Track VIII - Cchiu' fort'
Passammo il resto della notte a parlare di tutto, saltando di argomento in argomento senza soluzione di continuità, come ai vecchi tempi. Delle nuove serie viste su Netflix, dell'ultima figura di merda che aveva fatto quella vrenzola della sua vicina di casa che contrabbandava sigarette, del libro che aveva letto sulla storia e politica dell'America Latina, delle mostre a cui Elena mi aveva portato, del mio esame al conservatorio.
Eh già, la mia prova d'ingresso al Majella. Quanto cazzo fu difficile scambiare le solite confidenze con Teresa senza rivelarle tutto della roba folle che mi era successa quel giorno.
Ma una vocina nel retro del cervello continuava a ribadirmi: Non è stato niente. Non c'è ancora niente. Probabilmente non ci sarà niente di niente neanche in futuro.
Che io fossi così spendibile sul mercato della musica era, fino a prova contraria, una cosa in cui credeva solo Andrea. Chi l'aveva mai sentita dire la sua casa di produzione? Chi potevano mai essere i suoi sponsor?
Così come stavo in quel momento, non avrei avuto più chance di sfondare rispetto all'ultimo scemo tra i rampanti neomelodici della Sanità. Quindi, mi ripetevo, sarebbe stato inutile raccontare quella cosa a Teresa.
Era una frivolezza senza senso e senza futuro.
Ci addormentammo durante la lenta transizione della luce azzurrina dell'aurora in colori più caldi, lei avvolta nella camicia che le prestai per poter dormire senza essere ingessata da quell'abito da cerimonia pieno di veli e glitter.
Che pena gli uomini convinti che l'amicizia con le femmine sia qualcosa di impossibile, non si rendono conto di quello che si perdono a limitare così tanto la propria cerchia. Io, senza il rapporto fraterno sviluppato con Teresa grazie alla coincidenza astrale che aveva voluto che crescessimo insieme, non voglio neanche immaginare che razza di cazzone irrecuperabile sarei potuto diventare.
Magari perfino peggio di mio padre.
Il cellulare di Terry ci svegliò alle 9 in punto, con una serie di chiamate ininterrotte una dietro l'altra che ci trafissero le tempie sulle note di Contessa.
Era suo papà, preoccupatissimo per lo stato in cui versava la figlia dopo essere fuggita nottetempo dalla sua stessa festa di compleanno. Poiché la sapeva con me, era cosciente di averla (più o meno?) al sicuro, ma non ritrovandola nel suo letto la mattina dopo si era giustamente impanicato.
Teresa lo tranquillizzò e promise che saremmo tornati entro qualche ora.
Non appena riattaccò si voltò verso di me con un gran sorriso spensierato, all'apparenza per nulla intaccato dal poco sonno, e propose: – Andiamoci a fare un bagno giù alla spiaggia, come quando eravamo piccoli!
Il brontolio all'unisono dei nostri stomaci ci impose di andare prima a fare colazione giù al bar di fronte all'ostello, dove brindammo con i cappuccini e ci sfidammo a colpi di cornetto come facevamo da bambini, poi cercammo un posto dove poter comprare dei costumi da bagno senza dover vendere un rene.
C'erano turisti stranieri in ognidove e ci volle la mano di Dio per farsi largo tra la gente nei negozietti minuscoli dei vicoli del centro. Alla fine prendemmo la prima cosa della nostra taglia che trovammo a un prezzo accettabile e scendemmo di corsa verso la spiaggia affollatissima.
Nonostante i brutti momenti della sera prima, quella mattina mi sembrò di assistere a una vera e propria rinascita di Teresa.
Gli occhi le brillavano di una gioia nuova e un largo sorriso si impadronì della sua faccia per tutto il giorno. Aveva una vitalità insospettabile per essere una con un diciottesimo appena andato affanculo e meno di quattro ore di sonno alle spalle, eppure fu lei a trascinarmi di peso in acqua e attentare alla mia vita saltandomi sulle spalle senza che avessi la forza di reggerla.
Tornammo ad avere dodici anni per una mezz'oretta e fu una sensazione straordinaria, aspra e nostalgica al tempo stesso. Non credevo che il passaggio dall'adolescenza all'età adulta potesse essere così brusco. O forse lo è solo per alcuni, per altri potrebbe non arrivare mai.
Quando infine l'ingombro della stanchezza piombò anche addosso a lei, ci accasciammo nell'unico spicchio di spiaggia con un po' di posto per poterci asciugare sotto al sole.
Allora mi accorsi che c'erano quattro chiamate perse sul mio cellulare: una di mamma e tre di Andrea.
Mi angosciai.
Da un lato avrei voluto chiamarlo subito per smorzare l'ansia di sentire cosa volesse dirmi ma, d'altro canto, sapevo che se lo avessi chiamato davanti a Teresa poi non sarei più riuscito a mentirle su quanto stesse succedendo.
Decisi di scrivergli un messaggio su WhatsApp per spiegargli che ero impegnato in una cosa importante e che lo avrei richiamato nel pomeriggio. Lui rispose quasi subito con l'emoji del pollice in su e io tornai sereno.
– La tua nuova ragazza è adorabile, mi ha fatto proprio una bella impressione – constatò Teresa, le mani impegnate a strizzare via il sale dalla folta chioma bruna, quando misi via il cellulare e tornai con gli occhi su di lei – Attento a non fartela scappare!
Disse che aveva già promesso di andare con lei all'ex-OPG dopo la prova d'ingresso alla Suor Orsola, e che le avrebbe presentato le avvocate volontarie del centro da cui si sentiva già molto ispirata.
– Com'è, ora che studierai Legge diventerai anche tu una di quelli che vogliono cambiare il Sistema dall'interno? – la sfottei, con un ghigno beffardo ma benevolo – Alla fine dovrai scegliere tra Giurisprudenza e Centro Sociale?
Uno schiaffetto mi raggiunse la fronte, impietoso, mentre gonfiava le guance con disappunto: – Lo sai che non lo farei mai! L'uno serve all'altro, Lillo... anche se cambiare le cose dall'interno non si può, bisogna conoscere bene il nemico per batterlo sul suo stesso terreno.
Mi pregò allora di organizzare un'uscita a quattro perché ci teneva troppo a farmi conoscere meglio Angelica, che per miracolo condivideva con lei la stessa visione del mondo. E così risollevò la marea di discorsi sulla sua nuova ragazza e su tutte le belle cose che avevano fatto insieme al liceo, su com'era strano che in tutti quegli anni non si fosse mai accorta di amarla così tanto.
Io ripensai a Carmine e ai suoi occhi lucidi prima che fuggisse via dalla festa sul motorino come un ladro, a quello che aveva detto sulle sue possibilità con Teresa che si erano fatte ancora più nulle. Mi rattristò un pochino ma non volli menzionare niente a quel riguardo, per non correre il rischio di spegnerle quel sorrisone inedito col senso di colpa.
Lei si era sempre costernata di non riuscire a ricambiare i sentimenti di Carmine, perché veramente gli voleva bene come un fratello, proprio come voleva bene a me. Tuttavia, mentre nel mio caso era un piacere e un privilegio averla come amica, per Carmine era diventato sempre di più un calvario.
Quando Teresa si stancò di ignorare le continue notifiche sul cellulare di tutta la gente che la cercava, e si accorse che ormai era anche passata la mezza, si alzò per scrollarsi la sabbia di dosso.
Con gli occhi accesi da un nuovo fuoco mi tese la mano e disse: – Grazie di cuore, Lillo, sei sempre il numero uno.
***
Mi affrettai a richiamare Andrea l'istante dopo aver lasciato Teresa a casa, prima ancora di riportare la macchina a mio padre. Con la sua solita rassicurante giovialità mi lanciò un invito informale: – Niente di che, Lillù, ti volevo chiedere se ti va di passare a casa mia più tardi, così ti faccio vedere quello che si deve firmare e poi ci facciamo una pizza.
Risposi subito di sì e calcolai bene il tempo che mi restava per restituire la macchina, andarmi a lavare e farmi almeno una pennica prima di poter essere da lui alle 19.
Pur di non incrociare papà, parcheggiai la macchina nel cortile del palazzo e gli misi le chiavi dentro alla cassetta della posta. Poi, quando fui abbastanza lontano da non poter essere visto dal balcone, gli scrissi per messaggio dove trovare le chiavi. Lui sbottò, piccato, che non mi facevo vedere mai e che era stanco di quel mio atteggiamento.
La tentazione di ribattere "E cacace 'o cazz!" era forte, ma decisi piuttosto di ignorarlo. Lo offendeva ancora di più.
Tornato a casa, pranzai velocemente con un piatto di pasta fredda che aveva preparato mamma un paio d'ore prima. Mentre lei faceva il caffè improvvisai un riassunto di com'era andata a Sorrento senza scendere troppo nei dettagli, così mi avrebbe lasciato andare a dormire più in fretta. Se mi fossi costretto a stare sveglio ancora un altro minuto, sarei sbattuto a terra di faccia. Per fortuna l'avevo pregata di buttarmi giù dal letto se per le 18 mi avesse trovato ancora morto, e così fece.
Grazie al diciottesimo della sera prima avevo già tolto di mezzo per bene la barba, che continuava a punteggiarmi la mascella a chiazze che neanche le macchie di Rorschach, come ai creaturi, quindi mi feci solo una doccia veloce e meditai se vestirmi bene in modo da sembrare professionale o chiavarmi addosso la solita roba da barbone.
Optai per la seconda perché non ne potevo più di vestiti eleganti e, tra l'altro, Andrea mi aveva già visto al mio peggio senza che ciò gli avesse impedito di prendermi sul serio.
Mentre prendevo il jeans dalla cassettiera buttai per caso l'occhio sulla scrivania. Non lo avevo menzionato ad Andrea quando mi aveva riportato i pezzi che avevo scritto a Nisida, ma, da quando ero tornato a casa, ne avevo scritti altri due.
Rimasi lì a guardarli, combattuto se valesse o no la pena di mostrarglieli, forse perché in parte erano sfoghi un po' rozzi legati alla vecchia storia con Erica.
Per fortuna, però, non solo quello. Anzi.
Alla fine mi convinsi che non avevo nulla da perdere, che se non erano buoni me l'avrebbe detto sinceramente e, in ogni caso, almeno avrei dimostrato che avevo continuato a lavorare sulla mia musica anche dopo essere uscito dall'IPM, pur in mancanza della sua direzione.
Dissi a mamma di non aspettarmi alzata e corsi verso il rettifilo con un po' di ritardo accumulato. Meno male che Andrea abitava poco distante, in un appartamento al quarto piano di uno dei bei palazzi signorili di Piazza Nicola Amore.
Mi accolse con un raggiante sorriso e mi assicurò che i discorsi più scassacazzo sarebbero stati una cosa veloce così poi, in serata, quando ci avrebbe raggiunto il resto del team, avremmo potuto parlare solo di musica e cose belle.
In effetti mi menò subito in mezzo alle robe complicate tipo registrazione di proprietà intellettuale, conti in banca da aprire, royalties, shares, stakeholders e sponsor. Un sacco di parole inglesi, tutte molto importanti ma che, lì per lì, mi passarono in linea diretta dentro un orecchio e fuori dall'altro.
Dopo che ebbi firmato quello che dovevo, ben sicuro che la clausola del mio anonimato fosse specificata nero su bianco ovunque, gli mostrai i nuovi pezzi che avevo buttato giù negli ultimi mesi e lui, con profondo compiacimento, disse che più tardi potevo provarli davanti agli altri per dimostrare loro di che pasta ero fatto.
Mi colpì ancora una volta la fiducia cieca che riponeva nel fatto che fosse buon materiale da condividere, nonostante gli avesse dato appena una scorsa di sfuggita.
Conclusi gli affari di carte e cartuccielle, chiamò la pizzeria per fare un'ordinazione di cibo e birra come se dovesse arrivare un esercito di cinquanta persone. Invece, quando bussarono e aprì la porta, il resto della cricca contava solo cinque membri: Natalia, l'unica che avevo già conosciuto, un tipo biondo del nord di nome Borut con la fidanzata spagnola Rocio, e altri due uomini napoletani scuri e barbuti, Francesco e Gennaro.
Poco dopo arrivò anche Luca, il compagno e convivente del padrone di casa, che fino ad allora avevo visto in tutto il suo fisico statuario da esperto scalatore solo sullo screensaver del cellulare di Andrea durante le lezioni di musica all'IPM.
Erano estremamente entusiasti di incontrarmi e mi rivelarono che Andrea aveva parlato così tanto di me, in quei mesi, che pareva a tutti di conoscermi già da una vita. Dal canto mio, invece, sentii un disagio crescente montarmi addosso perché, all'improvviso, fui circondato da sconosciuti che sapevano tutto di me mentre io a stento avevo appena imparato i loro nomi.
Andrea parve fiutare qualcosa e cercò di assumere un atteggiamento più professionale per spiegarmi quello che stava succedendo: – Non tutti quelli che vedi qui prenderanno parte stabile nel progetto, ma, in un modo o nell'altro, prima o poi lavorerai sicuramente con ognuno di loro.
Mi illustrò come il mio desiderio di anonimato comportasse molto più lavoro di quanto fossero abituati a fare nel suo gruppo di produzione e, soprattutto, rendeva necessaria la formazione di una cerchia di fidatissimi che sarebbero stati gli unici "autorizzati" a lavorare a stretto contatto con me, dietro preventiva firma di un NDA.
– Per il progetto assumeremo il nome d'arte che sceglierai tu. Hai già pensato a cosa ti piacerebbe? – domandò, e mi colse impreparato come il peggior cazzone del rione.
– Ti prego, non un nome e cognome fittizio napulegno stile Gianni Celeste – scherzò Natalia, anche se sospetto che ci fosse della serietà di fondo in quella supplica.
Mi feci sfuggire un sorrisetto nervoso, che tradì il mio imbarazzo che si poteva affettare col coltello.
Ovviamente no, non ci avevo pensato; pure lì per lì mi sembrava ancora troppo surreale pensarci.
Ma gli occhi di tutti i presenti erano puntati su di me in concitata attesa come se fossero certi che, da un momento all'altro, avrei tirato fuori chissà quale magico coniglio dal cappello da prestigiatore.
Pensa, pensa, pensa, Lillo.
Cazzo!
Beh, di certo non poteva essere nessuno dei diminutivi del mio nome. Eppure qualcosa con la stessa iniziale, o almeno per assonanza, mi avrebbe aiutato a sentirlo mio e riconoscermici.
Non so da cosa fu triggerato, ma mi sovvenne un flash in testa proprio in quel momento, forse richiamato dalla tavola piena di cibo e alcol come se fosse una festa.
La mia festa di compleanno a sorpresa.
Carmine e Teresa avevano appeso uno striscione stile stadio con il font degli ultras, "LILLO LIBERATO" avevano scritto. Perché fu due giorni dopo la mia scarcerazione dall'IPM.
Alla festa non ci avevo fatto neanche troppo caso invece, in quel momento, mi sembrò incredibilmente profetico.
La guida di Andrea non solo mi aveva "liberato" dalla capa fresca che tenevo prima di finire a Nisida, ma anche dall'impasse che era, e sarebbe potuta continuare a essere, la mia vita futura: un destino di lavori sottopagati e camorra, costellata dal senso di colpa di essere coglione buono a nulla.
– Ehm... – mi schiarii la voce, un po' titubante per quello che stavo per dire – ...che ne pensate di "Liberato"?
Alla mia proposta, buttata lì senza uno straccio di contesto, seguì quello che mi sembrò un silenzio interminabile.
Solo Gennaro non riuscì a trattenere un grugnito divertito.
– Come il lungomare? – indovinò, forse per sdrammatizzare quella quiete innaturale.
Vabbè, ovviamente suonava ridicolo a tutti. Probabile che non fossero scoppiati subito a ridermi in faccia per educazione.
– Ma lo sai, vero, che questo non farà che raccogliere l'attenzione sul fatto che potresti essere un ex-carcerato, eh? – sottolineò Andrea massaggiandosi la barba rossiccia finemente rasata sul mento, con perplessità.
– Sì, ma potrebbe essere un'ulteriore sottigliezza intelligente da menare lì così – insinuò Natalia, che della comunicazione ad effetto era la regina – Insomma, andiamo a mettere in risalto qualcosa che parrebbe dire tutto sul personaggio senza che, in realtà, dica nulla. La gente sarà portata a chiedersi se veramente è un ex-carcerato, che cosa ha fatto per finire dentro, dove si trova quando scrive e canta. Oltretutto è un nome comune, semplice e meridionale, che si ricorda con facilità – sviscerò – Secondo me potrebbe funzionare molto bene.
I presenti concordarono con la sua arringa, non saprei dire se perché davvero convinti che fosse il nome giusto o solo per fiducia nei confronti di una che parla dall'alto della sua posizione da esperta della situazione.
Persino io pensai: Bah, non è in questa dietrologia che ho trovato l'ispirazione, ma come lettura ci sta tutta.
– È un peccato, però... – intervenne inaspettatamente la ragazza spagnola – ...nascondere un ragazzo così bello. I cantanti latini di bell'aspetto sono quelli che tirano di più.
– Sarà la sua voce a trasmettere la sua sensualità, così ogni donna può immaginarselo esattamente come vuole che sia – puntualizzò Natalia con un occhiolino lampo nella mia direzione, mentre si sbrogliava un ricciolo impertinente dalle fessure del pesante orecchino dorato. Pareva sempre più convinta di potersi spendere la carta dell'anonimato con grande maestria.
A quel punto mi resi conto che la vita di un uomo nel mondo dello spettacolo è quanto di più vicino a quella di una donna qualsiasi nel mondo reale, forse quasi più di quando ci si ritrova in prigione. A maggior ragione mi dovevo togliere da mezzo a quella tarantella a tutti i costi.
– E "Liberato" sia, allora! – dichiarò Andrea, colto dall'improvvisa fretta di chiudere quella parentesi il prima possibile – Mo tieni pure il nome d'arte, Lillù! Le cose si fanno serie. Ma ora mangiamo, che si fa brutta la pizza.
Il momento della cena fu proprio quello che mi ci voleva per rompere il ghiaccio e non sentirmi più uno studentello sotto scrutinio. Si parlò di viaggi e lavori all'estero (visto che alcuni di loro erano espatriati o vivevano in altre città), di cibi esotici e musei improbabili.
Provai a parlare con Rocio e il suo ragazzo nel mio spagnolo un po' partenopeo e loro si sorpresero molto delle mie doti linguistiche nonostante non fossi mai uscito dalla Campania. Ma, come notò Gennaro, il fatto di consumare tantissima musica straniera mi aiutava molto a capire la sonorità di lingue diverse e assimilarle. Ciò che scoprimmo appassionare tutti era la familiarità che scaturiva dalla mescolanza di parole francesi e spagnole nella parlata napoletana, poiché le influenze storico-culturali facevano sì che il connubio risultasse straordinariamente scorrevole. L'aggiunta anche dell'inglese, poi, riportava un po' il tutto alla modernità.
Giacché parlavamo dei miei testi, dopo cena Andrea mi invitò a sedermi al piano e far sentire a tutti le ultime cose che avevo scritto. Così suonai, per la prima volta a un pubblico, Nove Maggio e Gaiola Portafortuna. L'audience parve entusiasta e Andrea mi incitò a non fermarmi, dunque continuai diretto con i pezzi vecchi che avevo suonato anche alla prova d'ingresso al Majella.
– Tra queste c'è senza dubbio la perfetta canzone per il tuo debutto – osservò Gennaro coi miei spartiti in mano.
– Adda esse' Nove Maggio, vero, Lillù? Il giorno della tua rinascita – annunciò Andrea con un largo sorriso deciso – Ma ci vuole un impacchettamento che non risulti troppo scontato per una canzone del genere – continuò senza aspettare la mia risposta, rivolto a Francesco.
Da quello che avevo capito era un regista napoletano che viveva a Roma, e si era fatto una carriera nell'ambito dei video indie. Andrea era convinto che il suo stile potesse aderire ai miei pezzi come un guanto, rilanciando così quell'alchimia tra canzoni e MV che si era persa dopo gli anni '90 per colpa dell'ascesa dei video dei rapper americani tutti uguali.
A me piacque subito molto l'idea di giocare di peso sulle immagini per mandare messaggi più densi di quelli che si possono trasmettere solo con la musica. Mi fece pensare un po' all'effetto dei film che diventano un tutt'uno inseparabile con la propria colonna sonora.
– Ci dobbiamo lavorare un po' insieme, io e Filippo, ma senza dubbio ne può uscire qualcosa che lascerà il segno – decretò Francesco.
Che paroloni, pensai io con un brivido. Mai ricevuta prima, in vita mia, una valanga di fiducia cieca come quella. Tutta in una volta.
Andrea dispensò un ruolo chiave per l'organizzazione del mio debutto a ciascuno dei presenti: Borut per la distribuzione, Rocio per le grafiche e la brand identity, Gennaro per arrangiamento e registrazione, Natalia per la promozione online e sé stesso per raccogliere il resto dei fondi necessari alla produzione.
– Andiamo avanti con Nove Maggio, allora – ribadì infine, e tutti annuirono.
– I debutti sono sempre una mazzata in fronte. Ti aspettano mesi di duro lavoro, Lilluccio.
Vuttamm' e mmane.
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