Track XI - We come from Napoli
Meglio sorvolare sul cenone natalizio, e sulle sceneggiate drammatiche intavolate da papà quando mi rifiutai di passare il 25 dicembre col suo ramo della famiglia.
Lui, ovviamente, aveva intenzione di riscattarsi e dimostrare a tutti i suoi nobili parenti come il suo unico figlio maschio non solo non fosse un buono a nulla criminale, come aveva temuto in passato, ma addirittura un brillante futuro musicista che era stato accettato al conservatorio senza debiti.
Me ne passava manc' po' cazz' di fargli sparare la posa con lontani consanguinei che neanche conoscevo di persona e dei quali non avevo mai avuto l'ambizione di conquistare il sostegno, tantomeno di aderirne alle aspettative.
Non che la famiglia materna fosse tanto meglio, in realtà. La maggior parte di loro scaricava inconsciamente su di me la colpa del "fallimento" della vita di mia madre, che sognava una carriera scolastica alla Caro Maestro, come se fossi stato io stesso a metterla incinta.
Comunque la settimana di Natale si levò presto dalle palle. Forse anche grazie alle incombenze di lavoro per Andrea e Natalia, nonché un sacco di studio arretrato, che mi impiegarono la maggior parte del tempo e dei pensieri.
Spesso, quando mi esercitavo a casa alla tastiera, mamma veniva a sedersi vicino a me e mi guardava per tutto il tempo con occhi orgogliosi e sognanti. Poi mi portava il caffè per fare delle pause di chiacchiera tra un pezzo e l'altro, e mi chiedeva di Elena, Teresa, Carmine e del conservatorio.
In quel periodo iniziai seriamente a pensare a come le avrei raccontato del mio lavoro, se davvero avessimo iniziato a guadagnare col "progetto LIBERATO". Il problema era che non avevo nessuna intenzione di dirle la verità, perché mamma non avrebbe saputo mantenere un segreto così importante (in particolare su qualcosa che avrebbe restituito un minimo di dignità alla sua decisione di rovinarsi la carriera per non abortirmi) ma, al tempo stesso, sarebbe stato davvero difficile nasconderglielo.
Un giorno ne parlai con Andrea e lui sembrò molto sereno sulla possibile risoluzione della situazione: avrebbe riferito a mamma di avermi assunto come consulente per le sue attività di produzione musicale, e tanto sarebbe bastato perché lei non avrebbe avuto motivo di dubitare della sua parola di professionista. Considerato soprattutto che era stato il mio insegnante all'IPM, ed era grazie a lui se avevo intrapreso la strada del conservatorio.
Incontrai spesso anche Gennaro e Francesco durante l'ultima settimana dell'anno, poiché c'era ancora da ultimare la post-produzione di audio e video nei giusti tempi per avere margine di revisione prima di pubblicare su YouTube a San Valentino. Ma in quei giorni ero impegnato innanzitutto a convincere Elena a scappare via con me per capodanno, per passare un paio di giorni da qualche parte a disintossicarci dalle feste comandate in famiglia. Lei era poco persuasa, forse perché non avevo né un programma convincente né una meta designata e allettante.
Finché, per fortuito caso, Carmine non mi chiamò due giorni prima del 31 per salvarci tutti.
Spiegò che i suoi zii di Roma sarebbero scesi a Napoli per la fine dell'anno, e aveva chiesto loro se potessero lasciarci alloggiare lì per quel paio di notti che la casa restava vuota. A quella notizia mi sentii come se avessi vinto la lotteria. E non solo, perché Carmine mi chiese persino di invitare Elena, Teresa e Angelica a venire con noi.
Quando lo riferii a Teresa quasi non ci credeva: – In realtà avevamo altri programmi, ma... cazzo! Appendiamo tutto e veniamo con voi – rispose entusiasta, sia per la prospettiva di farsi una scappata fuori porta, sia perché erano svariati mesi che Carmine non le parlava più e mo addirittura la stava invitando a passare le feste insieme con la sua nuova fidanzata.
L'unico cagamento di cazzo logistico, però, dovetti sobbarcarmelo io, dato che Carmine ci metteva l'alloggio. Sarei dovuto andare a strisciare da mio padre a chiedergli di prestarmi la macchina, per andare a Roma in gran stile on the road. Così, quella stessa sera, fui costretto ad accettare di cenare a casa sua.
Come immaginavo, furono tre ore filate di critiche neanche troppo velate, opinioni non richieste, pregiudizi gratuiti e una spruzzata di snobismo da parte di ciascuno dei parenti presenti.
Non mi era mai stato chiaro il perché, per entrambi i rami della mia famiglia, la colpa di essere nato ce l'avevo solo io e non le due cape fresche che mi avevano generato.
La cornuta moglie storica di mio padre, quella che si era accollata una vita intera di tradimenti pur di mantenere le apparenze borghesi, era morta di cancro qualche anno prima. Ma avevo due sorelle maggiori (per quanto ne sapessi, le uniche figlie che ebbe dalla consorte ufficiale) che per me erano delle perfette estranee, alle quali non avrei rivolto la parola neanche sotto tortura.
E invece, di tanto in tanto, ero perfino costretto a sedermi allo stesso tavolo e mangiare il loro stesso cibo in virtù di quella forzatura chiamata "famiglia", per cui una cosa invisibile come il sangue che scorre nelle vene ha più valore del tempo e dell'affetto dedicato a persone con cui si condivide tutto tranne il patrimonio genetico.
La verità, per me, era che io avevo sempre avuto una sola sorella, e il suo nome era Teresa.
Comunque alla fine di quel calvario, in cui fui pure costretto a suonare il pianoforte di fronte a tutti come la scimmietta ammaestrata che avevano sempre voluto che fossi, riuscii a farmi concedere l'uso della macchina per tutta la settimana.
Uscii da quella casa che mi sentivo un reduce di guerra. Ma ne era valsa la pena!
Aprimmo una conversazione comune su WhatsApp per organizzare la trasferta. Fu deciso di partire il pomeriggio successivo, così da passare a Roma tutto il 31 dicembre.
Io mi sentivo eccitato come un bambino alla prima gita scolastica. Non avevo ancora avuto occasione di viaggiare con i miei amici, né tanto meno con Elena, completamente soli e durante una festa decente come l'inizio del nuovo anno.
Il capodanno a Napoli era figo perché si potevano vedere i fuochi di mezzanotte da ogni angolo della città, ma non sapevo cosa aspettarmi dalla capitale. Visto che il nostro regista, Francesco, viveva a Roma da un po' di tempo, chiesi a lui di darmi qualche consiglio su cosa fare e dove andare.
Il giorno seguente, dopo pranzo, andai puntuale e gasatissimo a raccattare tutti i membri del gruppetto uno ad uno.
– Finalmente inizierò un anno della mia vita senza fare lo zombie sul divano, a guardare la replica di 32 Dicembre su Telecapri con l'hangover e il pigiamone di flanella – esordì Carmine al suo ingresso in macchina.
– Questo è ancora tutto da vedere, Nellu' – sogghignai, ma senza la reale intenzione di calmierare il suo entusiasmo.
Impiegammo il tempo del tragitto a cantare a squarciagola le vecchie sigle dei cartoni animati e le canzoni dei film di Nino D'Angelo, a svaligiare gli Autogrill di patatine e lattine di Red Bull Sugarfree, e a fermarci per pisciare in posti improbabili.
Angelica aveva portato svariate bottiglie di vino della campagna di suo nonno, ma proibii a tutti di berle prima di giungere a destinazione perché non volevo essere l'unico stronzo ad arrivare sobrio a Roma.
L'atmosfera, comunque, era già abbastanza sovraeccitata pure senza l'alcol. Angelica e Teresa si slinguazzavano impunemente un minuto sì e l'altro pure, con Carmine che le guardava di sottecchi quasi come se fosse nel segreto della sua cameretta davanti a YouPorn, e io che sudavo freddo per non ritrovarmelo da un momento all'altro col pesce in mano.
Non che io fossi da meno. Passai tutta la corsa ad accarezzare la coscia di Elena, seduta di fianco a me sul sedile anteriore, talvolta fino a spingermi sotto la sua minigonna a pieghe per strapparle qualche gemito sommesso.
Circa tre ore più tardi lasciammo i nostri zaini a casa degli zii di Carmine, un banale appartamento di fine anni settanta a Centocelle, e ci riversammo subito nella zona degli aperitivi a via Delle Palme. Rimasi lucido neanche un paio d'ore, poi la memoria di quella notte divenne un buco nero, con solo qualche breve flashback di lucidità che non saprei riconnettere né a livello di spazio né, tantomeno, di tempo.
In uno dei club dove andammo a ballare ebbi la forza di marchiarmi a fuoco nella testa un pompino epico che mi fece Elena nel bagno sul retro. Fu quello, probabilmente, a darmi anche le energie necessarie a picchiare un tipo molto più grande e grosso di noi, con cui Carmine si era appiccicato dopo averlo beccato a toccare il culo di Teresa. Finimmo col prenderci a botte anche con gli amici di quello stesso coatto, che ci placcarono intonando cori da stadio contro i napoletani forse nella vana speranza di intimidirci (come se la gente di Napoli non ci fosse abituata!). Dato che almeno quegli eventi li ricordavo ancora, riuscii a spiegarmi perché mi fossi ritrovato all'alba con un occhio pesto, le nocche sanguinanti e un dolore atroce alle spalle.
Ma, chissà come, quando un raggio pallido sfuggito alla trama piatta dei pini che ci circondavano mi svegliò disturbandomi l'occhio sinistro, mi accorsi che eravamo sul lato del Tevere opposto a quello da cui eravamo partiti.
Presi il cellulare dalla tasca per guardare l'orario, le 6:48, e la posizione GPS; appresi così di trovarci nell'area verde sotto al Ponte della Scienza (lontanissimo da dove ricordavo di trovarmi l'ultima volta che ero stato cosciente). Tra l'altro, lo schermo del mio telefono era incrostato e scheggiato su tutta la parte superiore destra.
Bestemmiai interiormente senza svegliare Elena che dormiva ancora, avvinghiata a me con tutto il corpo come un serpente tentatore, il miniabito spostato a svelare giusto metà della mutandina nera a fiori rossi.
Quasi controvoglia la coprii e mi voltai a cercare gli altri con lo sguardo. Anche loro stavano ancora addormentati un paio di metri più in là, Teresa e Angelica appoggiate a un albero l'una con la testa sulla spalla dell'altra, con Carmine steso di lungo sul grembo di entrambe. Lui aveva un evidente livido sull'angolo sinistro della bocca e un sopracciglio spaccato.
Lo vidi muoversi con lentezza per grattarsi la ferita sulla faccia, con gli occhi ancora chiusi.
– Pssst – sussurrai, per attirare la sua attenzione nel caso fosse sveglio anche lui.
Lo era.
Aprì gli occhi strabuzzandoli, e si mise a sedere.
– Fra', ma che sfaccimma ci facciamo in mezzo al nulla? – domandai a bassa voce. Non abbastanza bassa da non svegliare Elena, che aprì gli occhi di scatto e sbadigliò rumorosamente.
Carmine scosse la testa, tutt'e due le mani a tenerla salda come se temesse di perderla: – Non lo so, Lì, non mi ricordo un cazzo – ammise, e pensò subito di frugarsi in tasca per controllare che avesse ancora cellulare e portafogli. Non doveva aver registrato irregolarità, perché notai il suo sguardo rasserenarsi.
Il rumore tintinnante delle chiavi appese al suo jeans svegliò Angelica e Teresa.
Ci guardammo tutti, stralunati.
– Guagliù, controllate bene se non vi manca niente – raccomandai, frugando anche io dentro tutte le tasche del pantalone. Tutto a posto.
Baciai Elena sulla fronte e le chiesi se stesse bene. I suoi occhi pieni di sonno sembravano ancora più azzurri e soprannaturali. Rispose, confusa, che ci avrebbe messo delle ore per riprendersi dalla nottata, e che aveva tanto freddo. Del resto era uscita solo con un vestito di maglia lungo fino al ginocchio, e un trench di camoscio davvero troppo leggero per fine dicembre.
Google Maps individuò la stazione metro più vicina e, attraverso la Garbatella, ci avviammo finalmente verso casa. Durante il tragitto provammo a fare lo sforzo collettivo di riorganizzare i pezzi di memoria della nottata che ci erano rimasti ma, nonostante cinque teste impegnate a farlo, non riuscimmo a ricavare molto più di quanto io stesso non ricordassi già.
Per fortuna eravamo ancora tutti interi e non eravamo stati derubati, nonostante tutto.
GRAZIE ROMA.
***
Giunti a casa crollammo in un riposo senza interruzioni, nemmeno per andare al cesso, fino alle 16:00.
Quando ripresi conoscenza non erano ancora passati né il mal di testa da sbronza né i dolori muscolari da rissa, quindi mi menai sotto la doccia per cercare di lavarmi via di dosso tutti i postumi. Elena si intrufolò con me nella vasca con la faccetta furba, gli occhi brillanti e un Durex in mano. Facemmo l'amore lentamente, come se i nostri movimenti fossero gestiti con lo speed controller di YouTube per capriccio di un utente arrapato. Usciti dal bagno, un'ora dopo, avevamo la sensazione di esserci riassemblati come pupazzetti LEGO, i muscoli più sciolti e il cervello più fresco.
Gli altri proposero di ordinare su Just Eat cibo per un intero reggimento, dolce e salato e, mentre aspettavamo la consegna e che finissero tutti di rimettersi a nuovo, uscii a chiacchierare con Elena fuori al balcone per godermi una cannetta.
– Chissà chi picchierai stasera! – esordì allusiva, con una punta di cazzimma nel tono.
– Perché? – investigai, come se fossi davvero sorpreso da quella domanda. Un po', forse, lo ero sul serio.
– Amo', da quando ti conosco non t'aggia mai visto ascì senza che ci scappasse la rissa con qualche sconosciuto – mi accusò, ma con una risata, per quanto nervosa. Si manipolava una ciocca color castagna in modo costante e automatico, il labbro piegato da un morso sull'angolo destro.
Tossii per sgombrare la gola dalla tensione e le domandai, con una certa dose di titubanza: – Me lo chiedi perché ti infastidisce, oppure... – lasciai aperta la frase per permettere a lei di finire il pensiero con più chiarezza.
Iniziai a temere di tutto. Che potesse avere paura di me, che mi odiasse perché mi credeva violento, che pensasse addirittura che sarei potuto diventarlo anche con lei.
Solo allora mi accorsi che la mia mano sinistra, stretta attorno allo spinello, aveva iniziato a tremare.
– Vorrei solo sapere come stai – si strinse nelle spalle che tozzavano appena vicino alle mie, appollaiati com'eravamo, l'uno accanto all'altra, con i gomiti sulla ringhiera del balcone.
– Ah, questo dovresti chiederlo a quelli che hanno la sfortuna di incrociarmi! – scherzai, per sdrammatizzare sia il tono del dialogo che la paura che montava nel petto – Sono sempre loro a prenderle di più.
Lei mi guardò con occhi profondi e seri. Aveva stipato del turbamento, o della preoccupazione, sul fondale di quegli specchi d'acqua trasparenti: – Lo sai che non credo nelle favole della non-violenza, e che non mi scandalizza di per sé il fatto che nella vita, nel mondo, la violenza esista e venga esercitata. Il problema è sempre capire chi e perché la agisce, su quale destinatario. E se si cela qualcosa di più dietro al movente professato o apparente.
Mi prese il culo della cicca dalle mani per spegnerlo sulla ringhiera incrostata di ruggine: – Tu ti senti assolto in automatico perché picchi sempre persone che, in qualche modo, sono in torto. Neanche me ne importerebbe niente se fosse davvero solo questa la ragione – spiegò grave, come non l'avevo mai sentita parlare prima – Ma se, invece, questa cosa non deriva solo dal tuo giocare a fare il giustiziere quanto, piuttosto, tieni 'a guerra 'ncapa 'o vero... allora vorrei che provassimo a risolvere.
Mi baciò prima ancora che mettessi in fila i pensieri per controbattere. Il calore che trasmise con la sua saliva al gusto fragola mi ustionò quasi più del residuo morente della sigaretta sulla ringhiera, sfiorato per sbaglio col dorso di una mano mentre andavo a passargliele attorno alla vita.
Spesso Elena parlava coi baci molto più chiaramente che con le parole. La sua lingua intrecciata alla mia, quella volta voleva farmi sapere che teneva alla mia pace mentale più di quanto ci avessi mai tenuto io.
"Non trascurarti", era quello il messaggio. E sapeva come dirmelo nell'unico modo che non avrei mai dimenticato.
Il brontolio del mio stomaco ruppe l'atmosfera di passione e riflessione, pur con un tempismo perfetto, perché erano appena arrivati gli ordini a domicilio.
La quantità estrema di cibo non ci irretì, anzi, per le 19:00 ci eravamo già sbafati fino all'ultima briciola e quelle energie recuperate ci permisero di chiacchierare e giocare a UNO nel frattempo. Avevamo bevuto così tanto caffè e Red Bull che sentivo il cuore battermi in petto come amplificato da un subwoofer, ma in estasi al pensiero dell'avvento della prima notte di un anno che si prospettava già fantastico, e tutta quell'adrenalina avrebbe potuto farmi tirare avanti per almeno altre due notti come quella appena passata.
Il concertone di capodanno fu annullato all'ultimo minuto; però il programma di ventiquattro ore non-stop di eventi tra il Circo Massimo e il Lungotevere supplì egregiamente a quella mancanza. Ci preparammo quindi come se avessimo tutto il tempo del mondo, tra una sigaretta e un sorso del pesantissimo vino paesano del nonno beneventano di Angelica, ma per le 22:30 le strade romane furono riconquistate. Stavolta Elena si era coperta manco fossimo stati in Alaska, infatti passò tutta la serata a spogliarsi dei mille strati che si era incipollata addosso.
La regola generale era di porci alcuni limiti di buon senso, se non altro per riuscire a tornare a dormire a casa invece di svenire per strada chissà dove, e rischiare pure la pelle.
Il DJ set allestito sotto al ponte della Musica era promettente, anche se allo scoccare delle 03:00 ormai eravamo rimasti solo noi e poche altre anime in giro per Roma. Eppure, in mezzo alla piccola folla davanti al palco, con un pelo di raccapriccio, scorsi Francesco. Il regista.
Ero abbastanza lontano da sospettare che lui non mi avesse visto, ma mi irrigidii e mi guardai intorno per capire se gli altri potessero intuire la mia tensione.
Non volevo ignorarlo, anche perché era stato gentile a consigliarmi dove e come muovermi in città, ma non volevo neanche salutarlo davanti a tutti col rischio che poi si ricordassero di lui e lo ricollegassero a me in qualche modo.
Famoso non lo era di certo, ma era una faccia simpatica e barbuta che resta impressa e, comunque, di info su Google se ne trovavano già abbastanza. Decisi di mandargli un messaggio per spiegargli la situazione, nella vana speranza che sentisse il cellulare in tutto quel marasma. Cercai di defilarmi, sempre più impanicato, ma i ragazzi volevano piazzarsi proprio di fronte alle impalcature e mi trascinarono verso il centro della bolgia.
Proprio lì mi sentii toccare la spalla.
Ancora prima di voltarmi, sapevo chi avrei trovato. Dedussi che non aveva letto il messaggio.
Chiusi gli occhi con rassegnazione e mi voltai, un sospiro mi sfuggì dalle labbra per la ciorta che avevo avuto.
Francesco allargò le braccia e fece le feste a me e i miei amici, come se niente fosse: – Uè, Filì, allora siete venuti. Buon anno! – esclamò – Vi state godendo Roma?
Io stirai un sorriso di circostanza e piantai gli occhi nei suoi per fargli intendere il mio disagio, poi mi girai verso il gruppo per introdurre l'intruso.
– Ah, ragazzi, lui è Francesco, un regista che venne a farci una lezione all'IPM – mentii, il tono della voce più acuto su quell'ultimo punto mentre lanciavo un'altra occhiata diretta a Francesco – Visto che abita a Roma gli avevo chiesto dei consigli su dove andare stasera.
I membri della mia comitiva si presentarono a loro volta, gli strinsero la mano e lo ringraziarono dei consigli. Parve tutto molto sciallo, ma proprio non riuscii a rilasciare la tensione che mi aveva pietrificato tutto il corpo.
Se ripensavo al fatto che, da lì a poco più di un mesetto, il suo nome e il suo video sarebbero stati sotto agli occhi di tutto il mondo su YouTube, con sopra la mia voce e la mia musica, mi si piegavano le budella in due.
Lui infine capì e si congedò in fretta, con l'augurio di passare una bella serata. Mi diede un'affettuosa pacca sulla spalla, accompagnata da un occhiolino che non seppi se leggere come di scuse o di commiserazione, e si dileguò.
Esauritosi il panico preventivo da doppia vita, mi accorsi anche che Elena non era più accanto a me e chiesi alle ragazze dove fosse finita, preso da una botta di apprensione. Pareva fosse andata a cercare un bagno.
Buttai un'occhiata oltre l'unico gruppetto di ragazzi in motorino rimasti nei paraggi, sul ciglio della strada dove avevo scorto dei bagni chimici in precedenza, e infatti la ritrovai lì con lo sguardo.
Sembrava intenta a discutere con un tipo che non avevo mai visto prima.
Mi avvicinai di corsa e alluccai: – C'è qualche problema? – per attirare la loro attenzione.
Gli enormi occhi di Elena mi implorarono aiuto in silenzio; il disagio tangibile sfogato sul pacchetto di un assorbente stritolato nel pugno che teneva poggiato sul basso ventre.
– La conosci? – lo sconosciuto si rivolse a me, con uno strano accento che suonava come un ibrido tra il romano e chissà cos'altro – Solo una cosa ho chiesto, tanto che è bella... è capodanno, per festeggiare regalo roba buona in cambio solo di una pompa.
Elena era ammutolita come non l'avevo mai vista, il ghiaccio dei suoi occhi sembrava averle congelato anche le membra; una statua di cristallo con una mano agganciata alla maniglia del bagno chimico. Dovevano essere stati l'alcol oppure il ciclo a inibire le sue robuste armate contro prepotenza e patriarcato.
Squadrai il tipo, pallido e spilungone, con mezza faccia coperta da una barba biondiccia da hipster e vestito di bianco da capa a piedi, rigorosamente Adidas.
– E ti sembra una cosa normale da chiedere alle ragazze? – domandai, con la rabbia che già mi annebbiava la vista.
Ma avevo ancora i dolori della rissa della sera prima e avrei volentieri evitato di accollarmene un'altra. A maggior ragione alla luce della conversazione avuta con Elena quel pomeriggio.
– Zio, quando non pagano coi soldi in genere pagano in natura! – ribatté quello, come se fosse la cosa più scontata del mondo. Prese Elena per un braccio e continuò: – Dai, bella, ci mettiamo qui dietro. Faccio in un attimo...
Io persi il controllo in un nanosecondo.
Spinsi Elena da parte e premetti entrambe le mani addosso a lui per sbatterlo a terra. Incurante del dolore alle nocche, gli chiavai cazzotti in faccia come se non ci fosse un domani finchè non mi accorsi che, sia il resto del gruppo mio che i ragazzi in motorino, si erano tutti raccolti intorno a noi.
Stavolta però, nonostante la faccia del tipo fosse già tutta sgommata di sangue, nessuno cercò di fermarmi. Lo feci da solo, quando smise di opporre resistenza e accasciò di peso le braccia sull'asfalto.
Rimasi un istante ad analizzarlo, giusto per assicurarmi che fosse ancora vivo. Poi, d'istinto, gli frugai nelle tasche della tuta e raccolsi tutto quello che ci teneva dentro. Una serie di bustine di roba che pareva buona, anche se lui aveva l'aspetto dell'ultimo stronzo da cui mi sarei mai rifornito.
Mi rialzai e ne lanciai alcune ai ragazzi col motorino, che sembravano degli sfigati usciti da un vecchio film di Nanni Moretti. Uno di loro le prese al volo.
– Omaggio della casa – ironizzai. Per un attimo mi sentii di nuovo il Filippo del 2014, svelto e professionale (a modo mio).
Annuirono per ringraziarmi, con un certo timore quasi reverenziale in faccia, e decisero che fosse arrivato il momento di dileguarsi. Evidentemente il madonno accasciato a terra non era un amico loro.
Il resto del mio gruppo mi fissò con perplessità. Prestai particolare attenzione ad Angelica, ma non mi sembrò di vederla sconvolta come quando avevo picchiato il barbone a Piazza Garibaldi, chissà se perché ci aveva ripensato o perché l'alcol le aveva disinibito la moralità.
Teresa ruppe il cringe di quel silenzio con un profondo sospiro di rassegnazione: – Fratm', sta tornando a essere 'na tradizione che quando sto in giro con te ci esce il pestaggio.
– E ringrazia che non ci scappa il morto, Tere', che certa gente esagera proprio! – sbottai, ancora scosso dalla lotamma che le orecchie della mia povera Lenuccia erano state costrette a sentirsi dire poco prima.
Tornato vicino a lei, le presi la mano e le strusciai il mento sulla fronte. Mi ringraziò con un altro dei suoi lunghi baci indimenticabili.
Poi ci inoltrammo nel parco sull'altra sponda del fiume, e fu lì che scandagliai più accuratamente il bottino: hashish e un po' di MDMA in varie forme. Mi chiesi che cosa avessi lanciato a quegli altri, invece, visto che non avevo controllato prima di dividere la refurtiva. Ne allungai un paio con convivialità.
– Tiè, amo', t'o facc' ij 'sto rialo pure senza 'ca me faje 'nu bucchin – scherzò Teresa, la voce grossa per scimmiottare lo spacciatore che avevo appena ciaccato, mentre passava una bustina ad Angelica.
La sua ragazza rise senza troppo trasporto, forse ancora un po' scossa, dopotutto, mentre l'afferrava per poi condividerla con Elena. Io ne lanciai un'altra a Carmine e nascosi il resto in tasca.
Si erano infine fatte le 06:00 e persino le mura tonde di Piazza del Popolo non abbracciavano più nessuno. Ancora euforici ed energici, decidemmo di continuare la festa a casa finché durava il boost.
Nel tepore della camera da letto, io e Elena scopammo su ogni superficie piana presente in quella stanza finché il sole alto e luminoso non infilzò lo spazio tra le fessure della persiana. Solo allora la stanchezza si abbatté su di noi, mentre eravamo ancora nudi, abbracciati e accaldatissimi.
***
Riaprii gli occhi intorno alle 14:00, quando Elena sgusciò via dalla mia morsa sudaticcia per andare in bagno. Il mio stomaco brontolò con prepotenza e sperai con tutto il cuore che fosse rimasto del cibo in cucina, perché non sapevo quando avrei avuto abbastanza energie per uscire di nuovo o per aspettare il fattorino.
Dalla porta lasciata socchiusa vidi che anche Carmine, Angelica e Teresa si stavano spostando di nuovo in salotto. Mi alzai e andai loro incontro, con l'unica cura di rimettermi almeno i boxer addosso.
Si respirava un'atmosfera stranamente tesa e pregna di un'abbondante dose di disagio in salotto, così tanto che temetti potesse prendere forma solida e minacciosa.
Mi guardai intorno per incrociare gli sguardi dei tre presenti, ma loro si fissavano con ostinazione i piedi in perfetto silenzio.
Carmine si alzò dalla poltrona e andò a sedersi in cima all'isola della cucina, al centro dell'open space. Picchiettò con le dita sul finto marmo e tossì nervosamente.
Nessun altro si mosse. Si sentivano solo i rumori attutiti di Elena che si lavava, provenienti dal bagno.
– Lillù, alla fine è successo – proclamò Carmine, con lo sguardo alto su tutta la stanza – Abbiamo fatto sesso, stanotte.
Aggrottai la fronte e chiesi, confuso: – Tu e chi?
Lui indicò con gli occhi la coppietta di fidanzate, sedute sul divano una accanto all'altra. Teresa si grattò la gola con un rumore secco, Angelica alzò lo sguardo ma continuò a farlo vagare senza meta su muri e mobili. Non dissero una parola.
– Te lo dico perché siamo arrivati al capolinea della nostra amicizia di una vita, e anche tu hai il diritto di sapere perché – continuò Carmine.
Quindi spiegò quanto loro tre si fossero trovati bene in quei giorni insieme, che avevano legato moltissimo, e che Angelica si era scoperta attratta da lui. Aveva proposto di aprire la relazione, cosa di cui Teresa non era convinta, ma che, durante la notte, gli indugi si erano sciolti e le cose avevano finito col diventare più fisiche e più rapide di quanto avessero programmato.
– Ho fatto l'amore con la ragazza dei miei sogni, dopo anni passati solo a immaginarlo. E oggi che posso finalmente dire che è successo davvero, non riesco a godermi neanche un millesimo della felicità che questa cosa dovrebbe suscitarmi – sospirò Nelluccio, gli occhi piantati sul soffitto a cercare una risposta divina alla sua miseria.
Perché, spiegò ancora, quella mattina, a mente lucida, Teresa aveva deciso che quella cosa della relazione aperta non le andava bene per niente. E si era persino scusata con lui per il sesso che avevano fatto. Angelica non aveva obiettato, sebbene rammaricata, poiché si sarebbe adeguata al volere della sua ragazza. Carmine, allora, si era visto chiudere le porte del paradiso in un secondo, dopo tutto il tempo che aveva aspettato il momento di vederle schiudersi.
Saltò giù dal piano della cucina e andò a inginocchiarsi davanti a Teresa, le prese una mano tra le sue e cercò i suoi occhi. Lei fissò lo sguardo su di lui, ma i suoi mirtilli nerissimi erano come svuotati di linfa vitale.
– Tere', io ti amo da sempre, già lo sai. Non è colpa tua né mia se non puoi ricambiare questo sentimento, io lo accetto. Ma, dopo stanotte, non posso rivederti mai più... non è giusto che io mi costringa a stare in queste condizioni in eterno – sentenziò, con l'espressione più grave che gli avessi mai visto sulla faccia in diciotto anni che lo conoscevo.
Poi si rivolse ad Angelica con un mezzo sorriso triste ma affettuoso: – Siete una bella coppia, voi due. Trattamela bene!
Baciò Teresa sulla fronte con tenerezza bagnata dalle lacrime che non riuscì più a trattenere, poi andò a prendersi la giacca dall'attaccapanni all'ingresso e uscì in fretta da casa.
Lasciò così che l'appartamento sprofondasse nel mood da catastrofe che avrebbe caratterizzato il resto dell'anno a venire.
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