Track XIV - Milano, MI AMI
Non ero mai stato a Milano in vita mia.
Quando Natalia e Andrea mi portarono in giro in centro per fare un po' di turismo, rimasi abbastanza deluso dall'atmosfera che si respirava in giro. Mi diede l'impressione di essere un pezzo importante dell'Italia che stava facendo di tutto per perdere la sua italianità. Ma, in compenso, trovai la scena musicale molto stimolante e divertente, soprattutto grazie alla multiculturalità che, piaccia o no ai milanesi duri e puri, si è fatta strada dentro al tessuto sociale della città.
La stessa sera del nostro arrivo, infatti, andammo a sentirci un po' di musica live di artisti emergenti in un club di Brera e volli trattenermi anche dopo che entrambi decisero di andare a dormire, per sperimentare la famigerata nightlife da chiattillo del nord.
Erano già le 2 passate mentre aspettavo il cicchetto che avevo ordinato e, piegato sul bancone del bar, origliai dei ragazzi al tavolo accanto che parlavano del festival a cui avrei dovuto "presenziare" anche io il giorno successivo. Si stavano scambiando i contatti di qualcuno che doveva vendere dei biglietti ai due che erano rimasti senza.
Mi incuriosì il loro marcatissimo accento milanese. Lo trovai divertente, anche se leggermente disturbante per delle orecchie così poco allenate a sentirlo.
Da vero coglione inopportuno, lanciai un'occhiata indagatrice e poco discreta nella loro direzione. Ma tornai subito a voltarmi verso il barista non appena incrociai per sbaglio gli occhi di una del gruppo.
La ragazza si alzò e mi si piazzò di fianco, squadrandomi da capo a piedi per poi urlare l'ordinazione di un mojito al tizio ingessato vicino agli alcolici.
Tornò a fissarmi e sorrise.
– Ciao – esordì – Cerchi anche tu dei biglietti per il Mi Ami?
Quella domanda mi prese in contropiede.
– Ehm... – balbettai – Sì.
Non so perché lo feci. Però, col senno di poi, pensai che era stata un'ottima idea. In quel modo, biglietto acquistato come chiunque altro, sarei entrato al festival con un alibi di ferro.
Ripensandoci non so quanto mi servisse realmente un alibi, ma tutto fa brodo quando si ha una coda di paglia lunga come una passerella d'alta moda.
– Piacere, sono Martina – mi tese la mano per presentarsi e notai che era piena di anelli dalle gemme smaglianti quanto i suoi denti perfetti – Mio cugino sta rivendendo dei biglietti che non può più usare, potrebbe saltarne fuori uno anche per te!
La ringraziai e ricambiai la stretta di mano, calorosa e cordiale: – Piacere, Filippo.
Il barista ci piazzò di fronte le nostre ordinazioni proprio in quel momento. Lei afferrò entrambi i bicchieri e chiese: – Ti va di sederti con noi?
Messa in quel modo non sembrava più tanto un invito, quanto un'imposizione. Comunque stetti al suo gioco.
Tirammo via una sedia da un tavolo adiacente vuoto e mi unii al gruppetto di milanesi veraci: tre ragazze e due ragazzi, un anno o due più grandi di me.
– Ho trovato a chi vendere l'ultimo biglietto da smaltire per mio cugino, raga! – esclamò Martina prima di introdurmi ai suoi amici. Io salutai tutti goffamente.
– Ma te non sei di Milano, vero? – investigò una delle ragazze, che si presentò come Simona.
Scossi la testa, un po' incerto su cosa rispondere perché l'odio dei milanesi per i napoletani è abbastanza proverbiale. Comunque, con la consapevolezza di non riuscire a nascondere la mia cadenza nel parlato neanche provandoci con tutte le mie forze, ammisi con sincerità: – Sono di Napoli.
I due ragazzi mi lanciarono un'occhiataccia storta e sospettosa, ma Simona sospirò con aria sognante mentre tirava un colpetto sul braccio alla terza amica: – Ve l'avevo detto io che i ragazzi napoletani sono sempre tutti belli!
Uno dei maschi tossì per manifestare il suo disturbo a quell'affermazione e, immaginai, anche per il fatto che fosse proprio Simona a farla.
– Ma allora conosci LIBERATO? – insinuò Martina, e la sua figura filiforme mi parve allargarsi di botto e ergersi su di me per impalarmi con una lancia comparsa dal nulla.
La mia testa si affollò di un persistente rumore di sirena a manovella, le orecchie mi fischiarono dal nervosismo. Riuscii a stento a mantenere una parvenza di pokerface da accompagnare a una battuta poco convinta: – Scusa... In che senso?
Le tipe risero della mia ingenuità; legarono la mia perplessità più all'ambiguità della domanda che alla mia coscienza sporca.
– Nel senso che è un cantante famoso a Napoli, no? L'hai sentito dire? – incalzò Martina.
– Ah, sì, sì, certo... l'ho sentito in radio – convenni subito, mentre pensavo a un modo qualsiasi per cambiare discorso.
Ma non ce ne fu bisogno.
– Beh, sei venuto da solo? – si informò ancora Simona, forse nella speranza che altri napoletani belli fossero venuti insieme a me.
Non seppi bene cosa rispondere, quindi azzardai la prima menzogna che mi venne in mente: – Sì... dovevano accodarsi un paio di amici, ma mi hanno appeso. Sono venuto lo stesso per i Baustelle.
Scoppiarono tutti a ridere al mio "mi hanno appeso", evidentemente non un'espressione comune nel milanese.
– Anche a me piacciono i Baustelle! – Simona colse la palla al balzo – Vuoi venire con noi domani?
Feci spallucce e accettai, tanto né Andrea né Natalia se la sarebbero presa a male se fossi andato per cazzi miei. Anzi, Natalia non era neanche venuta con noi apposta per il festival, quanto per sbrigare altre sue cose di lavoro.
Passammo il resto della nottata a parlottare tutto il tempo della rivalità Nord-Sud, del fatto che era la mia prima volta in visita lì e che nessuno di loro fosse mai stato nella mia città, dell'importanza del dialetto e delle identità delle regioni italiane, degli studi universitari, della musica.
Fu interessante e, a tratti, perfino disorientante. Incredibile constatare l'enorme varietà di usi e costumi interna all'Italia, di cui spesso noi italiani non siamo nemmeno del tutto coscienti.
A pensarci bene è già evidente in Campania tra i capoluoghi di regione, quanto siano diversi, per dire, i napoletani dagli avellinesi. Figuriamoci l'abisso che scorre tra Napoli e Milano.
Solo quando mi accorsi, colpito dai riflessi pastello sulla vetrata d'ingresso del pub, che il sole stava scivolando fuori dal profilo altezzoso dei palazzi di Brera, salutai tutti e tornai verso l'albergo.
Godendomi l'alba su Milano, questa sconosciuta.
***
Simona e Martina mi iniziarono a seguire su Instagram l'istante dopo che misi il piede fuori dal locale. Mi aveva molto divertito il modo in cui si scambiavano occhiate compiaciute, ma anche un po' rivali, mentre mi subissavano di domande su ogni singolo argomento affrontato durante la serata.
Al mio risveglio, intorno a ora di pranzo, trovai messaggi privati da parte di entrambe: ognuna si offriva di portarmi in giro per esplorare la città da veri autoctoni. Pensai fosse un'opportunità allettante, se non altro per distrarmi da quello che sarebbe successo al festival, dato che non aveva smesso di mandarmi in paranoia, ma non mi andava di favorirne una e appendere l'altra. Per quanto molto carine e gentili, nessuna delle due aveva smosso particolarmente il mio interesse, di certo non al punto da poter giustificare una scelta tale in quella circostanza.
La verità era che non mi riusciva ancora di tirarmi fuori da quella fase in cui un dettaglio qui e uno lì, in ogni ragazza, finiva in qualche modo per ricordarmi Elena.
Un grosso dubbio che mi colse, inoltre, per via di quel (neanche tanto velato) fetish delle ragazze del Nord per i napoletani, fu il chiedermi se fosse più glorioso scoparmi le milanesi infoiate o, piuttosto, rifiutarmi di farlo.
Chiamai Carmine per esporgli tali becere rimuginazioni e lui, compiaciuto e coinvolto dal dilemma, mi diede delle risposte altrettanto sporche che non ripeterei mai per non correre il rischio di scatenare offese o ulteriori incidenti diplomatici nei confronti del Meridione, come se non ne avessimo già abbastanza. Comunque si scherzava.
Scrissi a entrambe che mi avrebbe fatto piacere passare il pomeriggio con loro, magari tutti e tre insieme. Le risposte non furono le più entusiaste possibili ma, perlomeno, non diedero l'impressione di essersi offese.
A posteriori, anzi, è probabile che si pentirono presto di avermi fatto quell'offerta in the first place. Perché fui un turista incontentabile, proprio un dito in culo, e misi alla prova la loro pazienza più e più volte.
La galleria? A Napoli ne abbiamo due. Il duomo? Troppo caro. I navigli? Dovreste vedere via Caracciolo. Il castello? A Napoli vi possiamo vendere castelli un tanto al chilo.
Insomma, sì, un rompicazzo senza vergogna.
L'unica cosa che riuscì a entusiasmarmi fu la Chinatown, poiché quella di Gianturco non sta proprio a livello, dove mi fecero assaggiare dello street food cinese che non avevo mai visto prima. Pure l'ossario della chiesa di San Bernardino mi colpì, anche se non gli feci mancare il paragone con quelli di Napoli.
Evidentemente, le ragazze erano così ansiose di piacermi che sopportarono il mio atteggiamento sprucido con grande resilienza. Vigeva tra loro una tacita gara a chi mi offriva più roba: prima le fritture e il gelato, poi il caffè alla Starbucks Roastery, l'aperitivo ai Navigli... In pratica finii con il non pagare nulla di tasca mia.
Quasi mi sentii in colpa per aver già deciso che non sarei andato a letto con nessuna delle due. Nonostante il bel pomeriggio trascorso, non ero ancora pronto per darmi alla prima scopata e via, tantomeno con qualcuna che sfuggisse al mio mantra di "donne e buoi dei paesi tuoi".
Gli altri amici del gruppo della sera prima ci raggiunsero per cena, accolti dal primo ristorante di sushi sulla strada per l'idroscalo. Non sembrarono troppo entusiasti di rivedermi e seguitarono a non rivolgermi la parola neanche per sbaglio. Ma le ragazze compensavano ampiamente il loro silenzio e si finì per l'ennesima volta a cianciare di modi di dire campani e lombardi, senza mancare occasione di chiedermi, con insistenza e curiosità patologiche, di tradurre cose dall'italiano al napoletano più volgare che conoscessi.
Martina si sistemò dei ciuffi castani sopra alla fronte spaziosa con una molletta prima di suggerire, bell'e buono, con entusiasmo sproporzionato: – Insegnaci un po' di pezzi di LIBERATO, dai! Io non capisco nulla di quello che dice, stasera non potrò cantare se non mi spieghi.
Mi sfuggì una risata nervosa, il resto del corpo divenne un blocco di ghiaccio, e buttai lì una scusa con sufficienza: – Eh, no, non li so i testi suoi...
Lei aveva tutta l'aria di voler insistere, ma notò il mio vistoso disagio e le veementi proteste di Simona, accorsa a difendermi, ed evitò di spingere oltre per non indispettirmi.
Mi accorsi di aver bisogno di quanto più alcol possibile, e magari anche un po' d'erba, in tempi brevi, altrimenti sarei potuto collassare dalla tensione anche molto prima che si facesse l'ora del finto stage di Calcutta. No, non ce l'avrei fatta a resistere fino all'1 senza che l'ansia mi spappolasse la milza.
Ringraziando la Madonna, fu deciso di andarci a scolare una serie di cicchetti prima di approdare alla venue, e trovammo anche il tempo di rollarci un paio di canne al volo durante il tragitto.
Qualche minuto prima delle 23 entrammo al festival e ci mescolammo alla folla. Da lì in poi cercai di focalizzarmi solo sulla musica per tentare di rilassarmi e sciogliermi un po'. Non riuscii, tuttavia, a trattenermi dal guardare a ripetizione l'orologio pur senza volerlo, dando forse l'impressione a Martina e Simona che non vedessi l'ora di andarmene, perché vennero spesso da me a chiedermi se mi stessi annoiando.
Quando fui avvicinato da quest'ultima, si accostò a tal punto alla mia faccia che le nostre labbra quasi si sfiorarono. Alzò gli occhioni nocciola per incrociare il mio sguardo, con aria imbarazzata, ma abbastanza audace da prendermi la mano e propormi: – Vuoi venire in bagno con me?
'Azz.
Bisogna ammetterlo: per quanto fossi risoluto nel non volermi fare nessuna delle due, e ci avevo pensato e ripensato per tutto il giorno, rifiutare una scopata apparecchiata in quella maniera non è mai una cosa facile.
Infatti annuii d'istinto e mi lasciai guidare tra la folla, mentre mi stringeva la mano come se avesse paura che fuggissi.
Sgattaiolammo dentro al cesso dei maschi, la porta del cubicolo chiusa frettolosamente alle nostre spalle, ignorammo i chilometri di carta igienica sporca sparsa su tutto il pavimento mentre ci baciavamo con tre chilometri di lingua di fuori.
Stai calmo, Filippo, mi ripetevo, non saprei dire se più per calmierare il trasporto cieco del sesso o per la milza occlusa dalla tensione per l'imminente show di Calcutta. Infatti, lanciavo ancora palesi occhiate febbrili all'orologio, tra una leccata all'orecchio e un succhiotto sul collo.
Simona era una bella ragazza coi capelli tinti di rosso fuoco, gli occhi castani profondi e l'eyeliner da volpe. Aveva almeno una quinta di seno e dei fianchi molto pieni, in pratica il fisico opposto a quello di Elena.
Ecco che pensavo di nuovo a lei.
Non c'era ragazza che potessi guardare senza compararla inconsciamente con Lenù.
Un sapore amaro mi invase la bocca a quel pensiero, nonostante avessi il rossetto fruttato di Simona su ogni angolo della faccia.
Mollai all'improvviso il seno che le stavo palpeggiando da sotto al calore della sua maglia attillata: – Aspetta, Simona, ascolta... – balbettai cercando di riprendere lucidità – ... sono uscito da poco da una storia seria, una brutta rottura, che mi ha fatto molto male. Non ho neanche un preservativo appresso. Non so se sono in condizione... – ma non seppi come finire la frase.
In condizione per cosa? Elena mi aveva mollato con una brutalità inaudita. Era scomparsa dalla mia vita così come era arrivata, un fulmine a ciel sereno, e io ero rimasto solo con il mio dolore e il rimpianto di aver perso l'amore della mia vita nel più cazzone dei modi possibili.
Eppure non era giusto che questo mi impedisse di ricominciare anche solo a divertirmi con altre ragazze, alla maniera leggera con cui avevo sempre fatto prima.
Dopo aver detto addio a Erica non avevo sviluppato alcun timore di farmi nuove ragazze, tutt'altro, mi ero buttato a scatafunno su Elena senza neanche sapere come si chiamasse. Ma, pure se mi sentivo uno scemo a prenderla male in quel modo, forse era ancora più stupido il mio ostinato rifiuto di ammettere che la fine della storia con Elena era stata uno shock enorme, mai vissuto prima, e che dovevo assecondare i tempi di ripresa dei miei sentimenti se volevo uscirne decentemente.
Simona parve oltremodo costernata dalla mia reazione. Si scusò mille volte, raccolse la vergogna da ogni angolo del bagno e corse via a testa bassa, senza neanche aspettare che finissi di elaborare le mie giustificazioni da quattro soldi.
Mi sentii un coglione per averla umiliata più di quanto avessi messo in imbarazzo me stesso, con chell'ammuina esagerata che avevo cacciato out of the blue.
Uscito anch'io dal cubicolo appiccicoso, con mestizia, mi resi conto che era già partita la base di Nove Maggio.
Calcutta troneggiava dritto al centro del palco, tutto illuminato di blu, con il "mio" tipico bomber con cappuccio, e la gente sotto al palco ululava i miei testi come se li conoscessero da sempre.
Mi si innescò qualcosa di molto simile a quelle esperienze astrali raccontate da chi si sveglia dal coma: lo spirito si stacca dal corpo per mettersi a fluttuare, assume una nuova prospettiva su tutto, dall'alto, come a vivere la realtà in terza persona. Sì, la sensazione che mi pervase mente e corpo in quel momento fu proprio quella. E annientò tutte le preoccupazioni che si erano affollate nel mio cervello appena un attimo prima.
Sentire Priestess rappare Tu t'e scurdat'e me mi fece desiderare con tutto il cuore che quella canzone non fosse mia, che l'avesse scritta proprio lei di suo pugno, e che io stessi assistendo alla performance del tutto originale di un pezzo che non conoscevo.
Invece, spinta da qualche angolo del mio subconscio, mi scese perfino una lacrima di orgoglio. Perché ascoltare tutte quelle persone che cantavano non solo qualcosa di mio, ma addirittura nel mio dialetto, che magari neanche conoscevano, mi fece sentire come se avessi fatto qualcosa di importante per Napoli ancor prima che per me stesso o per il mio alter ego misterioso.
Quella sera capii per la prima volta davvero cosa intendesse Andrea con il discorsetto che mi aveva fatto sul Monte Echia. Che LIBERATO ero proprio io, che avrei dovuto smetterla di mascherare Filippo per nascondermi da me stesso, fingendo una doppia personalità che non avevo.
LIBERATO era la scintillante bambolina al centro della "matrioska Filippo": il suo cuore, il suo nucleo, la sua essenza finale.
Sapevo che sarebbe stato un processo, che non sarebbe successo da un giorno all'altro, ma mi sentii finalmente più leggero. Come se avessi creduto per troppo tempo di avere una malattia mortale che invece era un superpotere.
Quando rinvenni da quelle masturbazioni mentali, mi accorsi che avevo perso la comitiva di milanesi nella calca. Non mi dispiacque, anzi, tirai un sospiro di sollievo e non cercai di ritrovarli.
In compenso, però, trovai Andrea a pochi passi da me che, lontanissimo dal palco, aveva appena finito di fare il video dell'esibizione col cellulare.
Mi avvicinai a lui e lo abbracciai.
Lui sorpreso, ma neanche troppo, mi strinse di rimando in un abbraccio caldo e paterno.
Riuscii solo a sussurrargli, tra i singhiozzi: – Grazie.
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