Track XVII - Luntan' pt.1
Non seppi mai se Elena ricevette davvero quella rosa, la sera del 4 novembre 2017 a Torino, né se capì o si interrogò su chi fosse il mittente.
A tratti mi rammaricavo di non essere andato semplicemente a salutarla, magari fingendo di essere lì anche io da spettatore, perché frenato dalle mie paranoie, dall'eccessiva cortesia a cui mi obbligavo per qualsiasi cosa avesse a che fare con lei, e da chissà cos'altro. Altre volte, invece, mi pentivo addirittura di averle anche solo mandato quel regalo criptico da miserabile sfigato.
Che, comunque, quale effetto avrebbe mai potuto sortire?
Più probabile che il ragazzino avesse usato la mia rosa, piuttosto, per farsi lui quella posteggia. Poteva darsi che non le avesse affatto riferito l'insignificante dettaglio di essere stato pagato da qualcuno per portargliela.
Come biasimarlo? Messo di fronte agli occhi magnetici di Elena, di certo avrei fatto anch'io la stessa cosa.
Nonostante le feste che mi fece il team per l'ottima riuscita della prima performance, e il fatto che LIBERATO diventasse sempre più famoso e richiesto, la fine del 2017 fu per me un inferno. Perché, più si avvicinava il capodanno, più i pensieri mi si fossilizzavano sul fatto che non ne avrei avuto un altro insieme a lei.
Ciò che mi mantenne lucido e (più o meno) sano di mente, fu di impormi un focus totalizzante sui lavori per il nuovo pezzo, Me staje appennenn' amò. Ormai che lo avevo cantato out of the blue a Torino, all'insaputa di tutti, Andrea si era impuntato per farmelo lanciare al più presto.
Io, almeno per una volta, pretesi molta più autorità sul soggetto del video, nonostante temessi che quel lupo solitario di Francesco se ne risentisse. Invece, con mia sorpresa, me la concesse senza problemi.
Volevo che quel pezzo diventasse un omaggio a Elena e alla sua famiglia, in particolare all'epica zia Letizia e quello che le persone come lei rappresentano per Napoli.
Data l'ignoranza generale sul tema (non che fosse una colpa), Francesco fu costretto a fare molto più lavoro preparatorio del solito coinvolgendo l'Arcigay locale per accontentare le mie richieste inconsuete e specifiche. Così ne tirò fuori un lavoro magistrale che rappresentava, minuto per minuto, tutto quello che avevo chiesto.
Dubito che il messaggio intrinseco fosse così tanto telefonato che Elena o sua zia potessero mai accorgersene ma, per me, fu comunque importante anche solo il fatto di averlo potuto fare, condividere la mia dedica col mondo, nella speranza di arrivare pure vicino a persone con storie simili a quelle.
Il video uscì il 20 gennaio, il giorno del ventesimo compleanno di Carmine, quando gli regalai il viaggio in Giappone che avevamo sempre sognato da quando eravamo piccoli.
Guardai con sollazzo i suoi occhi balzare fuori dalle orbite non appena aprì la busta e cacciò fuori i biglietti aerei: – Un mese?! Un intero mese in Giappone? – gridò, con la mandibola per terra – Ma non me lo posso permettere, fra', moccachiteviv'!
Io sorrisi, calmo, soddisfatto dall'effetto sortito dalla sorpresa che avevo pianificato con tanta cura. Finalmente potevo permettermi di pagare ai miei amici dei regali degni di loro: – Penso a tutto io, tu non ti devi preoccupare di niente.
Con Carmine facevo affidamento con vigliaccheria sul suo senso di inferiorità atavico. Sapevo che non avrebbe mai scavato troppo nei dettagli di quello che facevo per lavoro, perché aveva paura di sentirsi stupido. Io e Teresa eravamo sempre stati quelli con un qualche "talento" o aspetto brillante del carattere, mentre lui passava per il classico medioman.
Non ero felice di adagiarmi su quella sua insicurezza, ma mi tornava fin troppo utile quando si trattava di glissare sull'origine dei miei guadagni.
Lui lanciò dei bestemmioni di gioia da lì a tutto il resto dell'anno, dato che il viaggio era programmato per la fine di dicembre così da passare il capodanno 2019 insieme dall'altra parte del mondo. Con la speranza che fosse la volta buona per passarcene uno come Cristo comanda.
Quel regalo fu anche una sorta di saluto prima di trasferirmi a Istanbul per il mio quadrimestre in Erasmus.
Partii l'ultima settimana di gennaio, tra le preoccupazioni di mamma e le ansie di Andrea. Stefano, purtroppo, non era riuscito a farsi accettare a Istanbul, ma ce l'aveva fatta a entrare nel gruppone per Malaga nello stesso periodo.
Con me sul volo low-cost da Roma a Istanbul c'erano, invece, gli altri due destinatari della mia stessa borsa di studio: una ragazza dai chilometrici ricci bruni di nome Zerya, di famiglia straniera seppur nata e cresciuta a Ercolano, e il biondissimo Love, uno studente mezzo svedese col padre originario di Portici.
La prima fu la mia vicina di posto durante il volo, e per questo ebbi modo di conoscerla meglio fin da subito. Impossibile che non catturasse la mia attenzione. Primo fra tutti il dettaglio che, nonostante fosse una delle ragazze più belle che avessi mai visto, si portasse addosso un'aura scura e drammatica dentro cui si nascondeva come in una nebbia, per diventare semi-trasparente agli occhi degli altri. Vestiva in modo sciatto e arronzato, ma non riconducibile alla disponibilità economica quanto più alla poca voglia o a un'assoluta mancanza di interesse. Le sue dita erano severamente compromesse dai morsi che si dava alle unghie e alle cuticole, con una nervosa costanza tipo tic. Dal primo momento che ci eravamo seduti in aereo, fino al momento in cui ci alzammo all'atterraggio, la vidi bere caffè senza sosta uno dietro l'altro.
Parlarle, però, era molto piacevole. Soprattutto istruttivo, direi, poiché aveva un livello di secchionaggine pari solo a quello di Teresa.
Era stata espressamente richiesta come studentessa di scambio dal professore turco da cui avevamo ricevuto la borsa di studio, attratto dal prodigioso talento che le era valso già la vittoria in svariati concorsi internazionali e che le aveva portato anche ingaggi di lavoro importanti nonostante fosse solo al primo anno.
Quando le feci i miei complimenti, lei si strinse nelle spalle con sufficienza e minimizzò: – I miei parenti che sono rimasti in Turchia sono tutti musicisti. In un certo senso, io sto solo continuando la tradizione di famiglia che i miei genitori hanno sfanculato quando sono emigrati e si sono dati alla ristorazione.
Lo disse con una punta di astio e amarezza, come se quelle circostanze togliessero straordinarietà ai suoi meriti e traguardi personali.
Lo spilungone Love, seduto al posto corridoio nella fila accanto alla nostra, colse la palla al balzo per farci sapere quanto fosse sollevato dalla notizia che la famiglia di Zerya fosse originaria di Istanbul, e che lei conoscesse bene sia la città che la lingua. Lui non fece mistero di essere parecchio in paranoia per i tumulti politici del Paese, di cui io mi ero interessato pochissimo, cosa che andò a sommare un ulteriore layer di nervosismo sullo già abbastanza agitato carattere della ragazza.
Dopo non meno di una buona mezz'ora di azzeccamento su attentati e colpi di Stato, lei tagliò corto e ci comunicò l'intenzione di dormire un po' prima di arrivare a destinazione.
Io non dissi nulla ma, in realtà, Love riuscì a trasferire una dose bella abbondante della sua ansia anche a me.
Poi però, quando approdammo finalmente sulla costa del molo di Karaköy, mi sembrò di conoscere quel posto da sempre e non essermi allontanato da Napoli neanche di un passo.
O per meglio dire: sì, Istanbul mi ricordava Napoli, ma on steroids.
Salimmo verso la zona del dormitorio studentesco con una funicolare così strapiena di gente che mi domandai se mai avessi visto così tante persone tutte nello stesso posto in vita mia.
E così tanti gatti.
C'erano gatti ovunque, anche sopra i tornelli della metro.
Iniziai a capire piano piano come orientarmi grazie a Zerya e Google Maps, e mi rallegrai che la zona del nostro campus fosse proprio Beşiktaş, una delle aree della città che già conoscevo per via della celebre squadra di calcio.
Ma sul serio, mi ci vollero meno di un paio di giorni per fare mia quella metropoli. Incredibilmente, dopo appena quarantotto ore, mi sentivo già a casa come non mi era mai capitato neanche in altre città italiane.
Dubito che esista nel mondo una sede universitaria più bella di quella della BAU. Ogni mattina correvamo giù lungo i vicoli affacciati sul Bosforo che profumavano di iodio e börek appena sfornati. Tra una lezione e l'altra bevevamo çay bollente (che dimenticavo puntualmente di miscelare, ormai convivevo con palpitazioni costanti) e fumavamo sulla terrazza dell'università di fronte al mare, come fosse una spiaggia.
I gabbiani ci snobbavano dalla sommità del loro volo, altezzosi, perché erano i veri padroni dello spazio aereo della città più bella del mondo. Solo i felini spadroneggiavano più di loro, sulla terraferma.
I professori erano severi come neanche il più azzeccato degli esimi musicisti italici sarebbe mai riuscito a essere. Non credo di aver mai studiato tanto come durante quel quadrimestre, eppure lo ricordo anche come uno dei periodi più spensierati che abbia mai vissuto in tutta la mia vita.
Legai molto con entrambi i miei compagni di viaggio.
Love era un ragazzo atipico per gli standard a cui ero abituato da vero maschio italiano™, ed era evidente il genere di educazione nordica trasmessagli dalla madre. Aveva una delicatezza nei modi, una gentilezza di carattere, una spiccata sensibilità sbandierata ai quattro venti, senza alcuna vergogna. Tutte qualità per cui chiunque nella mia vecchia comitiva gli avrebbe dato del frocio o, come minimo, dell'effeminato. Invece lui, proprio in virtù di quegli stessi tratti, scopava più di tutti (eh, sì, anche di me).
Tutte le sue conquiste, perfino le sveltine, finivano poi con il rimanere sue grandi amiche, oppure si tramutavano in regolari scopamiche se erano davvero fortunate. Il tutto senza drammi o complicazioni di sorta, nella maniera più naturale possibile.
Io, che pensai fin da subito che le ragazze turche fossero la versione 2.0 delle napoletane, pur volendo restare fedele al mio credo di "mogli e buoi dei paesi tuoi", accusai con una certa gravità e sofferenza il mio essere così average in confronto a Love.
Zerya riservava pochissime attenzioni sia a me che a lui. Se non fosse stato per noi, che cercammo in ogni modo di includerla nelle nostre uscite e conversazioni, lei aveva tutta l'aria di una che si sarebbe volentieri ritirata in clausura per tutti e quattro i mesi. Secondo Love era dovuto al fatto che lei conoscesse già bene la città, quindi non ne era coinvolta come noi che eravamo di passaggio.
Eppure spesso spariva per svariati giorni, saltava anche le lezioni e, quando tornava, si giustificava con la scusa evergreen degli "affari di famiglia" da sbrigare.
Non volli mai indagare oltre quello che Zerya stessa ci diceva ma, un giorno, fu proprio lei a menarmi in mezzo alle sue tarantelle familiari di punto in bianco.
Saltò a piè pari anche la più facile e veloce introduzione di cortesia a quello che avremmo dovuto fare. Mi prese da parte un mercoledì pomeriggio dopo l'ultimo laboratorio di elettronica e, con gli enormi occhi bruni penetranti e investigatori, mi domandò: – Hai tempo per accompagnarmi in centro domani? Ho paura che ci saranno disordini e ho bisogno di sostegno.
Capii che non l'aveva chiesto a Love perché, paranoico com'era, se gli avesse detto una roba del genere avrebbe provocato la sua fuga dalla Turchia nottetempo senza neanche approfondire di quali "disordini" si stesse parlando.
Io mi misi a disposizione, forse troppo a cuor leggero, e lei mi consegnò un piccolo cellulare antichissimo, un rudere di quelli che non avevano neanche lo schermo a colori, un po' scassato sui bordi e con l'antennina diroccata. Era spento e avvolto in un fazzoletto di stoffa ricamata.
– Intanto prendi questo e non lo dare ad anima viva, per nessun motivo. Hai capito? – ordinò.
Cominciò a montarmi l'ansia.
In che cazzo di bordello mi stava coinvolgendo?!
Annuii per puro spirito di altruismo e, direi, rassegnazione, deglutendo con forza l'angoscia crescente mentre Zerya concludeva con le sue ermetiche direttive: – Nascondilo bene in camera tra la tua roba, nessuno lo deve vedere.
***
Il giorno dopo era l'8 marzo.
Io non ci avrei neanche fatto caso se non avessi finalmente intuito dove eravamo diretti, a un certo punto della giornata.
Iniziai ad averne una vaga idea quando, sulla funicolare che avevamo preso per salire a Istiklal, fummo circondati da una fiumana di donne con bandane viola sulla faccia o sulla testa, che trasportavano grossi cartelli e striscioni.
La via dello shopping di Istanbul era sempre colma di folla e poliziotti rigorosamente armati di fucili automatici che manco Gomorra, ma mai come quel giorno.
Nel tentativo di farci largo tra la gente in direzione Taksim, Zerya intrecciò la mia mano nella sua e si strinse al mio braccio per inscenare un'intimità che non ci apparteneva: – Fingiamo di essere una coppia per cazzi nostri. Se la polizia ci nota, deve pensare che non abbiamo niente a che fare con la manifestazione.
... E invece ce l'abbiamo?, pensai tra me e me, confuso, ma senza avere il coraggio di chiedere ulteriori spiegazioni ad alta voce.
Più ci avvicinavamo alla piazza, più numerose diventavano le persone che urlavano e correvano da una parte all'altra della via con grossi megafoni, impegnate a dare indicazioni (che ovviamente non capivo) ai manifestanti.
Bell'e buono Zerya avvicinò il suo cellulare alla mia faccia, quasi a sbattermelo sul naso. Lo schermo era acceso su una vecchia foto in cui lei aveva i lunghi capelli intrecciati ed era impegnata a giocare con la sabbia, insieme a un'altra ragazzina coi capelli altrettanto ricci e gli occhi furbi.
– Probabilmente sarà bardata dalla testa fino ai piedi, o non la riconosceresti comunque perché la foto è di cinque anni fa, ma questa è la ragazza che siamo venuti a cercare – si decise a spiegarmi, poi si infilò in fretta il telefono di nuovo in tasca e si guardò attorno con circospezione.
Io tentai di sdrammatizzare: – Ancora affari di famiglia?
Lei annuì: – È mia cugina.
A quel punto non ero neanche più tanto sicuro di aver ancora voglia di sapere cosa cazzo stesse succedendo, o se fosse meglio restare all'oscuro di tutto e sperare che la giornata finisse presto.
Possibilmente senza morti e feriti.
Quando Taksim si aprì finalmente di fronte a noi, cercammo di raggiungere il monumento centrale affinché Zerya potesse avere visibilità di campo più ampia su tutta la piazza.
– Quando tutto andasse male, tu sai sparare, vero? – buttò lì con tono vago, impegnata a scrutare la marmaglia sotto di noi come se avesse il dono della vista a raggi X congenito.
Preso in contropiede mi misi a ridere, diedi per scontato che fosse una battuta: – Ovvio, lo sai anche tu che tutti i napoletani nascono 'co fierr 'n mano!
Lei mi osservò con interesse e una punta di sospetto: – Sarà meglio per te – considerò lapidaria.
– Ze', ma in che senso? – esclamai allora, con crescente agitazione, il sorriso mi si spense in faccia come un'eclissi.
Ma lei smise di rispondermi. Forse dimenticò proprio del tutto che fossi lì anch'io, per qualche momento.
In attesa che la cugina si manifestasse, non mi restò che studiare le mosse caute e decise di Zerya, con la speranza di imparare a gestire quella situazione di cui conoscevo così poco, anzi, praticamente nulla.
Faceva strano vedere una ragazza nata e cresciuta a Napoli, come me, muoversi con tanta agency in un posto lontano e, per certi versi, così diverso.
Sia lei che Love mi avevano scatenato la riflessione su quanto i ragazzi con il loro tipo di background familiare e culturale avessero una marcia in più rispetto a tutti noialtri persone "medie": italiani figli di altri italiani figli di italiani, da sempre abitanti del Bel Paese. Forse era quello il motivo per cui mi appassionavano così tanto le lingue straniere e i viaggi. Volevo sentirmi anch'io "cittadino del mondo e napulitan" alla maniera della canzone di Jovine.
Si formò un grosso assembramento in un angolo della piazza, tra il muretto della moschea e un carretto ambulante di simit, e Zerya lo tenne d'occhio per un po'. Ma fu solo quando alcune delle donne, che si erano unite al gruppo per ultime, issarono delle bandiere viola, che la mia compagna scattò verso di loro e mi trascinò per mano dietro di sé.
Proprio quando pensavo di averci capito qualcosa, però, lei non si rivolse a quelle stesse donne. Piuttosto, si addentrò ulteriormente nel cuore della calca, dove scoprimmo esserci tre ragazze a volto coperto ingaggiate nella scrittura di lunghi striscioni con delle bombolette rosse.
Insieme a noi, di stramacchio, si era insinuato dentro anche un poliziotto armato fino ai denti. Questi urlò qualcosa a richiamo degli altri suoi colleghi dall'altro lato della strada, mentre allungava una mano a bloccare il braccio di una tipa del trio centrale che aveva appena finito di scrivere una sigla di tre lettere a fianco al nome del presidente turco.
Mi accorsi che, mentre lui afferrava la ragazza, anche Zerya si era protesa ad agguantare la terza donna all'altra estremità della fila. La spinse contro di me e mi ordinò di non lasciarla scappare.
Io, ubbidiente, la chiusi in una morsa con entrambe le braccia e, d'istinto, la spinsi oltre la ressa che si stava facendo sempre più violenta, spedito in direzione della strada parallela a Istiklal oltre il muro della moschea.
La minuta figura che avevo inglobato, che doveva essere la cugina di cui mi aveva parlato Zerya, mugugnava e si agitava come un toro scatenato. Ebbi seriamente paura che ci facessimo male entrambi ma, per fortuna, quando le sussurrai all'orecchio: – Ti prego, stai calma – in inglese, lei smise di opporre resistenza.
Dietro di me Zerya mi pressava per continuare a camminare, con entrambe le mani tremanti agganciate alle mie spalle. Avevamo abbandonato la folla appena in tempo per evitarci di finire sotto alle manganellate impietose che la schiera di sbirri sopraggiunti riservò alle ragazze che erano rimaste attorno ai cartelloni. Fissai la scena con il sangue che iniziava a scorrere al contrario per l'orrore in cui mi gettò la visione di tanta violenza gratuita, mista alla consapevolezza di essere del tutto impotente.
Anzi, lì per lì stavo troppo cagato sotto per poter dire o fare nulla di diverso da quello che Zerya seguitava a ordinarmi. Di prendere qualsivoglia iniziativa non se ne parlava neanche ma, insieme all'ansia e alla paura, mi crebbe dentro anche una certa dose di rabbia.
Perché era vero che Zerya non poteva sapere dei miei trascorsi con la giustizia in Italia ma, anche se fossi stato incensurato, lei aveva messo un povero cristo straniero e del tutto inconsapevole in pericolo, e potenzialmente nei guai con la legge, in un Paese sconosciuto a centinaia di chilometri da casa propria.
Quando stramazzammo al suolo dopo aver corso a strapiombo per i vicoli in discesa verso il molo di Kasimpaşa, i Quartieri Spagnoli di Istanbul, raccolsi tutto il fiato che avevo in corpo e iniziai a inveire contro la mia compagna di viaggio. Entrambe stettero a sorbirsi le mie bestemmie con pazienza, senza interrompere mai, finché non ebbi finito e mi andai a sedere sotto la statua al centro dei giardinetti.
Zerya rimase in religioso silenzio, con gli occhi bassi, per un tempo che mi sembrò eccessivo e tedioso. Infine accontentò la mia richiesta di spiegarmi almeno a cosa avessi appena partecipato, visto che ormai c'ero dentro fino al collo pure io.
Quando iniziò a parlare, però, si accorse che la cugina aveva preso a trafficare col suo cellulare, il che la fece inalberare come non la credevo capace. Le strappò il telefono di mano e le bloccò entrambe le braccia, poi si rivolse di nuovo a me.
– Questa che vedi è quella capa di cazzo della mia unica cugina femmina. Gli altri, quelli maschi, sono già tutti in galera, o qui o in Siria – raccontò – Mi dispiace di averti messo in mezzo, ma il compito che la mia famiglia mi ha assegnato quando ha saputo che sarei venuta qui era veramente troppo grande per potercela fare da sola.
E così cacciò fuori, una volta per tutte, i fardelli che si teneva dentro da settimane.
Il fatto che non fosse turca, ma curda (mille grazie a Zerocalcare che, senza saperlo, mi aveva già istruito sulla faccenda), che la famiglia fosse impelagata in azioni di resistenza fin dagli anni '80 e che fosse quello il motivo per cui molti di loro stavano incarcerati oppure si erano dispersi, emigrati in Europa. Che la cugina aveva intrapreso un percorso politico con il partito di opposizione che stava sul cazzo al Presidente, il quale aveva subito iniziato a epurarli uno ad uno dal parlamento a partire dal leader, costretto a correre per le elezioni di giugno dalla cella.
– 'Sta demente vuole farsi ammazzare! – strillò con occhi severi ma, al tempo stesso, profondamente preoccupati e feriti.
Io domandai se non fosse il caso di parlare in inglese davanti a lei e Zerya rispose che Gulê, questo il nome della cugina, capiva l'italiano e un po' lo parlava pure, grazie alle estati d'infanzia che avevano trascorso insieme a Napoli.
– I suoi genitori sono venuti dai miei subito dopo le tarantelle del 2016 – puntualizzò. Ma Gulê no perché era cocciuta, "perché il popolo curdo c'ha la resistenza nel sangue e le donne curde più di tutti".
Lei era scappata di casa prima che potessero costringerla a espatriare con loro e fece perdere le sue tracce per due anni finché, dal momento che si era candidata al parlamento, finalmente erano riusciti a risalire a dove fosse. Zerya era certa che l'avrebbe trovata al corteo per l'8 marzo, e così fu.
– C'è una cosa che le serve per realizzare certi suoi piani, semmai riuscisse a entrare in parlamento... – insinuò – Ma quella cosa ce l'ho io e non gliela darò, a meno che non si decida a venire con noi in Italia e smettere di fare la pazza.
Compresi il riferimento al vecchio cellulare da me custodito. Un altro guaio che mi aveva appioppato addosso senza che io potessi neanche lontanamente capirne la portata. In soldoni: nascondevo nel cassetto delle mie mutande un fantomatico dispositivo importante per gli inciarmi curdi, e me ne andavo a spasso per le strade di un posto dove si manganellava la gente per molto meno, come se niente fosse.
Appena un paio d'anni prima, Giulio Regeni era stato freddato in Egitto per una roba che manco era illegale, come lo era in potenziale l'aggeggio che custodivo io.
Iniziai a sudare freddo, ma riuscii a mantenere un abbozzo della pokerface di rito, perché fare qualsiasi altra mossa mi avrebbe messo ancora più nei casini di quanto già non fossi.
Ma ch' sang' ra maronn.
Fino a quel momento la cugina era rimasta immobile a testa bassa. Eppure si capiva che non fosse un segno di resa quanto, piuttosto, di concitata attesa che Zerya si sfogasse prima di potersi accodare lei stessa con il suo turno di rimostranze.
Era un silenzio rabbioso che aspettava solo il giusto momento per esplodere.
Cominciò a parlare piano, appena sopraggiunse un attimo di silenzio abbastanza lungo da darle la possibilità di trovare il suo spazio: – Lasciami, cugina, adesso parlo io.
I loro occhi affusolati si incrociarono e Zerya la lasciò andare immediatamente, come se fosse caduta vittima di un incantesimo. O di un ordine militare.
– Nelle nostre vene scorre lo stesso sangue. Sappiamo bene entrambe, così come le nostre madri e le nostre nonne, fino alle nostre sorelle che verranno, che le donne curde non si nascondono e non scappano di fronte a niente – proseguì con un tono pacato che però trasudava note minacciose, in un perfetto inglese che lasciava intendere la volontà di includere anche me nell'ascolto delle sue ragioni – Io sono orgogliosa di questa eredità. Qualcun altro potrebbe viverla come un fardello, ne sono cosciente, ma per me non lo è. O meglio, è un'incombenza che ho accettato spontaneamente. Anche tu, con la tua musica, onori una tradizione di famiglia... perché vuoi impedire a me di fare altrettanto?
Durante la lunghissima pausa che fece seguito a quella domanda capziosa, mi sembrò di vedere i pensieri di Zerya materializzarsi sopra la sua testa. Era chiaro che lei stesse solo eseguendo un incarico ricevuto dalla famiglia, in maniera del tutto acritica rispetto alla sua stessa opinione sulla faccenda. Quale che fosse. Si era comportata da soldato e, dal momento che Gulê aveva ormai svelato l'incongruenza delle sue azioni, provava un po' di vergogna nel riconoscerlo a sé stessa.
Ma non tornò indietro sui suoi passi.
Prese la decisione di mantenere la linea di famiglia fino all'ultimo. Forse più per una comprensibile e umana spinta all'autoconservazione, che per convinzione. Ma, certamente, anche per sincera preoccupazione per le sorti della cugina.
– Noi ti amiamo e vogliamo solo che tu possa avere una vita dignitosa e felice. Sai bene che non potrai averla se resti qui – balbettò.
Gulê le sorrise con amarezza, come si fa quando ci si sente presi in giro da un mantra detto e stradetto: – Ho ventidue anni, penso di riuscire a decidere da sola cosa voglio per la mia vita.
Zeyra si raccolse qualche secondo a riflettere, e forse rivide in quella discussione qualcosa che aveva già vissuto in prima persona. Sospirò: – Starò qui per un altro mese. Mi dai la possibilità di rivederti e parlarne ancora? Magari alla fine cambierai idea? – propose, in un disperato tentativo di non perderla di nuovo di vista.
Anche se non mi sembrava esserci molto margine su cui lavorare. Infatti Gulê scoppiò a ridere: – Se ti piace illuderti, certo, si può fare! – ironizzò.
Poi si rivolse a me.
Mi venne incontro, le lunghe dita tese in segno di saluto si chiusero poi in un pugnetto: – Perdona la maleducazione mia e di mia cugina. Piacere di conoscerti, sono Gulê.
Ricambiai il brofist, potente e deciso, e mi aprii in un sorriso spontaneo. I riflessi iridescenti delle sue pupille mi incantarono come la danza sinuosa dei lembi di una fiamma: – Piacere, Filippo. Scusa per prima... – mi sentii in dovere di dirglielo, poiché il nostro primo approccio era stato alquanto burrascoso.
Lei sorrise di rimando, senza rancore.
Si voltò di nuovo verso la cugina e annunciò che sarebbe tornata alla manifestazione. Ci proibì di seguirla con un tono di voce che non ammetteva repliche, ma noi ci sentivamo già molto propensi a tenerci ben alla larga da piazza Taksim per il resto di quella giornata.
Solo per un brevissimo attimo, Zerya la tirò a sé e l'abbracciò forte. Notai che aveva gli occhi lucidi e lo sguardo sul mare, nel tentativo di distrarsi. Le disse qualcosa in curdo che non potevo comprendere, ma l'intonazione tradiva un tenero e apprensivo "Stai attenta".
Poi la vedemmo sparire di nuovo tra le ripide salite lastricate di Beyoğlu.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top