Track XIX - Napoli, Milano, Barcellona
Tornato a casa dopo essermi talmente abituato al caos di gente, gatti e macchine (soprattutto macchine!) di Istanbul, ai muezzin che urlavano 'ncopp alle moschee cinque volte al giorno e alle navi che passavano e spassavano senza sosta sul Bosforo, Napoli mi parve una piccola e tranquilla cittadina di periferia.
Dovetti dividermi tra le rassicurazioni d'affetto a mamma, che non era mai stata lontana da me per un periodo così lungo (considerato che a Nisida veniva a trovarmi ogni volta che c'erano gli incontri) e le feste di bentornato che mi avevano organizzato sia Teresa che Andrea. Quest'ultimo aveva atteso il mio ritorno con particolare impazienza per via di tutte le cose di lavoro che restavano da fare in vista di maggio, già accuratamente programmate nei minimi dettagli.
Il 2 e il 3 maggio uscirono dei singoli che quasi mi costrinsero a comporre durante il mio periodo in Erasmus, in remote working con Gennaro e registrati in fretta e furia. Erano due pezzi destinati a chiudere il cerchio di una trilogia della storia d'amore scritta da Francesco per il video di Tu t'e scurdat'e me, a cui i fan si erano molto legati.
Per quanto intasato di impegni anche con il conservatorio, accettai la sfida per poter sperimentare un po' con musiche nuove ispirate dai miei viaggi, e vidi Francesco compiere un altro piccolo miracolo di narrativa in immagini ancor prima che potesse ascoltare le canzoni registrate e complete.
Mi piacque quella sua idea di mostrare la fine di una storia d'amore sia dal punto di vista di lui che da quello di lei. Avrei pagato oro per potermi astrarre dal mio stesso corpo e fare esperienza diretta di un tale cambio di prospettiva anche nella vita reale, così da capire che cazzo tenevano 'ncapa le ragazze di cui mi innamoravo e da cui venivo sistematicamente abbandonato.
Maggio 2018 fu un mese di distruzione mentale e fisica.
Il colpo di grazia fu, manco a dirlo, il concerto gratuito che organizzammo per l'ormai sacra ricorrenza del 9 maggio. Giocare in casa significava espormi, come mai prima di allora, al rischio di essere scoperto. La rotonda Diaz distava meno di tre chilometri da casa mia e di tutti i miei amici e parenti più stretti, ed io sarei dovuto salire su quel palco con la grandissima faccia da cazzo di far finta di non essere me medesimo, Filippo del quartiere Porto, e che ciò non mi facesse cagare sotto.
Alla sessione organizzativa a casa di Andrea, un paio di giorni prima dell'evento, mi investì come un razzo dritto in un occhio la realizzazione che le cose si stavano facendo sempre più grandi e più serie. Il team di LIBERATO necessitava di allargarsi e la new entry fu Daniele, addetto alla sicurezza delle gig per i miei spettacoli live che si facevano sempre più numerosi e frequenti.
Essere circondato da una piccola schiera di professionisti, di cui mi fidavo al punto da poterci scommettere le palle, era una bella sensazione, ma non mi aiutava a salire sul palcoscenico con meno ansia sulle spalle. Però una cosa che avevo iniziato a notare era che, da quando avevo conosciuto Gulê, avevo imparato a prendere le cose che mi angosciavano molto più di petto. Quando i brutti pensieri prendevano a tormentarmi l'anima, mi chiedevo sempre cosa avrebbe fatto lei.
Il 9 maggio 2018 arrivai sul lungomare di Napoli con un gommone e, sguardo fisso e incredulo sulla folla accalcata sotto al mio palco in lontananza, mi chiesi cosa mai avessi fatto per meritarmela.
Tentai subito di scacciare quel pensiero: l'autocompatimento era una cosa che Gulê mi avrebbe rimproverato con inaudita severità. E magari lo avrebbe fatto anche tutta quella gente lì sotto, accorsa per celebrare LIBERATO; se si erano riversati lì a centinaia in attesa della mia musica, un motivo valido ci doveva pur essere. E forse anche più di uno.
Galleggiando sul mare piatto e sulle increspature delle mie riflessioni in lotta tra loro, ancora lontano dall'approdo, sentii il suono della notifica di WhatsApp sul cellulare. Era un messaggio di Teresa: "Io e Angie stiamo andando al concerto gratuito sul lungomare, vuoi venire con noi?".
Mo sì che sudavo freddo.
Non potevo mentire spudoratamente a Teresa.
Mi convinsi che, in quel momento, fosse già troppo tardi per rispondere. Spensi il cellulare per paura che potesse chiamarmi, e lo consegnai in custodia a Daniele che stava seduto sul gommone accanto a me.
Mi voltai verso Gennaro con gli occhi trasudanti ansia e senso di colpa: – Fra', ti prego, occupati tu del dialogo con la folla – implorai.
Lui si accigliò: – In che senso, scusa?
– Che ne so... Allucca, saluta, bestemmia, vedi tu quello che vuoi fare! – proposi, teso come una corda di violino.
Lui capì l'antifona e annuì. Ormai aveva imparato a conoscere e assecondare le mie debolezze recondite quasi quanto Andrea.
– Ok, va bene, che problema c'è? – mi tranquillizzò con una pacca sulla spalla un po' troppo energica.
Questo per dire che, quando la gente si convince di aver svelato il mistero e sbandiera ai quattro venti che "tale Gennaro è LIBERATO perché ha la stessa voce di quello che urla sul palco ai suoi concerti" ... Sì, guagliù, siete svegli, complimenti. Infatti era Gennaro. Proprio per questo siamo sempre più di due persone a salire sul palco ogni volta.
Cosa succede quando nasci nell'unica città del mondo in cui le mode non vanno e vengono, tutt'altro: sono fatte per restare, essere santificate e adorate, calcificarsi dentro al pacchetto socioculturale che si portano appresso, così da essere esportate in tutto il mondo come una cartolina?
Succede questo.
Succede che eri l'ultimo stronzo tra gli scugnizzi dei vicoli del centro storico finché non scrivi, per caso, due scemità in dialetto su un foglio di carta mentre stai in galera, e finisci catapultato a essere il nuovo santino a cui tutti si aggrappano per riscattare Napoli dall'immagine di malavita e miseria che si porta dietro.
Eppure è da quando sono nato che non faccio che vedere l'etichetta di "riscatto napoletano" affibbiata 'ncopp a chist' o a chill'at' fenomeno di massa che riguardi questa città.
Quanti ne servono cchiù pe' riscatta' Napule 'na vota e pe' sempre?
Lo dico in maniera critica? Assolutamente no.
Magari, in fondo, io me lo sono meritato davvero? E chi 'o sape, può darsi che non se lo "meriti" proprio nessuno.
Anzi, no, perché buttarla sul merito? Non ci sono forse cose che dovrebbero sfuggire alle logiche del "merito" inculcateci nella testa? Perché sono sempre così convinto di non meritare mai niente? Un ragazzino deve "meritarselo" il pane e un tetto sopra la testa? Napoli deve "meritarsi" di essere trattata con dignità dal resto del mondo?
No.
Napoli non ha bisogno di riscatto, ha bisogno di rispetto.
Intanto mi fa piacere di essere stato integrato, bell'e buon', nel pantheon partenopeo al fianco di Maradona, Massimo Troisi e Mario Merola? Forse, ci sto ancora pensando.
La conseguenza di tutto 'sto burdell' che preferisco continua a essere una sola: la gente che canta sotto al palco le parole mie come se fossero le loro.
E devo ammettere che al Nord mi aveva fatto effetto poiché stavamo lì dove il mio dialetto non solo non si parla, ma viene ferocemente disprezzato. Ciononostante, sia a Milano che a Torino i miei testi li avevo sentiti urlare lo stesso; conditi da tanti accenti diversi, anche sbagliati, ma tutti appassionati.
Quella sera di maggio a Napoli, nella mia terra e davanti al mio golfo, alluccare tutti insieme nella nostra lingua quei versi che, nel frattempo, avevano fatto il giro d'Italia: non aveva eguali.
Si sentiva più la voce del pubblico che la mia.
Quando tornai sul gommone a fine esibizione ebbi l'impressione di essere sospeso in un permeante stato di trance.
Il mio cervello stava effettuando la transizione da LIBERATO a Filippo nel modo più graduale possibile, per non turbare l'equilibrio mentale che avevo raggiunto con fatica sul palco. Ma riconobbi che, piano piano, stavo finalmente imparando a sostenere i live in maniera sempre più naturale.
Andrea mi cinse con entrambe le braccia ben allenate, una stritolata degna di un boa constrictor, e mi fece saltare il berretto dalla testa per scombinarmi i capelli.
– Il mio figlioccio s'è fatt ruoss! – esclamò con voce stridula ma possente, al limite della commozione – Ormai a Napoli... anzi, in tutt'Italia! Maggio è il tuo mese, Filì. Sei un santo.
– C'erano ventimila persone stasera – ci comunicò Natalia seduta di fianco a noi, mentre scorreva le ultime notizie su Google.
Quel numero mi fece venire le vertigini.
Fissai le onde senza rispondere, cercando di non pensare a niente, cosa che non mi riesce affatto facile se non con qualche aiutino.
Infatti, per tutto il resto della notte, ci facemmo come la sfravecaturamma a casa di Andrea a botte di alcol, fumo, pizze e cornetti come se non ci fosse un domani.
Col cellulare rimasto spento e abbandonato nella tasca del jeans, non mi ero ancora reso conto delle mirabolanti scuse che avrei dovuto inventarmi il giorno dopo.
***
Mi risvegliai all'una di pomeriggio che non capivo neanche chi cazzo ero.
Mi guardai intorno, con la testa dolorante tra le mani, e riconobbi la stanza degli ospiti di casa di Andrea; i ricordi iniziarono a rifluire nel backend del mio cervello. Ero rimasto a dormire lì perché, a una certa, non mi reggevo neanche più in piedi.
Notai il cellulare ancora spento, poggiato sul comodino di fianco al letto. Con indicibile flemma e stanchezza mi misi a sedere e finalmente lo accesi.
Lo schermo si affollò delle notifiche di dieci chiamate perse di mamma, quattro di Carmine, otto di Teresa, più altrettanti messaggi su WhatsApp.
Cazzo.
Non avrei mai dovuto fare un concerto proprio a Napoli.
Come avrei potuto giustificare la mia scomparsa per un giorno intero, senza aver detto niente a nessuno? Perché cazzo non ci avevo pensato prima a inventarmi una scusa per quell'occasione?
Chiamai subito mia madre, la preda più facile per le mie chiacchiere vacue. Le raccontai di come avevo perso il cellulare mentre lavoravo con Andrea fuori Napoli, dove non c'era campo, e che eravamo sulla via di ritorno in città.
Lei sembrò innervosita dal fatto di non essere stata avvertita per tempo, ma se la bevve.
Usai più o meno la stessa scusa anche con Carmine e Teresa. Il primo reagì pacato, non sembrò avere dubbi sulla mia sincerità, e chiese solo di farmi sentire appena avessi avuto un po' di tempo per una birra.
Ma Teresa no.
Ovviamente no.
– Ceeerto... – cantilenò con tono sarcastico, riattaccandomi subito il telefono in faccia.
Mannaggia 'a culonna.
Appena tornato a casa, un'ora dopo, la trovai ad attendermi seduta in soggiorno, con YouTube aperto sulle fancam della mia performance di Nove Maggio al concerto della sera prima. Mamma l'aveva fatta entrare durante la sua pausa pranzo, e lei era rimasta lì ad aspettarmi al varco.
– Beh, che dire... Un gran fenomeno questo LIBERATO, eh, Lillucc'? – esordì, con un sorrisetto sghembo e ironico, mentre picchiettava le dita su un bracciolo del divano – Che peccato che te lo sei perso ieri sera!
Mi strinsi nelle spalle, ancora incerto se cedere o meno. Volevo prima assicurarmi di quanto fosse incazzata e, soprattutto, quanto fosse già riuscita a capire.
– Stavo lavorando – tagliai corto.
– Ah! – finse stupore – Per caso un lavoro tipo cantare su un palco a Rotonda Diaz, davanti a ventimila persone?
Io scoppiai a ridere di nervosismo e infilai le mani in fondo alle tasche della felpa, scosse da un leggero tremolio incontrollabile: – Non capisco proprio che cosa stai insinuando.
Lei chiuse improvvisamente, con uno schioppo che mi fece saltare sul posto, il laptop poggiato sul tavolino al centro della stanza.
Si alzò di scatto e mi venne incontro, un dito minaccioso sventolato contro il mio mento: – Lillù, ma tu o'ver faje? Mentiresti così impunemente alla persona che ti conosce meglio sulla faccia della terra?
Aveva ragione, sapevo che non sarebbe durata a lungo.
Eppure non risposi subito, né la interruppi mentre mi sciorinava tutti gli indizi che aveva messo in fila con mirata attenzione, da un anno a quella parte.
Quando ebbe finito di enumerare il suo certosino elenco di prove, abbassai lo sguardo in segno di resa: – Brava, Terry, non ti si può nascondere niente – ammisi in una risatina soffocata.
Un peso enorme mi si era appena staccato dal cuore per volarsene via nell'etere. Mi sentii come Goku appena uscito dalla stanza dello spirito e del tempo.
A quel punto, lei ebbe l'unica reazione che non mi sarei mai aspettato. Inglobò la mia testa in un tutt'uno col suo petto e mi chiuse in un abbraccio potentissimo.
– Sei uno scemo! – urlò, tra le lacrime calde – Ma sono così orgogliosa di te!
Quando riuscii a liberarmi da quella morsa inaspettata e placarle i singhiozzi, ci spostammo in cucina per fare il caffè e lì mi tempestò di domande per ore. Io, in calce a ogni singola risposta alle sue curiosità, le ripetevo: – Tere', te lo dico, questa storia non la deve venire a sapere nessuno. Sono stato chiaro?
Sapevo di potermi fidare di lei più che di chiunque altro al mondo. Ma mi metteva comunque molta angoscia il fatto che ci fosse una persona, al di fuori della ristretta cerchia di collaboratori di lavoro sotto NDA, che fosse venuta a conoscenza della mia doppia identità.
– Questo significa che non posso chiederti di farmi una dedica dal palco? – mi punzecchiò lei con un broncio finto.
Nonostante le paranoie, non riuscii a non sentirmi incredibilmente sollevato dal fatto di essere stato infine scoperto proprio da Teresa. Iniziai persino a chiedermi come avessi fatto, per tutto l'anno precedente, a tenermi dentro quel segreto senza rivelarlo almeno a lei.
– Tere', perdonami per non avertelo detto prima – mi sentii in dovere di scusarmi.
Lei fece segno che l'arrabbiatura era acqua passata, roteando una mano vicino all'orecchio: – Ti farai perdonare mo che mi porti con te a Barcellona – sentenziò.
Alla mia faccia sbigottita che seguì quell'affermazione, aggiunse subito: – Perché mi porterai con te a Barcellona per il Sonàr, no? – e non suonava come una vera domanda.
Forse ci rimuginai anche troppo sopra perché, col senno di poi, direi che fu un'idea fantastica.
Lì per lì, invece, mi limitai a porgerle la tazzina di caffè fumante, alzare le spalle e sospirare: – Ma sì, alla fine lo devo anche a te un viaggetto, Terry.
***
Ma prima venne di nuovo Milano.
O meglio: venne la mia prima vera esibizione a Milano, dato che la precedente fu quasi una truffa ai danni degli italiani.
Tuttavia, quel continuo viaggiare stava cominciando a sballottarmi un po' l'esistenza. Dall'autunno del 2017, complice la mia costante ricerca di fuga dalle delusioni (ma anche LIBERATO e i suoi impegni ci avevano messo lo zampino), non avevo avuto un attimo di quiete per stare una serata sana a casa mia, magari a bermi un caffè con mamma in grazia di Dio.
Mi consolò non poco il fatto di potermi portare appresso Teresa per la data a Barcellona.
Quando lo avevo detto ad Andrea, con un velo di titubanza, lui si era stretto nelle spalle e aveva liquidato la faccenda con molta serenità: – Lillù, qui l'unico azzeccato con 'sta storia dell'anonimato sei tu. Per noi non fa nessuna differenza se vuoi includere qualcuno nell'"inviolabile segreto" o se vuoi andare a urlarlo ai quattro venti 'nfacc 'o molo Beverello.
Fair enough.
Per quanto, a detta di Natalia, l'anonimato avesse contribuito al superefficace lancio di LIBERATO, nessuno di loro mi aveva mai chiesto di debuttare in quel modo. Né avrebbero avuto da ridire se, bell'e buono, avessi cambiato idea.
Ciononostante, le operazioni di marketing di Natalia erano costanti e incalzanti, anonimato o meno.
Il mini-tour estivo del 2018 fu una roba arrabattata in fretta e furia per cavalcare l'hype delle due nuove release. A quel punto tutti volevano lavorare con LIBERATO, molti si aspettavano che tirassimo fuori il primo disco da un momento all'altro, qualcuno si aspettava perfino che uscissi dall'ombra e mi rivelassi alla prima occasione.
Col cazzo che lo avrei fatto!
Non solo non avevo cambiato idea sulle ragioni che mi avevano spinto a lavorare in incognito, ma mi ero sempre più convinto col tempo che fosse stata un'ottima idea sotto ogni punto di vista. E, in ogni caso, sarebbe una scemità partire anonimi per poi rivelarsi quando si ha avuto successo.
Non lo farei mai.
Proprio per questo motivo accettammo gli inviti ai festival solo da gente che conoscevamo già, con cui Andrea o Borut avevano lavorato in passato, e declinammo con sistematicità il pass ai giornalisti detective rompicoglioni. Come quel tale Gianni di La Repubblica, che ormai era una piaga.
Fu proprio Borut ad aprire il mio concerto di Milano e ne fui immensamente felice. A suo tempo, lui aveva aiutato me ad emergere e mi riempiva di orgoglio poter ricambiare il favore.
Sul Frecciarossa di ritorno verso Napoli, ridemmo con lui e Gennaro della vignetta che quelli di Bojack Horseman avevano fatto su di me, e discutemmo del dietrofront di quella latrina di Nino D'Angelo che d'improvviso diceva di essersi ricreduto sul mio conto, mo etichettava LIBERATO come il "suo erede". Per la serie: disprezzare gratis in tempi non sospetti is for boys, salire sul carro del vincitore a posteriori is for men.
Peccato Ninù, pensai, L'avessi detto un anno fa mi avresti fatto scoppiare il cuore in petto, mo invece non ti si crede più!
Teresa iniziò a prepararsi febbrilmente per Barcellona con svariate settimane di anticipo.
Il giorno che ci incontrammo tutti all'alba a Capodichino per prendere l'aereo, lei era l'unica a essere fresca come una rosa. La sua arteteca era quasi contagiosa; sorrideva a tutti con entusiasmo eccessivo, come se non avesse mai vissuto giorno più felice in vita sua. Si giustificò col fatto che non si facesse una vacanza da non ricordava più nemmeno quanto tempo, che la sessione estiva la stava uccidendo, che studiare Legge col caldo afoso e i vestiti incollati addosso le faceva invocare l'implosione del pianeta, altro che fare l'avvocato per salvare il culo alla gente.
E, se mai quello potesse già sembrare il massimo livello umanamente possibile di euforia, quando arrivammo a Barcellona si gasò dieci volte tanto.
Non mi diede neanche il tempo di riprendere fiato tra una prova, un soundcheck, un meeting coi ragazzi. Appena trovava uno spiraglio di tempo libero mi trascinava qua e là per la città, seguendo un meticoloso piano di attività selezionate con l'accuratezza che la contraddistingueva.
In ogni caso, nonostante la stanchezza e il rush generale, fui molto felice di assecondarla. Non solo perché mi era mancata da morire, ma anche perché erano tutte dimostrazioni di quanto le fossi mancato anch'io altrettanto.
Mi parve di scorgerla a piangere di commozione sotto al palco del Sonàr mentre mi esibivo, ma quando venne ad abbracciarmi fuori dal backstage mi prese in giro: – Uè, signor "best of both worlds"! Lillo Montana t'aggia chiama'.
Prima di ripartire, il 16 giugno, impiegammo l'intera giornata a esplorare ogni angolo dei quartieri barcellonesi per compararli con quelli di Napoli. Si ricordava di essere stata alla mostra di un fotografo al PAN in cui, messi a confronto, alcuni scorci delle due città risultavano quasi sovrapponibili, indistinguibili. Ci affascinava questa particolarità delle città di mare del Mediterraneo, con il loro bagaglio condiviso di storia e cultura popolare.
Tapas e birra furono nostri fidati compagni fino a tarda notte, finché non stramazzammo sulla spiaggia che erano già le 3 passate. Persino i turisti e gli studenti universitari se n'erano ormai andati a dormire.
Maledimmo Napoli per non avere più immense spiagge cittadine su via Caracciolo come la Barceloneta, sfogammo la nostra frustrazione per lo studio disperato, per il tempo che non bastava mai, per l'esserci persi di vista per così tanto tempo.
Fu felice di sapere che avrei portato Carmine a svagarsi in Giappone, addirittura mi ringraziò per il fatto di farlo.
– Chissà se troverà mai il modo di superare quest'idea un po' malsana che ha dell'amore – considerò all'improvviso.
Non capii a cosa si riferisse e mi incuriosì: – Cioè?
– Intendo che cresciamo bombardati da prodotti come i film Disney e le serie alla How I Met Your Mother, in cui l'amore viene spacciato per un fatto del destino, uguale per tutti – illustrò, una mano impegnata a litigare con un ricciolo bruno che la brezza del mare continuava a farle finire sulle labbra appiccicose di birra – Quando ci innamoriamo di una persona pensiamo sempre che sia "l'unica", "quella giusta", che passeremo il resto della vita con lei e che quella sia la massima aspirazione per una coppia. Perché nei film e nei libri è così che succede.
Segnò l'aria con delle virgolette sarcastiche mimate dalle dita, per mettere enfasi sulle parti salienti del suo discorso.
Quella risposta mi confuse ancora di più. Notai che non fosse certo solo Carmine a vedere l'amore in quel modo. E "malsano" mi sembrò una parola fin troppo pesante per descrivere ciò che lei stessa collegava a una visione nazionalpopolare dell'amore, per quanto rinforzata dai media.
– ... E invece non lo è? – sussurrai.
Riflettei su quante volte avevo pensato quelle cose di Elena. E quanto spesso le pensassi ancora.
– Ma sì, non dico di no. Dico solo che non è un fatto assoluto, perlomeno non sempre e non per tutti – si strinse nelle spalle – E va benissimo così, cazzo! Senza stress.
Stavo ancora cercando di carpire il suo punto ma, piano piano, i tasselli si univano: – Allora cos'è per te l'amore?
Lei si prese un attimo per ragionarci su, lo sguardo dritto di fronte a sé come a cercare la risposta nell'orizzonte, che però era troppo buio anche solo per svelare il limite dove il mare e il cielo si congiungevano.
– Io penso che cosa sia l'amore è diverso per ognuno, ma cosa non sia l'amore è uguale per tutti – declamò, la solennità del suo tono spezzata dallo schioppo dell'ultimo sorso di Estrella – Credo che l'"anima gemella" potrebbe non esistere o, magari, esiste, però non tutti ne hanno una. Oppure, se esiste e ce l'hanno, chi gli assicura che la incontreranno mai? Anzi, alcuni potrebbero averne tante, oppure non averne nessuna, ma innamorarsi comunque.
Io sconvolto. E sempre più confuso.
– Quindi non pensi che Angelica sia la tua anima gemella? State insieme da quasi due anni e per lei hai lasciato Ciccio, che era il tuo ragazzo storico – insinuai, per investigare più a fondo sulla sua esperienza personale, piuttosto che sorbirmi filosofeggiamenti astratti sugli amori altrui.
– È quello che sto cercando di dire, Lillo. Non mi interessa se lo sia o meno, non è importante – sostenne, forse seccata dal fatto di essere troppo ubriaca per affrontare una conversazione così seria e profonda – Io adesso la amo e lei ama me. Il presente è l'unica cosa che conta in amore.
Sapevo che la mia saggia Teresa non sbagliava mai. Il suo discorso non mi era ancora del tutto chiaro, ma vedevo un fondo di assoluta verità in quelli che, visti da fuori, potevano sembrare vaneggiamenti di ragazzini ubriachi.
Restai bloccato in silenzio con gli occhi bassi, fissi sulle mie scarpe piene di sabbia, per chissà quanto tempo. Dovevo avere un'espressione pietosa, perché Terry mi si accostò con affetto e poggiò la testa sul mio petto: – Nel silenzio di questa spiaggia, si sente solo il battito irrequieto del tuo cuore che rimbomba – commentò.
Spalmò una mia mano sulla sua e le posò entrambe sul mio sterno: – Tu e Carmine soffrite dello stesso malanno – un sorriso machiavellico le si dipinse sul volto stanco ma appagato – Tenete l'hearteteca, o' core che nun può purtà pazienza.
Finalmente mi strappò un sorriso.
Il mio problema con l'amore era che non riuscivo ancora a capirne la natura, figuriamoci le ragioni.
Erano passati diciotto mesi da quando Elena mi aveva mollato, in meno di dieci brutali minuti di botta e risposta, per colpa della mia testa di merda. Se, in quell'occasione, avessi soppesato col valore che meritavano le sue preoccupazioni e avvertimenti, il nostro presente che mai più sarebbe tornato, la felicità di coppia che avevamo raggiunto in maniera così spontanea e naturale, forse ci avrei riflettuto due volte prima di architettare l'enorme stronzata che avevo fatto e che mi era costato perderla.
E poi c'era stata Gulê che, come un fulmine a ciel sereno, era entrata nella mia vita, mi aveva stravolto le cervella, e ne era uscita nell'arco di un solo giorno.
Mi parve profetico che, tornati a Capodichino il giorno seguente, alla radio del bar dove ci fermammo a prendere il caffè sentii Cesare Cremonini chiedersi: "Chissà se amare è una cosa vera?".
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