casa risaliva a più di quattro anni prima.

Si corrucciò in una smorfia e schioccò la lingua, come a voler sputare nel mare il disappunto per la sua vita amorosa.

– Lo so di non essere stata una mamma modello, che tante cose che ti ho fatto mancare poi te le sei andato a prendere da solo nel peggiore dei modi. Che un po' dell'irruenza di quella capa di cazzo di tuo padre l'hai ereditata senza che io riuscissi a evitarlo... – batté un colpetto sordo con una mano chiusa a pugno dentro al palmo dell'altra – ... però sono certa che almeno un buon insegnamento sono in grado di dartelo: la retorica del "sacrificio" è una stronzata. È un inganno studiato apposta per imporre alle persone di fare cose che non vogliono, con la promessa di farle sante martiri agli occhi della società. Fingono di assurgerle a modelli da seguire fino a farti credere che il mondo possa essere portato avanti solo così, sulle spalle di chi si sacrifica. Invece non è vero niente, il modo di evitare che certuni debbano sacrificarsi a beneficio di altri c'è sempre, quello che manca è la volontà di interrompere questo circolo vizioso.

A quel punto mi ero perso ormai, non sarei riuscito a discernere con certezza dove finissero i riferimenti astiosi alla nostra famiglia e iniziassero quelli verso il sistema-mondo.

Prese di peso la bottiglia di spumante quasi vuota dal secchio e si versò un altro mezzo bicchiere. Poi annuì con ritrovata convinzione, come a dare la sua approvazione al discorso che aveva appena fatto lei stessa.

– Spero vivamente che 'sta spesa enorme che stai facendo per regalarmi questa vacanza non sia un sacrificio per te – aggiunse con solennità.

Disorientato da quanto avevo appena ascoltato, ci misi qualche istante per processare quell'afflusso inaspettato e non sollecitato di informazioni. Non avrei mai potuto immaginare di finire, in vita mia, partecipe di un fiume di dichiarazioni così intime su di me, sulla mia nascita e sull'incubo post-parto vissuto dalla mia giovane madre che, evidentemente, aveva covato quella sofferenza per tutti i vent'anni della mia esistenza. O almeno gran parte di essi.

Ribattei con irruenza, gli occhi piantati sulle paste rimaste ancora intatte sul vassoio del catering: – No, ma', ti prometto che non mi sacrificherò mai per niente e per nessuno.

Lei si fermò a osservarmi con espressione seria e severa, quasi trattenendo il respiro per analizzare e convincersi della sincerità di quanto aveva sentito.

Forse si aspettava che dicessi qualcosa di diverso?

Sarei dovuto essere più empatico, dopo il monologo introspettivo e strappalacrime di cui mi aveva appena reso partecipe e che mi coinvolgeva in prima persona?

Però non seppi davvero cos'altro dire.

Mi tolse dall'imbarazzo quando si accese in uno sfolgorante sorriso e picchiettò con affetto una mano leggera sulla mia guancia.

– Come impara in fretta il mio Lilluccio! – asserì soddisfatta.

Allora mi venne in mente che, invero, quella lezione da lei l'avevo già imparata ben prima di quando avvenne quel discorsetto madre-figlio.

Era proprio perché non mi andava di "sacrificarmi" che era nato LIBERATO.

Non volevo sacrificare la normale vita di Filippo per quella da celebrità; il mio poter girare libero per il mondo senza essere fermato e riconosciuto, poter cantare versi intimi senza che intaccassero la sacrosanta privacy di chi li aveva scritti e vissuti, di non essere giudicato come persona ma, al massimo, come personaggio.

Sorrisi a mia volta: – Tu, però, ora la devi smettere di preoccuparti. Sii felice e goditi quello che abbiamo adesso – le rammentai, indicando il tatuaggio scolorito dal tempo che aveva sulla sua spalla sinistra. CARPE DIEM in capslock.

***

Tra pomeriggi di cruciali confessioni e mattinate di tuffi in un mare più caldo del brodo primordiale, la prima settimana trascorse velocemente.

Io e mamma cercammo, con gran fatica, di abituarci al lifestyle da ricconi e goderne senza sensi di colpa mentre Gianpaglia, che aveva il tempo di stare con noi solo per cena, era ogni giorno più scamazzato dal lavoro.

Una mattina che mamma stava spalmata al sole in spiaggia e mio cugino era impegnato a registrare il check-in di un'enorme famiglia che aveva tutta l'aria di essere di nobili arabi con l'intero harem a seguito, io sedevo distrattamente nella hall dell'albergo a guardare video di liutai ASMR su YouTube.

Non mi ero neanche accorto che qualcuno si fosse seduto accanto a me.

– Sembri uno che soffre molto per amore – una voce roca e profonda, decisamente troppo vicina, attirò la mia attenzione.

Alzai lo sguardo per incontrare quello del commentatore, che era nascosto dietro un paio di occhiali da sole piccoli e tondi nonostante poco si adattassero all'ampio faccione barbuto dell'uomo sulla settantina che aveva interrotto il mio cazzeggio.

Notò il mio spaesamento e rincarò: – Si capisce dalla tua manica di tatuaggi – mosse il grosso dito indice in direzione del mio braccio destro.

Fu la prima, forse unica, volta che mi capitò di imbattermi in qualcuno di totalmente sconosciuto che si prendesse il disturbo di leggere così a fondo dietro ai segni che avevo deciso di tracciarmi permanentemente sulla pelle.

Rimasi a fissarlo in silenzio, senza aver voglia di ribattere né avere idea di cosa dire.

La mia reazione ermetica non gli fece passare la voglia di investigare: – Sto forse sbagliando?

Parlava in modo molto distinto e signorile, anche se con il marcato accento isolano dei capresi.

Scossi leggermente la testa, poco convinto di voler davvero rispondere a una domanda capziosa e ficcanaso come quella.

L'uomo rise, forse divertito dalla confusione che mi aveva suscitato con il suo comportamento invadente: – Scusa, non volevo metterti in imbarazzo! Mi hai incuriosito perché è la prima volta che vedo qualcuno con il tuo look frequentare un posto come questo.

Puntualizzava con disinteressato candore quanto il mio vecchio completo estivo (canotta e pantaloncini sintetici presi a Porta Nolana) fosse fuori luogo nel contesto di stucchi dorati, divanetti di seta, facchini e ghirigori barocchi come quelli di un albergo a cinque stelle. Certo, la mia manica di tatuaggi fatti ai quartieri con due lire, la barba sfatta e i capelli ancora spettinati dalla piega del cuscino non aiutavano a migliorare la mia presentabilità nel complesso.

Mi strinsi nelle spalle, non avendo ancora deciso se fosse o meno il caso di offendermi.

– Eh, già. Non sono un "old money", se è questo che intendete dire – dichiarai schiettamente, ma senza risentimento.

Lui rise di nuovo, stavolta con ancora più gusto di prima, al punto che lo sforzo gracchiante in fondo alla sua gola mi fece quasi temere che stesse per rimanerci secco: – Sei uno dei nuovi calciatori del Napoli, allora? – tirò a indovinare.

Io sorrisi con cortesia, indicai i miei polpacci molto poco allenati e scossi di nuovo la testa: – No, sono solo un cocco di mamma in trasferta di famiglia – spiegai, volutamente vago. Ma lo sguardo mi cadde giù alla spiaggia oltre l'ingresso, dove mamma si stava abbrustolendo come una lucertola da almeno un paio d'ore.

Il vecchio la notò ed esclamò: – Ah! Sei il figlio di quella bella signora che somiglia a... come si chiama quell'attrice napoletana... – tentennò, non gli sovvenne il nome.

Però capii subito chi avesse in mente, perché mamma aveva un sacco di ammiratori per quel motivo: – Sì, hanno anche lo stesso nome – confermai – Ma mia madre è un po' più vecchia.

Il mio pedante interlocutore annuì con aria appagata e si complimentò, a voce troppo alta, per il fatto che avessi ereditato i miei bei tratti somatici da lei. Proprio mentre stava per tendermi la mano per presentarsi, Gianpaglia mi reclamò da dietro al bancone della reception con voce implorante e piena di panico.

Mi congedai in fretta dal vecchio e corsi da lui, che aveva problemi a rispondere a una email di turisti spagnoli che erano stati truffati da un taxista abusivo a piazza Garibaldi.

Quando, con la coda dell'occhio, guardai di nuovo verso i divanetti dell'ingresso, l'uomo non c'era più.

Risolto il problema degli spagnoli, portai Gianpaglia a fare una pausa-caffè sulla stuoia di mamma in spiaggia. Nel frattempo, però, la folla ne aveva invaso ogni centimetro quadro e l'inquinamento acustico delle chiacchiere vacue misto alle urla di gabbiani e bambini avrebbe fatto impazzire anche il più assiduo frequentatore di rave desensibilizzato ai suoni. Alcuni gruppetti di ragazzini (coi timpani evidentemente già sfondati in tenera età) si erano perfino messi a competere per l'invisibile premio di possessori delle casse bluetooth economiche più martellanti di tutta l'isola.

In uno di quei gruppi, del tutto a sorpresa, scorsi Love. L'inconfondibile testa dorata e la sua pelle di porcellana svettavano di almeno mezzo metro su tutte le ramate abbronzature da agosto inoltrato che ossidavano la costa.

Mi tirai in piedi e catturai la sua attenzione facendogli segno con la mano. Lui ricambiò con un sorriso trasparente tanto quanto la sua pelle e, scansando con garbo la ragazza che aveva spalmata addosso, corse subito verso di noi.

– Uè, Filì, come stai? Non sapevo fossi anche tu qui – salutò, come a ricordarmi quanto poco aggiornassi i miei social. Non avevamo più avuto opportunità di vederci da quando eravamo tornati da Istanbul, ma avevo visto dalle sue stories su Instagram che pure lui era stato al mio concerto sul lungomare a maggio.

Gli presentai Gianpaglia e mia madre, entrambi già folgorati dalla nordica prestanza del mio amico.

– Io sto con mio fratello e degli amici nostri, siamo venuti a passare il weekend – puntò con un braccio in direzione della mezza dozzina di ragazzi da cui si era allontanato per raggiungerci – Stasera abbiamo in programma di guardare le stelle cadenti sulla spiaggia e poi andarcene in discoteca. Vi va di venire con noi?

Gianpaglia, senza neanche aspettare di sentire il punto di domanda a chiusura del suo invito, andò subito in visibilio. Mi scrollò una spalla con veemenza per pregarmi di unirci a loro, con gli occhi spalancati dall'emozione.

Storsi il naso e guardai mamma, nel tentativo di leggere nel suo sguardo se fosse davvero possibile azzardarsi a portarlo in discoteca. Ci avrei messo la mano sul fuoco che per lui sarebbe stata la prima volta, conoscendo la zia.

Lei si strinse nelle spalle e parve togliersi un peso dal cuore: – Massì, facciamoglielo fare ogni tanto 'nu gir a 'stu povero maronno!

Il suo benestare fu piuttosto eloquente.

Di conseguenza accettammo senza altri indugi e Love ci diede appuntamento per le 22 alla spiaggia Torre Saracena.

Gianpaglia e la sua arteteca mi impensierirono, ma avrei volentieri rischiato l'ira funesta della zia pur di farlo divertire almeno una notte della sua vita.


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NdA: Piccola curiosità, avete capito chi è l'attrice napoletana che somiglia alla madre di Filippo? 😁


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