Track X - Vien' ccà
Quando mi accorsi della lista di chiamate perse, i primi albori opalescenti avevano già iniziato a sfondare i contorni scuri della collina di Posillipo. Erano le 5 del mattino e l'ultima chiamata di Elena risaliva all'1:30. Fissai lo schermo con gli occhi di fuori, imbambolato, per svariati minuti.
Cazzo.
Si era addormentata pensando a qualcosa di brutto? Che non volessi parlarle? Che mi ero già dimenticato di lei? Che addirittura me ne fossi andato a scopare con qualcun'altra chissà dove, per ripicca?
Il cervello andò in loop. Non potevo aspettare altro tempo prima di rivederla e chiarire.
Carmine mi lasciò nei pressi della Pignasecca e corsi come un pazzo verso casa di Elena. Giunto sotto al portone, nel panico e con gli occhi piantati sulla sua finestra, provai a richiamarla, ma il suo cellulare non restituì segni di vita. Dava spento o irraggiungibile.
Mi girava la testa, barcollavo ed ero decisamente più esagitato di quanto avrei dovuto per via dell'ebbrezza e, forse, della paranoia, ma sapevo che non sarei mai riuscito a prendere sonno senza aver prima parlato con lei.
– Elena! – strillai verso il suo balcone, come un invasato. Ripetei il suo nome per non so quante volte, fino a non sentire più la mia stessa voce.
Un signore con indosso una divisa da operaio uscì dal portone del palazzo accanto, visibilmente disturbato.
– Guagliò, tengo la creatura che dorme, 'mmocc a kitestrammuort'! – bestemmiò – Facci la cortesia.
Mi lanciò un'occhiata minacciosa e poi sparì a passo svelto dentro a un vicoletto.
Io mi guardai intorno come un disperato.
Tra i resti di alcuni giocattoli rotti e sporchi, abbandonati dai bambini del quartiere in un angolo della piazzetta, c'erano delle palle di plastica colorata. Ne raccolsi un paio e iniziai a scagliarle contro la finestra della sua camera. Per fortuna non si ruppe, ma finii di sicuro con lo scheggiare qualcosa, perché emise un rumore che mi fece presagire il peggio proprio un attimo prima che lei la aprisse con l'aria stralunata e i capelli sfatti.
– Amo', scinn! – urlai ancora, con gli occhi lucidi e felici, colto dall'impressione che mi si fosse appena manifestata la Madonna davanti.
– Filippo?! Ma che cazz... – esclamò lei, le palpebre strizzate per mettere a fuoco la mia figura nella penombra della piazzetta – Aspè – aggiunse, prima di sparire di nuovo dentro oltre le tende.
Dopo mezzo minuto sentii il portone del palazzo aprirsi con un ronzio elettronico, e mi gettai subito dentro come se cercassi rifugio da un pericolo mortale. Dalle aperture ad arco affacciate sulla tromba delle scale scorsi Elena che scendeva e mi veniva incontro giù al cortiletto interno, tra le aiuole di palme nane trascurate e una giungla di motorini parcheggiati male.
Non si era cambiata né protetta dal freddo mattutino con un cappotto. Portava, invece, la stessa felpa oversize di Björk con cui stava dormendo e delle Dr Martens che non si era neanche curata di allacciarsi.
La tirai a me in un abbraccio stretto stretto, come se fossi appena tornato dalla guerra e non l'avessi vista per anni.
Aveva ancora i begli occhi incollati dal sonno e il corpo scaldato dal piumone, mentre io avevo le mani congelate e mi accorsi di provocarle brividi lungo la schiena e la pelle d'oca sulle cosce nude, con le mie carezze sui glutei tonici da sotto all'orlo della felpa.
Affondai la testa nel suo collo, segnandolo a morsi come se fosse la mia agognata colazione. Ma avvertii la sua rigidezza in reazione alla mia stretta e, quando feci per baciarla sulla bocca, mi allontanò con entrambe le mani.
– Ma si può sapere che tieni 'ncapa? – mi rimproverò, con lo sguardo molto serio.
Pensai che mi avesse battuto sul tempo, perché stavo per rivolgerle la stessa domanda. Chiesi, stupito: – In che senso?
– Lì, ma ci sei o ci fai? Sono settimane, se non mesi, che stai con la testa chissà dove! Sei sempre nervoso, ti metti a picchiare la gente per strada, non rispondi al telefono, ai messaggi... poi sparisci all'improvviso... – sbottò assumendo un piglio severo che cozzava con le forme dolci del suo viso.
– Ma sei tu che sei scappata via quando sono venuto a prenderti alla stazione! – mi difesi, offeso da quelle accuse che intesi come ingiustificate – Cos'è, te l'ha detto quella capa di cazzo del tuo allenatore che sono un cattivo ragazzo?
Sì, dovevo proprio tirarlo fuori nel discorso chillu strunz. Erano giorni che mi ossessionavo al pensiero di come mi aveva guardato dall'alto in basso e parlato con il tono saccente con cui si parla a un ragazzino. Non si era neanche presentato e aveva toccato in modo intimo la mia ragazza senza nessuno scrupolo, davanti a me medesimo, portandosela via come se io non fossi lì davanti. Come se fossi un signor nessuno.
E lei non solo non aveva reagito, anzi, se ne era andata senza darmi spiegazioni e mi aveva ignorato anche per tutto il giorno seguente.
Elena sgranò gli occhi: – Oh, ma tu 'o ver' faje? Che cosa c'entra Marcello in questa storia? – la sua voce si acuì in modo innaturale.
Mi incazzai ancora di più. Irruppe la gelosia a spazzarmi via il cervello tipo maremoto: – Ah, così lo chiami pure per nome! C'è una certa confidenza di cui non mi era stato detto niente!
Stavo per esplodere di nuovo.
Eppure morivo anche di tenerezza a tenerla finalmente di nuovo tra le braccia, dopo settimane che era stata lontana. La sua pelle era così profumata e morbida sotto al mio tocco, che pensai davvero potesse essere la sfoglia burrosa del cornetto caldo a prima mattina.
Portai entrambe le mani a stropicciarmi le palpebre, quasi a farmi risvegliare così dall'incubo di quel litigio scemo.
– Quindi mo sei pure geloso! Uh, Gesù... – sospirò lei, gli occhi volti in alto a chiedere al cielo perché fossi così stupido.
– No... piccerè, ascoltami nu moment'... – balbettai.
Dovevo trovare un modo qualsiasi per fare pace.
Subito.
Prima di esplodere di nuovo in modi che non potevo prevedere.
Lei sembrò mettersi in ascolto, le braccia incrociate sul petto e gli occhi impazienti.
– Amo', sono solo stanco, te lo giuro. Sto lavorando come un mulo, non sai quanto! Tengo mille pensieri per la testa e tu sei stata lontana... mi sei mancata tanto – abbozzai una serie di convincenti e veritiere giustificazioni pur senza crederci troppo io stesso, balbettavo – Non stare arrabbiata, jamm', ti voglio bene! – usai un'espressione napoletana impropria per la situazione. Scossi di nuovo la testa e le accarezzai la guancia lentamente, con sguardo implorante: – Anzi, no, scusa... Ti amo, Lenù.
I suoi occhi parvero addolcirsi un po'. Tuttavia rimase con le braccia conserte, a scansionarmi la faccia come alla ricerca di un qualche segno. Con una smorfia tra il divertito e lo sfasteriato mi chiese cosa stessi facendo quella notte, e il perché non avessi risposto al telefono.
– Sono uscito con Carmine – spiegai subito, il cellulare già pronto per mostrarle le foto che ci eravamo fatti al locale con Yousef, come prova inconfutabile della mia parola.
Allora si morse il labbro con sguardo vispo e dispettoso, slegò finalmente le braccia e le fece scivolare lungo il mio collo, le spalle, il petto, l'addome. Il movimento discendente si arrestò sulla mia cintura, il suo indice ne accarezzò la cinghia.
Ce l'avevo già di ferro, mascherato appena dal pantalone scuro e largo. Mi guardò con occhi teneri ma incredibilmente sensuali, quell'azzurro brillante che mi teneva suo prigioniero dalla prima volta che li avevo incrociati: – Come sei bello con questo po' di barbetta.
Quella settimana non avevo avuto neanche il tempo di radermi. Ma, proprio grazie a quello e all'arrapamento di entrambi, riuscimmo a porre fine a quella lite idiota.
Le strinsi le mani sui fianchi e la baciai. Le lingue si intrecciarono come se il momento della colazione fosse entrato nel vivo, infine, a sfogo della tensione repressa.
Con le mani era ancora intenta a slacciarmi la cintura. Indicò con la coda dell'occhio l'ascensore nell'angolo dell'androne alla nostra destra e ci catapultammo lì dentro, stretti l'uno all'altra come se rischiassimo di essere divisi da chissà quale forza maligna altrimenti.
Mi maledii per non avere con me un preservativo, ma ormai era troppo tardi per riuscire a fermarmi.
Pressai il suo corpo sulla parete specchiata del vano e mi lasciai scivolare lungo la sua schiena mentre le toglievo le mutandine, accompagnato dallo schiocco dei rumorosi baci sul morbido interno delle sue cosce. Leccai ogni lembo di pelle di passaggio mentre risalivo per rimettermi in piedi, e mi accorsi di quanto fosse già prontissima ad accogliermi. Allora non riuscii più a trattenermi e la penetrai senza trascurare di continuare a stimolarla anche con una mano, mentre con l'altra andavo ad afferrare il seno nudo sotto la felpa.
Non mi era mai capitato prima con nessun'altra ma, quando facevo sesso con Elena, mi sembrava letteralmente di essere al centro del sole: dentro di noi e tutto intorno infuocava un calore esagerato ma non doloroso, come quello di un camino, i sensi mi si acuivano come un felino selvatico, la testa si confondeva come quando si è in un sogno e ci si accorge di stare sognando.
Il tempo perdeva ogni ragione di esistere.
Era una sensazione di elevamento e coesione pari, anche se diversa, a quella che mi suscitava la musica.
Mi imbambolai a guardare il suo viso corrotto dal piacere nello specchio dell'ascensore. Più dondolavo avanti e indietro dentro di lei, più i suoi gemiti appannavano il vetro e distorcevano la nostra immagine riflessa facendone un tutt'uno indefinito di colori scuri.
La magia di quell'unione perfetta si spense di botto quando, evidentemente troppo strafatto e distratto dall'estasi, le venni dentro all'improvviso e la paura e la costernazione presero il posto dell'eccitazione in un nanosecondo.
Par'e pall, Filì...
***
Quella mattina saltai sia i corsi al conservatorio che un meeting che avrei dovuto avere con Andrea e Francesco dopo pranzo. Accompagnai Elena in giro per tutta Napoli a cercare di comprare la pillola.
Non avrei mai immaginato che sarebbe stato così difficile.
Nonostante fossimo entrambi maggiorenni, quindi non necessitassimo né dell'autorizzazione dei genitori né di prescrizione medica (almeno così ci riferì l'amica di Elena che era una delle infermiere volontarie dell'ex-OPG), una vrancata di farmacisti del centro si rifiutarono di vendercela.
Fummo costretti ad ascoltare quelli che avrebbero dovuto essere dei professionisti accampare scuse assurde per giocare a fare Dio con i destini di due ragazzetti spaventati.
Solo dopo ore di ricerca e morte nel cuore, trovammo un'anima buona a piazza Medaglie d'Oro, che ce la diede senza farci la paternale o altri problemi.
Era una giornata caldissima e afosa, nonostante fosse quasi Natale. O forse la avvertii io come tale, per via dei sudori freddi. Passati gli attimi di terrore, decidemmo di andare a prenderci un gelato a piazza Vanvitelli e inoltrarci alla Floridiana.
Elena era in evidente stato di shock. Da un lato sapevo che avrebbe voluto uccidermi, ma dall'altro era troppo nervosa, stanca e impaurita per potermi odiare con tutte le sue forze.
Io l'avevo rassicurata in tutti i modi possibili che, anche in previsione del peggiore dei casi, io mi sarei assunto tutte le mie responsabilità e ci saremmo sposati.
Lei mi scoppiò a ridere in faccia con una punta di amarezza. Ribadì, con tutta l'energia rimasta in corpo, di non volere figli e non avere nessuna intenzione di sposarsi, indipendentemente da quanto fosse innamorata di me.
Ci sfogammo a lungo sulle nostre famiglie, speculando su come io potessi aver sviluppato una sorta di trauma familiare per il modo in cui mio padre aveva trattato mia mamma quando era rimasta incinta, e di come lei avesse imparato dalla madre a mettere la propria felicità davanti a qualsiasi altra cosa potesse mai succederle nella vita.
Ogni volta che mi parlava in maniera così decisa e determinata di quello che voleva e non voleva per sé stessa, io mi innamoravo ancora più perdutamente di lei.
Fino ad allora avevo conosciuto per lo più persone che, per un motivo o per un altro, venivano travolte dagli eventi della loro esistenza e ne rimanevano affette senza scampo, come meduse nella corrente, senza che neanche provassero ad avere potere o manovra sugli stessi.
Allora riflettei su quanto fosse un privilegio quello che mi aveva concesso Elena di poter essere il suo ragazzo e, addirittura, di essere stato il primo uomo con cui avesse fatto sesso. Da una persona come lei ci si poteva aspettare di ricevere tanto solo se, in cuor suo, si era ritenuti meritevoli di quel tanto. Questo mi faceva sentire speciale ben oltre qualsiasi altro mio possibile talento o caratteristica personale.
Esorcizzammo insieme l'angosciante prospettiva di dover fare il cenone di Natale in famiglia, dei parenti scassacazzo, la noia per le infinite discussioni coi vecchi, i film triti e ritriti che passano in TV ogni anno e che fanno da colonna sonora alla serata quasi più come un'incombenza ineluttabile che un accompagnamento gioviale.
Ci appartammo su un ritaglio di prato dietro ai folti alberi a pochi passi dall'ingresso del parco. Mi accasciai con le spalle sul tronco di una grande quercia e lei mi si sedette tra le gambe, la schiena ampia incastrata sul mio petto. Una goccia di gelato le colò sulla maglietta proprio all'altezza del seno e le risvegliò un capezzolo, che si irrigidì per la botta di freddo improvvisa.
Mi venne subito duro, nonostante la brutta mattinata già passata per colpa del sesso e della mia testa di cazzo. Ma la mano mi si mosse da sola per stuzzicarle il capezzolo turgido.
Lei mi fermò con garbo, una mano tremolante poggiata sulla mia: – Mi piace tantissimo quando facciamo sesso, Filì, e adoro il modo in cui mi tocchi – sussurrò – Ma sono ancora troppo scossa oggi.
Io, preso dalla confusione dell'eccitazione, provai a convincerla a lasciarsi andare di nuovo, con un bisbiglio fatto planare sulla sua spalla come un diavolo tentatore: – Non ti devo per forza penetrare per fare l'amore, esistono tante altre cose...
Lei chiuse gli occhi e si lasciò trascinare dal mio respiro sul suo collo e dalle mie cattive intenzioni.
– Mi piaci così tanto – ammise – Forse davvero troppo...
Si convinse, molto prima di quanto mi aspettassi, a farsi rapire dal suono leggero e ammaliante della mia voce appollaiata sul suo orecchio, mentre le avevo già infilato una mano dentro al jeans e l'altra sotto alla maglia ancora sporca di gelato. Aveva l'abitudine di portare il reggiseno solo in rare occasioni, per questo non incontravo mai alcuna barriera quando mi insinuavo sotto ai suoi vestiti per raggiungere i seni piccoli e sodi.
La masturbai finché non venne sulla punta delle mie dita: il respiro accelerato e i gemiti d'intensità crescente al ritmo dei miei movimenti, poi un brivido la attraversò tutta di lungo, al culmine del piacere. Ogni parte del suo corpo si abbandonò di peso su di me, in stato di perfetta comunione col cosmo.
A quel punto mi resi conto di essere venuto anch'io nelle mutande, e maledii quanto schifo facciano gli uomini e il modo plateale e disordinato con cui raggiungono l'orgasmo.
Lei, per fortuna, non se ne accorse.
– Ma sei così bravo con le dita perché suoni il pianoforte oppure perché ti sei allenato con tantissime ragazze prima di me? – insinuò con un ghignetto divertito.
Macché.
La risposta esatta era una sola: Teresa. Era sempre stata lei la mia sapiente maestra e abile guida nei meandri del misterioso universo femminile.
Sorrisi con un po' di imbarazzo per tutta la situazione, ma anche lusingato dall'essere ritenuto capace di farla godere al punto da complimentarsi: – Non è né bravura né allenamento; è il tuo corpo che mi ispira, e i tuoi gemiti che mi guidano.
Bucchin'!
Non saprei dire se fosse la verità o solo una sparata molto elegante e poetica per coprire il mero arrapamento.
In ogni caso lei parve apprezzare e, per il resto del pomeriggio, ci coccolammo sotto le fronde del parco.
Senza pensare a nient'altro che noi.
***
Restava da risolvere con Teresa.
Ma lei mi conosceva da sempre, lo sapeva bene com'ero fatto. Anzi, mi aveva sorpreso che la sua reazione al mio ultimo blackout fosse stata addirittura smettere di parlarmi così, all'improvviso, come se non mi avesse già visto un miliardo di volte in quella stessa situazione.
Quando riaccompagnai Elena a casa, dopo quasi tutta la giornata passata insieme al Vomero, presi il cellulare e tempestai Teresa di chiamate a bruciapelo.
Al settimo tentativo, finalmente rispose.
– Ne', ma tieni l'arteteca? – esclamò, con un'antecchia di disturbo quasi palpabile – Stavo seguendo una conferenza all'Asilo.
Io non mi lasciai intimidire dal tono. Teresa sapeva spesso essere molto brusca di default: – Ed è finita mo? Te lo vieni a fare un cicchetto con me? – proposi con voce conciliante.
La sentii ridere all'altro capo della linea: – Ci vediamo davanti allo SKA? Offri tu?
– Ci mancherebbe! – assicurai con entusiasmo mentre già guadagnavo strada verso piazza del Gesù.
Meno di una ventina di minuti dopo, mi aveva già raggiunto all'angolo del vicolo dei baretti di fronte a Monteoliveto. Mi lanciò un'occhiata indispettita e severa nel frattempo che ordinavamo il primo giro di gin.
– Hai spaventato a morte Angelica, lo sai? – alla buon'ora, si aprì su quanto successo e sul vero motivo della sua reazione inconsueta – Persino io che ti conosco ho pensato "mo qua ci scappa il morto", te lo giuro.
M'ingollai il primo shot come se, data la trasparenza, lo avessi scambiato per acqua. Ne chiesi subito un secondo.
– Io non lo so se avesse ragione tua mamma a giustificare la tua violenza con gli altri ragazzini col fatto che non avevi un padre a difenderti – rivangò, occhi negli occhi con le sue profonde porte sul buio cosmico. In tutto quel nero fitto e intenso era impossibile distinguere l'iride dalla pupilla.
– Però mo sei un uomo e non ti puoi più permettere di fare il guappo con tutti miezz 'a vij – sentenziò.
– Song 'nu guappo 'e cartone, Tere' – feci spallucce come se fosse un dettaglio di poco conto, tanto lo sapeva già da tempo – Come dici sempre tu stessa, gli uomini sono violenti quando sono insicuri.
– Sì, Lillo, ma tu per mezzo di questa insicurezza sgommi di sangue la gente per davvero – rimbeccò senza farsi intenerire dalla mia ammissione di debolezza.
– Questa cosa era lontanamente accettabile quando vi trucidavate tra voi guaglioncelli della paranza, però mo stai esagerando. Perché sei ancora così arrabbiato?
Quella domanda mi colpì.
In un primo momento pensai che fosse strano da parte sua, rivolgerla proprio a me.
Arrabbiato, io? Davo l'impressione di essere arrabbiato?
Non sapevo se mi sentissi arrabbiato, oppure se l'aver costruito la personalità fittizia del Filippo pre-Nisida intorno all'arrivismo e alla prevaricazione avesse reso la rabbia parte integrante del mio carattere, al punto tale da non riuscire più a separarla dal resto delle emozioni.
Avevo sempre pensato che quella più incazzata col mondo tra me, lei e Carmine, fosse proprio lei.
Era Teresa quella che stava sempre in prima fila alle manifestazioni studentesche, per prendersi le cariche dei poliziotti a viso aperto. Era lei che organizzava gli scioperi, le occupazioni, i volantinaggi per quelle riviste autoprodotte sulla lotta di classe che nessuno comprava mai. Era sempre a lei che tutti rimproveravano di "odiare gli uomini" perché femminista, "odiare gli imprenditori" perché comunista, "odiare la famiglia" perché queer, "odiare l'Italia" perché critica del marcio del nostro Paese.
Mi ero convinto che lei fosse l'unica persona che potesse capire la mia rabbia più di chiunque altro, proprio perché ne provava altrettanta.
Allora glielo concessi: – È vero, Terry, ero arrabbiato. Forse, come dice mamma, da piccolo lo ero per colpa di papà. In seguito lo sono diventato per colpa della miseria, poi della camorra, della scuola, di Erica e, infine, per essere finito a Nisida.
A quel punto c'era una fila bella lunga di bicchierini vuoti di fronte a noi, la maggior parte dei quali erano finiti in fondo alla mia gola: – Oggi sono incazzato perché ho paura. Ho paura di fallire. Perché se si fallisce quando si è piccerelli è 'na fesseria 'e cafè, tanto viene perdonato tutto. Ma agli adulti nessuno perdona niente e io non sono nella posizione di poterlo chiedere ancora, per l'ennesima volta.
Finalmente la durezza scivolò via dal suo sguardo e fu rimpiazzata da tenerezza, mista a un pelo di compatimento.
Mi passò un braccio attorno alle spalle e mi tirò giù la testa per baciarmi sui capelli: – Lilluccio, tu sei la persona più in gamba che conosco – giurò con un sorriso sincero – Non la più intelligente, eh! Quella è Angelica – rise, e io finsi di mettermi a piangere per l'offesa – Tu tieni una capacità più unica che rara di cadere, rialzarti, reinventarti e rinnovarti, e tutto questo processo ti riesce così naturale che neanche te ne accorgi.
Mi chiesi se fosse vero. Anzi, volli crederle disperatamente, perché mi sembravano davvero delle belle qualità da avere e, se non le avessi davvero possedute, le avrei di certo desiderate.
– E poi... – disse ancora, stretti spalla a spalla – ... non sei solo, non lo sei mai stato. Non solo hai me, Carmine e tua mamma, ma adesso hai anche una bella guagliona che, quando ti guarda, glielo si legge in faccia da lontano un chilometro quanto ti adora.
Avvampai.
Era vero anche quello? Era così evidente, anche agli occhi esterni, l'amore che Elena provava per me?
Ripensai alle coccole di quella giornata e al fatto che quella ragazza fosse capace, come nessun altro mai, di riappacificarmi col mondo come se non fosse l'insopportabile cloaca di immensa miseria, ingiustizia e depressione che era.
Sì, ero incazzato per un sacco di cose, ma quello stesso mondo di merda mi aveva dato Elena.
E ora sembrava tutto più bello e sopportabile.
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NDA: Manca davvero pochissimo al debutto artistico di Filippo e le cose sembrano mettersi per il meglio... giusto? Giusto?!
...Non vi resta che scoprirlo nei prossimi capitoli 😁 La vita di Filippo non sarà più la stessa, e non c'è anonimato che tenga!
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