Track XII - Me staje appennenn' Amò
E quello non fu neanche l'unico drammone della mattinata.
Mentre Teresa e Angelica facevano le valigie, intenzionate a saltare sul primo regionale per Napoli, e io mi vestivo con la prospettiva di raggiungere Carmine, sentii per caso Elena che parlava al telefono dentro al bagno.
Non sono mai stato uno che origlia, ma mi incuriosì il tono di voce che stava usando. Quando mi avvicinai alla porta la colsi nel dire: "Certo, allora vengo da te più tardi! Un bacione", in modo intimo e vivace.
Dopo un paio di minuti uscì. Io l'aspettavo già seduto alla scrivania della stanza da letto, tutto ingrippato.
Tornata in camera si guardò intorno stranita: – Dove sono finiti tutti? – si informò notata l'assenza degli altri, ignorando che si fosse appena consumata una sceneggiata epica in salotto proprio mentre lei chiacchierava con chissà chi.
– Con chi eri al telefono? – domandai di rimando, per spostare il cuore del discorso sulle impellenze del mio attacco acuto di gelosia.
Lei fece spallucce con noncuranza: – Con Marcello, perché?
Che incredibile invadenza, chella latrina. Pure durante le feste me lo dovevo ritrovare tra i coglioni?
– Ma me lo spieghi perché quello ti deve stare in culo in culo in questa maniera? Chi si crede di essere? – sbottai, forse a voce troppo alta – Il tuo allenatore che ti chiama per andare da lui a capodanno? Che razza di rapporto è?
– Mi ha solo invitata a una festicciola che ha organizzato stasera con altra gente della palestra, Lì. Che problemi hai? – spiegò lei, le sopracciglia sottili aggrottate.
Le rivolsi uno sguardo risentito, quasi offeso da quel suo minimizzare così spudorato. Lo trovai molto insensibile nei miei confronti eppure lei, incrociato il mio sguardo teso, ebbe addirittura l'ardire di aggiungere: – Guarda, ti giuro, non puoi essere geloso di uno che mi conosce da quando ero piccerella – quasi con scherno.
Francamente non capii il nesso di quella precisazione. Per me era così lampante che quel tizio avesse un atteggiamento lurido nei suoi confronti, traspariva in ogni cosa facesse: come la contattava, le parlava, la toccava, pure per come si era rivolto a me. Rimasi a dir poco scioccato dal fatto che Elena potesse davvero non essersene mai accorta.
Marcello era losco e io lo sapevo con certezza matematica, anche se l'avevo incrociato appena dieci minuti in mezzo alla strada. Pensai che l'unica giustificazione possibile alla totale cecità di Elena, su quel punto, era che fosse annebbiata dalla relazione maestro-allieva che li legava. Forse proprio perché lo conosceva da quando era piccola.
– Non puoi cambiare allenatore? – la buttai lì così, in maniera un pelo troppo burbera per essere preso sul serio.
Infatti mi scoppiò a ridere in faccia: – Filì, jamm', ma che dici! Marcello mi allena da una vita, mi ha portata a vincere le regionali di categoria l'anno scorso... Come ti viene in mente una cosa simile? – ribadì, con il ritmo flemmatico della parlata volto a sottolineare ulteriormente l'assurdità della mia idea.
Io mi alzai di scatto dalla sedia, aprii brusco la finestra per far circolare il mio malcontento, e accesi una sigaretta.
– Lenù, tu non noti come ti guarda perché sei donna. Un altro uomo di queste cose si accorge subito – la avvertii, le gambe allungate sul davanzale per prendermi tutto lo spazio che la vita pareva continuare a togliermi con sadica caparbietà.
Lei non fece una piega, anzi, seguitò a ridere e a rispondere con condiscendenza mentre veniva a sedersi sul mio bacino. Leccò le mie labbra impregnate di fumo e mi agganciò con quel paio di pezzi di cielo che aveva in faccia, a cui sapeva che non riuscivo a resistere.
– Mo me lo dici dove sono finiti gli altri? – chiese di nuovo.
Mi teneva fatto.
Come un povero scemo.
E mi piaceva da morire la sensazione di essere succube di quella sua stregoneria.
Lì per lì fui costretto a lasciar correre. Elena proprio sembrava non rendersi conto dell'enorme problema che Marcello rappresentava per me, per lei, per noi. Quindi mi promisi che avrei risolto la situazione alla mia maniera in un secondo momento, quando avrei potuto parlare faccia a faccia con quella lota.
La strinsi a me con una mano sulla sua natica. Addentai con garbo l'angolo curvo del bel collo lungo e, mentre finivo la sigaretta, le feci un riassunto dell'intrallazzo di cui erano stati protagonisti Carmine, Teresa e Angelica quella notte. La sua espressione passò rapidamente da stupore divertito e intrigato, per la storia dell'insospettabile threesome, alla delusione per la tragica rottura dell'amicizia tra i miei due amici d'infanzia.
– Le ragazze sono andate a prendere il treno per tornare a casa – comunicai. Avevano deciso così da sole, per lasciare a Carmine lo spazio che gli serviva per riprendersi.
– Che tarantella... – sospirò lei, rammaricata. Sottolineò di essersi trovata benissimo con tutti e che fosse un peccato non poter più uscire tutti insieme: – Vi lascio da soli anche io? Così puoi consolare Nelluccio senza avere me tra le palle.
Mi mancava già all'idea che se ne andasse e concludessimo in quel modo così aspro un viaggio che avrebbe dovuto essere leggendario, ma ammisi che fosse una buona idea.
Lei chiamò subito Teresa e pregò che la aspettassero per prendere il treno tutte insieme. Sistemò il suo zaino in fretta, poi mi salutò con un bacio a stampo che riecheggiò per tutto l'appartamento: – È stato un capodanno memorabile. Grazie mille – mi strappò il cuore con un ultimo sorriso e se ne andò via di corsa verso Termini.
Allora rimasi seduto sul divano da solo, per ore, a guardare la TV senza troppa attenzione nell'attesa che Carmine tornasse e, soprattutto, meditando la mia vendetta su Marcello.
Carmine aveva abbandonato il cellulare sul piano della cucina, quindi sapevo di non poterlo raggiungere in nessun modo, neanche volendo. Non mi restava che avere pazienza.
Fece finalmente ritorno quasi tre ore dopo. Quando aprì la porta e vide solo me, dai suoi occhi capii che si fosse realizzata esattamente la sua speranza più grande. Tirò un sospiro di sollievo e stirò un sorriso poco credibile. Aveva gli occhi rossi e gonfissimi, dopo chissà quanto pianto isterico versato sotto ai ponti della capitale. Pareva disidratato.
– Siamo soli – ribadii, anche se aveva tutta l'aria di averlo già capito.
Lui annuì e si lasciò cadere di fianco a me sul divano. Fissò la TV con lo sguardo spento e vuoto.
– E quindi alla fine siamo di nuovo qui, davanti alla TV con l'hangover post-capodanno, anche se a Roma non trasmettono 32 Dicembre come farebbero a Napoli – constatò con voce roca.
Irruppe in un attacco di tosse nervosa e si strinse addosso la coperta di pile che era stata abbandonata sul bracciolo.
– A volte bisogna saper apprezzare anche la routine, no? – scrollai le spalle per sdrammatizzare.
Non sapevo bene cosa dire per consolarlo.
Riconoscevo, anche senza esserci passato di persona, che per una situazione come quella sua non ci fosse nessun rimedio possibile nel breve termine. Serviva solo tanto tempo per far pace con sé stessi e armarsi di tutta la pazienza necessaria per attendere che il dolore andasse via da solo.
– Mia nonna mi ripete sempre che bisogna accontentarsi, che è meglio racimolare poco piuttosto che non avere niente – continuò lui, con un filo di voce – Ma sarà poi vero, fra'? Io stavo molto meglio prima, quando non avevo niente. Anche se fare sesso con lei era sempre stato il mio sogno ricorrente, adesso preferirei non averlo mai fatto. Pure se, mentre succedeva, è stato il momento più felice della mia vita.
Rimasi un attimo in silenzio, a ragionarci su. Poi risposi di getto, senza peli sulla lingua: – Invece tua nonna ha ragione. Non è vero che prima non tenevi niente, avevi l'amicizia di Teresa ma non riuscivi a fartela bastare. Era meglio avere quella, piuttosto che il niente con cui sei rimasto adesso perché hai chiesto troppo. No?
Mi accorsi di aver mollato una freddura che, non solo non lo avrebbe aiutato, ma aveva tutto il potenziale per farlo stare peggio.
Lui, infatti, rimase in silenzio a fissare nel vuoto. Deglutì a forza, e il rumore del malloppo di amarezza che si cacciò giù per la gola risuonò in tutto il salotto.
Mi frugai nelle tasche, rollai in fretta una canna e gliela passai, come se stessi offrendo del cibo a un mendicante.
Andai a spalancare le finestre per far passare aria nuova.
Lo vidi annuire di nuovo, stancamente, si fece un tiro e spostò lo sguardo per terra, forse alla ricerca dei cocci di sé stesso sparsi chissà dove.
Poi non ne parlammo mai più.
***
Tornato a casa, il mio primo pensiero fu come incatastare Marcello e fargli capire che doveva cambiare atteggiamento con Elena.
Passai tutta la serata ad aggiornare costantemente Instagram per spiare le stories di chiunque potesse essere alla "festa" a cui lei mi aveva detto che avrebbe partecipato. Ma non trovai nulla di utile, purtroppo, poiché non conoscevo nessuna delle sue colleghe della palestra, e comunque i loro profili sui social erano tutti privati.
Decisi che, se dovevo usare le maniere forti, sarei dovuto andare fino in fondo in maniera programmata. Visto che papà mi aveva già concesso la sua macchina per tutta la settimana, pensai di usarla per scoprire dove abitasse Marcello.
Ma prima dovevo anche conoscere con assoluta precisione tutte le volte che Elena sarebbe andata ad allenarsi quella settimana, in modo da non incrociarla mai. Chiaro che non fosse una cosa che avrei potuto chiedere direttamente a lei senza correre il rischio di farla insospettire. Sarei dovuto partire dai suoi orari di lavoro e andare per gradi, piano piano, a unire i tasselli uno alla volta.
Così, un tardo pomeriggio di metà settimana, mi presentai alla bottega equosolidale di Piazza Cavour con la certezza che in quel momento Elena non fosse di turno, perché doveva aiutare sua zia a fare non ricordo cosa.
Ero stato lì un paio di altre volte durante il mese precedente, in occasione di alcune sessioni di un corso che Elena doveva aiutare a moderare, e avevo carpito molto di come funzionava l'organizzazione interna. I turni di civilisti e volontari erano segnati sulla scrivania dietro al bancone della cassa, mensilmente, e quindi sapevo già da dove raccogliere le info per pianificare al meglio le mie imboscate a Marcello.
Come al solito, Piazza Cavour si presentava come un microcosmo buio e lercio, incrostato di munnezza e liquami di dubbia origine, in cui la casetta rossa al centro dei giardini sembrava l'unica oasi di salvezza in mezzo a quell'inferno.
Varcata la porta vetrata mi accolse il caldo sorriso della ragazza bionda che interruppi mentre sistemava delle buste di caramelle di fianco alla cassa.
– Ciao, Sasi, come stai? – sorrisi, ricordandomi subito di lei. Era una giovane, ma già storica, volontaria di quel posto, ed Elena le voleva bene come a una sorella.
Sasi mosse svelta la sedia a rotelle verso di me e mi strinse in un abbraccio affettuoso: – Tutto bene, caro. E tu? Cerchi Elena?
Scossi la testa: – No, sono venuto a comprare delle cose per mia madre – mentii, ma alla fine avrei per forza di cose dovuto comprare qualcosa, per giustificare la mia visita.
– Serviti pure! – mi invitò, entusiasta, e indicò gli scaffali di prodotti ben organizzati alla destra del bancone – Anzi, se ti posso chiedere la gentilezza di scendere giù delle scatole dal magazzino, già che sei qui, perché le hanno messe troppo in alto e oggi sono da sola a sistemare la bottega – pregò, entrambe le mani impegnate a tirare con forza la porta un po' imballata del ripostiglio in fondo al locale.
La accompagnai dentro lo stanzino e tirai giù un paio di pesanti scatole dalle scaffalature. Lei, contentissima, mi ringraziò come se avessi compiuto chissà quale impresa eroica e iniziò a raccontare di tutte le lodi che Elena e sua zia tessevano di continuo nei miei confronti. Poi chiese se, prima o poi, mi andasse di esibirmi in una delle serate di fundraising organizzate dall'associazione, ma la cosa mi prese in contropiede e mi irrigidii. Ovviamente non avrei più potuto cantare in pubblico o, comunque, non avrei voluto, perché dopo il drop del video su YouTube sarebbe diventato troppo grande il rischio di essere sgamato.
Annuii con meccanicità, un sorriso tirato sfoggiato per circostanza: – Se capiterà l'occasione posso suonare il piano, volentieri. Ma non canto più perché le sigarette mi hanno fatto abbassare la voce.
Che scusa del cazzo. Comunque lei non fece osservazioni in merito, forse per eccesso di cortesia o perché non ne valeva la pena.
Tornò al suo lavoro di inventario delle donazioni dell'usato e io mi diressi verso i prodotti equosolidali per comprare giusto due cose di facciata. Scelsi un paio di varietà di caffè, un barattolo di miele locale e della pasta che doveva essere trafilata con l'oro per quanto era costosa. Quando mi piazzai davanti alla cassa, Sasi mi istruì prontamente su come pagare ad alta voce, dall'altro capo della sala: – Lascia pure i soldi nella cassettina sulla scrivania. Ci dovrebbero essere anche le monete per il resto, se serve!
Tutto come sperato.
Spinto dalla coscienza sporca, lasciai un'intera banconota da cinquanta e poi mi piegai a fare una foto veloce e furtiva al calendario dei turni di gennaio.
Prima di andare via abbracciai Sasi, col calore un po' colpevole di chi è stato destinatario di un grande favore di cui il mittente non era consapevole, e lei mi fece promettere di andare a trovarle più spesso in bottega.
Bene, la prima parte dell'"Operazione Marcello" era stata completata senza intoppi.
La seconda missione prevedeva di informarmi direttamente alla palestra sui turni di lavoro di Marcello. Finsi di avere un fratellino che voleva iscriversi a nuoto, e il ragazzo alla reception mi illustrò tutti i dettagli sui corsi e gli insegnanti. Non mi restava che incrociare gli orari e individuare in quali momenti Marcello ed Elena non si sarebbero trovati in palestra in contemporanea.
Lì per lì, ammetto che non mi sovvenne neanche per un momento l'idea che quanto stessi facendo potesse sembrare un po' malato a occhi esterni. Io sapevo di fare tutto quel bordello per un bene superiore, quasi sacro, in cui credevo ciecamente.
Il mattino dopo mi svegliai carico a pallettoni, già prontissimo per l'attuazione del piano finale. Dall'apertura della palestra fino al primo pomeriggio, Elena sarebbe stata a lavorare a Piazza Cavour, così io avrei avuto campo libero per agire su Marcello. Mi appostai nei dintorni dell'ingresso alla piscina poco prima di pranzo e, infatti, vidi Marcello uscire una decina di minuti dopo. Avrei potuto affrontarlo già lì davanti ma ero sicuro che, se mi avesse trovato sotto casa sua, gli avrei messo più paura e l'avvertimento sarebbe stato più efficace.
Saltò sulla sua moto (ovvio che avesse una moto! Aderiva alla perfezione all'immagine del personaggio disgustoso che era, per spararsi le pose cool con le ragazzine che allenava) e iniziai a seguirlo con discrezione. Per fortuna trovai poca confusione in strada a quell'ora, soprattutto dai Colli Aminei al Vomero. Infatti scoprii che lo stronzo abitava in Via Cilea.
Parcheggiò al margine del marciapiede del suo palazzo e si chiuse il portone alle spalle come un fulmine.
A quel punto, meditai se aspettarlo in strada o attendere che qualcuno riaprisse il cancello per menarmi dentro al cortile. Optai per la seconda opzione, sarebbe stata più d'effetto per impaurirlo. Lasciai anch'io la macchina poco più avanti sulla stessa strada e andai a piazzarmi di fianco ai citofoni finché non uscì per caso una vecchia, neanche mezz'ora dopo. La mia chance di intrufolarmi dentro al condominio.
Mi appollaiai su una delle aiuole a corolla di un altarino della Madonna circondato da lampeggianti neon multicolor, e mi accesi una sigaretta. Erano quasi le 14 e, secondo i dati sulle tempistiche che avevo raccolto, sapevo che alle 15 Marcello avrebbe dovuto riprendere i corsi. In quel lasso di tempo, quindi, me lo sarei ritrovato davanti per forza.
Anzi, lui si sarebbe trovato davanti me.
Buttai qualche occhiata veloce al cellulare per ingannare il tempo e taggai Teresa sotto un paio di meme di Polpo di Stato particolarmente divertenti, ma non volli distrarmi troppo perché volevo essere pronto per quando lo avrei visto scendere le scale.
Senza accorgermene ero arrivato alla quarta sigaretta di fila e cominciavo a sentirmi nervoso e sovreccitato. Finalmente, alle 14:38, sentii una porta al primo piano aprirsi e richiudersi. Dopo qualche secondo apparve Marcello in fondo al cortile.
Spensi la sigaretta per terra e gli andai incontro.
– Yo! – salutai, aprii le braccia e finsi un languido tono amichevole – Ti ricordi chi sono?
Lui, in prima battuta, parve confuso.
Mi squadrò con una punta di classismo da capo a piedi e poi, notato l'alone violaceo del livido che mi era rimasto sotto all'occhio dalla rissa di capodanno, indovinò: – Ah, sei il ragazzo di Elena?
Mi venne da ridere: – Allora lo sai che è già impegnata con me, perché non la smetti di trattarla come se fosse roba tua? – alzai già i toni senza rendermene conto.
Lui fece spallucce e abbozzò un ghignetto beffardo sotto a quella barbetta da frat ro cazz': – Non è più "tua" di quanto non sia "mia" – puntualizzò – Tra me ed Elena c'è già stato qualcosina, sai, in passato. Forse non te l'ha detto per non farti incazzare ma, proprio perché sono un gentiluomo, lasciai perdere dato che all'epoca era ancora minorenne.
Non potevo sapere se mentisse o se quelle allusioni fossero vere. Quella storia poteva essermi stata taciuta da Elena, per ovvi motivi, anche se fosse stata la verità ma, allo stesso tempo, nulla escludeva che lui potesse spararle grosse solo per animare in me quella scontatissima rivalità che si crea tra gli uomini per conquistarsi il primato d'ingresso nella vita sessuale di una donna.
Mi innervosii più del dovuto.
– E con questo cosa vorresti dire? Che adesso che è maggiorenne hai intenzione di riprendere da dove avevate lasciato? – insinuai, le dita annodate con nervosismo dentro alla tasca del bomber.
Lui sbuffò, divertito: – Questo sta a lei deciderlo – tagliò corto, mi scansò e mosse un paio di passi verso il portone per andarsene – Ora scusami, ma non ho tempo per le sceneggiate da ragazzini. Devo tornare a lavoro.
Gli afferrai un braccio per fermarlo: – Io non sono più ragazzino di quanto non lo sia Elena. Eppure lei la vedi già papabile per una scopata, mentre con me non ci vuoi neanche parlare? – lo strattonai indietro per riportarlo sotto l'arco delle scale.
– Il tuo comportamento tradisce la tua età, Filippo, invece Elena è molto più matura dei suoi anni – mi schernì lui, con aria di superiorità, anche se il suo tono di voce iniziò a tradire un'emergente punta di tensione – Forse potreste beneficiare entrambi dal frequentare gente più grande, per crescere meglio – rincarò.
In pratica, stava affermando neanche troppo velatamente che io ed Elena ne avremmo guadagnato dal lasciarci. Che lui sarebbe stato, per lei, molto meglio di quanto potessi essere io.
– Ah, vorresti pure farla passare come una cosa altruistica – sbottai – Per come la vedo io, l'unica cosa a crescere in una situazione come quella sarebbe il tuo cazzetto arrapato di fronte a guagliuncelle che potrebbero essere figlie tue. Rattuso!
Lo spinsi con forza ancora più indietro; ma lui seguitò, imperterrito, a sfoggiare un sorrisetto beffardo su quella faccia di culo che si ritrovava. Ormai avevo i nervi over 9000.
– Conosco Elena da più di dieci anni. Tu, ragazzino, non riusciresti a intrometterti tra noi neanche mettendoci tutto l'impegno di cui sei capace – mi poggiò una mano sulla spalla con fare paternalistico, come non permettevo neanche a mio padre di fare – Ti faccio vedere una cosa – aggiunse, e tirò fuori il cellulare dalla tasca del giubbotto.
Scorse a lungo nella galleria, ma non mi riuscì di aspettare che trovasse ciò che desiderava mostrarmi, poiché la vista di tutte le foto di Elena e di altre ragazze in piscina che teneva salvate in memoria furono già abbastanza per farmi perdere completamente il controllo.
Gli strappai quell'affare dalle mani e presi a schiaffeggiarlo col suo stesso telefono, avanti e indietro, finchè non vidi il sangue spruzzargli via dal naso e dal labbro superiore. Poi gettai sui sampietrini quel maledetto iPhone mangiasoldi di merda e lo fracassai sotto al mio stivale.
– Te lo ripeto, smettila di molestare Elena o tra noi non finisce qui – ringhiai minaccioso, e mi defilai dal portone con finta freddezza mentre mi accendevo l'ennesima sigaretta.
Però, tornato in macchina, feci capa e sterzo più e più volte. Inveii contro me stesso e i miei blackout del cazzo. Ero andato lì solo con l'intenzione di spaventarlo, non di picchiarlo e rompergli il telefono.
Porca puttana!
Ci potevo scommettere che avrebbe usato quelle cose contro di me con Elena, e lei gli avrebbe pure dato ragione.
Che sang' ra maronn', Filì.
Rimasi seduto, a fissare il vuoto dentro alla macchina, per una serie di minuti interminabili.
L'unica possibile chance per far passare lui dalla parte del torto l'avevo appena frantumata sotto i miei piedi. Avrei dovuto fottermi quel maledetto cellulare e mostrare a Elena tutte le foto disgustose di lei e delle altre atlete che quel maiale custodiva gelosamente in galleria, il suo personalissimo mini-YouPorn.
E invece avevo distrutto quel cellulare in mezzo secondo, senza neanche pensare a cosa stessi facendo.
Un vero cazzone.
Filippo, perché non impari mai?
***
Elena divenne irraggiungibile per giorni, dopo quel pomeriggio. Mi appese così, all'improvviso, senza neanche chiedermi spiegazioni su quello che avevo fatto e perché.
Io continuai imperterrito a bombardarla di chiamate e messaggi, che finivano sistematicamente nel vuoto. Non servì a niente neanche andare sotto casa sua o quella della zia. Le finestre parevano sbarrate, nessuno rispose ai citofoni. Mi presi solo un sacco di bestemmie dai vicini di casa, infastiditi dalle mie urla. Al negozio Carpisa non si vedevano né lei né sua madre già da prima delle feste di Natale.
Non rispose nemmeno quando fu Teresa a tentare di contattarla, su mia richiesta, non prima di essermi preso un cazziatone bestiale proprio da lei.
Dopo una settimana di assoluto silenzio, sabato 14 gennaio 2017, sul finire del mio turno al bar, mi arrivò una foto sulla nostra chat di WhatsApp senza alcuna specificazione testuale.
La Gaiola.
Sembrava scattata in quello stesso momento.
Mi gettai oltre al bancone in un secondo e corsi come un pazzo verso casa di Carmine ai Tribunali. Nel frattempo, al telefono, lo avevo già implorato di prestarmi il motorino e farmelo trovare pronto entro dieci minuti.
Lui, da migliore amico quale era sempre stato, non fece domande. Lo trovai ad attendermi davanti alla sua palazzina con le chiavi già inserite nella vespa.
Spinsi quel povero catorcio oltre ogni suo limite quella sera, così tanto che più d'una volta temetti di essere a un passo dal fare un incidente mortale e mandare tutto affanculo una volta per tutte.
Arrivai lì di sgommata, quasi un'ora dopo, sulla spiaggia deserta come non l'avevo mai vista. Del resto non ero mai stato lì durante l'inverno.
Elena era l'unica anima viva presente nel raggio di chilometri, seduta sul muretto del piccolo molo che delimitava la spiaggetta. Il suo cappotto rosso mi accecò; un'eruzione vesuviana mi investì prima ancora che ci parlassimo.
Si voltò a guardarmi solo quando fui talmente vicino da inginocchiarmi accanto a lei.
Attesi una sua mossa, in perfetto silenzio.
Le avevo già scritto e mandato messaggi vocali, senza sosta, per tutta la settimana. Ormai sapeva ogni dettaglio di ciò che avevo fatto e perché, anche che mi ero pentito e che avevo chiesto il suo perdono strisciando come un umile schiavo.
Però una cosa ci tenevo a ribadirla: – Tutto, chiedimi tutto, qualsiasi cosa. Fammi vattere da Marcello, buttami il cellulare a mare, chiedimi di fare i lavori forzati... Ma ti prego, Elena, non mi lasciare – supplicai.
Lei scosse la testa, gli occhi chiusi a fessura fissi sul mare di fronte a noi come in cerca dell'unica risposta che, forse, non le avevo ancora dato: – Ti avevo chiesto di parlarmene se c'avevi la guerra 'ncapa, ma tu non l'hai fatto. Non ti sei aperto e non hai provato a risolvere questo problema né con me né per conto tuo, neanche quando te l'ho fatto notare – sottolineò con disappunto.
Aveva ragione.
Non seppi come difendermi perché aveva ragione al 100%, e io avevo torto marcio. Non tanto per come avessi trattato quella scarda di Marcello, ma per come avevo trattato lei, la persona più importante della mia vita. Avevo tramato alle sue spalle, dubitato della sua parola, ignorato i suoi pazienti tentativi di aiutarmi e capirmi.
– Hai ragione, amò... – sussurrai con un filo di voce, le lacrime iniziavano ad affacciarsi prepotenti sul bordo delle palpebre – Ma nun se po' appara'? Lenù, io ti amo da impazzire. Non posso perderti, sei la cosa più bella che mi sia mai capitata nella vita!
Un cavallone feroce rombò proprio ai nostri piedi in quel momento. Lo sfrigolio prodotto dal suo infrangersi sulla barriera parve suggerirmi di fare il cesso e comprarmi un cervello nuovo, invece ebbi l'infelice istinto di insinuare con un pizzico di boria: – Mica ti sei messa paura di me?
Lei finalmente si voltò a trafiggermi con i suoi begli occhi turchesi, lucidi e gonfi per il pianto inasprito da una delusione palpabile, che mi aderì addosso come una seconda pelle: – No, Lillo, non sono io ad aver paura di te. Forse sei tu che sei terrorizzato da te stesso – deglutì al ritmo del lamento di un gabbiano in lontananza – Devi chiudere i conti con quello che sei, o che eri, prima di poter stare con qualcun altro.
Un'altra onda, stavolta più debole, spumeggiò oltre la parete di cemento che preannunciava ciò che stavo per diventare.
Elena ritirò la testa tra le spalle, forse per la brezza o forse per nascondere i sussulti strozzati in gola: – Filì, tu sei stato e sarai per sempre il mio primo, vero, grande amore – ammise tra i singhiozzi – Ma questo non è proprio il momento giusto.
Fu a quel punto che sentii ogni parte di me tramutarsi in gelida, dura ed esanime pietra. E non era solo dovuto al freddo boia del vento che mi schiaffeggiava la faccia rigata di lacrime.
Era stato lui a dirle quella cosa? Suonava fin troppo simile alle chiacchiere con cui Marcello aveva abboffato anche me. Che eravamo troppo giovani, che io ero un ragazzino e lei, invece, "così matura".
Eppure aveva deciso di lasciarmi.
... Ma come, mi stava davvero lasciando?!
Marcello era un disgustoso patologico e ciononostante io mi ero scusato, anzi, di più, mi ero prostrato e detto disposto a fare qualsiasi cosa per rimediare alla cazzata che avevo fatto.
E lei mi lasciava lo stesso?
– No... – il mio stesso respiro finì con l'andarmi di traverso, ma continuai a gracchiare in protesta – Lenù, anche tu sei e sarai per sempre il mio grande amore. Non può finire così!
Lei non riuscì più a reggere il mio sguardo. Spostò il suo sull'orizzonte distante, il Vesuvio ormai avvolto nel buio, la schiena arcuata e mossa dai tremori misti da assideramento e singulti: – Sei uno scemo... – decretò, con un sussulto del petto quasi impercettibile. Credetti di scorgere il piccolo fantasma del suo cuore slacciarsi dalla massa muscolosa delle sue interiora per andarsi a tuffare nel golfo.
Un clacson suonato in lontananza ci interruppe e il suo telefono trillò come le campane di un funerale.
Elena tornò a voltarsi verso di me un'ultima volta.
Mi diede un bacio tenero e lento, inumidito dalle lacrime di entrambi. Pensai che poter baciare quelle labbra era l'unica ragione per cui valesse la pena vivere la mia miserabile vita. La strinsi a me talmente forte da sperare di riuscire a inglobare le cellule del suo corpo in ognuna del mio, così saremmo potuti restare insieme per sempre.
Lei si abbandonò per un attimo, la tenera testolina di capelli ammorbiditi dall'olio di cocco incastrata sotto al mio mento, come faceva sempre la mattina quando si svegliava.
Ma poi mi spinse via con un rapido gesto delle mani.
– Sono sicura che, a mente fredda, capirai anche tu perché sia meglio così per entrambi – mi assicurò, un ultimo colpo al cuore inflitto senza pietà coi suoi occhi indimenticabili – Per favore, rispetta la mia decisione. Non mi cercare più.
Non sentivo di avere ancora finito, invece... era finita.
Si alzò e corse via come un lampo; senza neanche darmi il tempo di metabolizzare le parole, i movimenti, le decisioni, i pensieri e il triste futuro di tutto ciò che mi circondava.
Così iniziai l'anno più importante della mia vita come un poveraccio, perdendo la donna dei miei sogni e facendo la figura del mentecatto con tutti i suoi conoscenti. A un solo mese dal giorno che mi avrebbe consacrato agli occhi del mondo con un nuovo nome e un'identità fantasma.
Terra chiama Filippo. Ci sei ancora?
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NdA: Forse un po' lungo questo capitolo, ma spero non vi abbia annoiato!! Siete d'accordo con la decisione di Elena?? Fatemi sapere cosa ne pensate della loro storia d'amore!
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