Track V - Guagliò


Non vorrei che passasse il messaggio che la mia vita ruotava attorno alle femmine.

Vero che, una volta presa la fissa con una guagliona, sviluppavo la tendenza ossessiva di tenerla in testa h24 anche in maniera subconscia, ma c'avevo sempre avuto anche mille altri interessi e cazzi da fare nella mia quotidianità. Musica, compagni, SSC Napoli e calcetto erano i veri onnipresenti pilastri delle mie giornate.

Non importava quanto il caldo e l'umidità azzeccosa ci facessero andare a fuoco la pelle, noi stavamo lì al campetto a giocare ogni giovedì sera. Di solito, poi, continuavamo la serata in giro tutti insieme col motorino o in macchina (se eravamo fortunati), fermandoci a bere e fumare da qualche parte per tornare a casa giusto in tempo per farmi quelle quattro ore di sonno prima di iniziare il turno al bar la mattina dopo.

Agosto scivolò via così senza poter rivedere Elena perché, contrariamente al miserabile sfigato che ero io, lei poteva andarsene in vacanza senza avere l'accollo di una fatica sottopagata e rompicazzo da svolgere sei giorni su sette.

Ma fu bello riprendere la routine con il mio gruppo senza altri pensieri. Solo una sera, la settimana dopo Ferragosto, finimmo in mezzo a 'na brutta tarantella.

Quella solita tarantella.

Fumavamo per i cazzi nostri su ai Camaldoli dove abitava Francesco, mio compagno di classe nonché mezza spina nel fianco per colpa del suo carattere arrogante di merda. Ma mai come nel fianco di Carmine, visto che Ciccio era il fidanzato storico di Teresa da quando avevamo iniziato il liceo e non mancava mai di sfruculiare Carmine per questo, sapendo che era stato brutalmente friendzonato da lei un fottio di volte e che non gli era mai passata del tutto. In qualità di migliore amico di Carmine la cosa mi dispiaceva, ma da migliore amico anche di Teresa potevo affermare con franchezza, e una certa dose di sicurezza, che sarebbero scoppiati nell'arco di un paio di mesi anche se avessero avuto la pazienza di provarci.

Quella sera, Francesco si era messo in testa di arrivare fino a Formia per assistere all'esibizione della band di suo cugino al contest musicale di un pub, che non si capiva neanche bene che musica suonassero però, tutto sommato, non avevamo niente di meglio da fare. Ci schiattammo tutti nella sua macchina per partire in direzione nord, incuranti dell'orario già tardo e del programma incerto.

I primi problemi sorsero fin da subito per mezzo di quella sua vecchia Panda che consumava come la Germania, e ci costringeva a fermarci per fare benzina ogni dieci minuti.

Google Maps pure non aiutava: per chissà quale motivo effettuava di continuo il ricalcolo del GPS con la convinzione che Formia fosse in Argentina oppure, nel migliore dei casi, la confondeva con Foggia.

Nel frattempo, Francesco cercava di seguire la diretta su Facebook della competizione per capire quando dovesse suonare il cugino suo (pure se, a quel punto, era chiaro che non ce l'avremmo mai fatta in tempo); ma bestemmiava contro Yousef che non gli faceva sentire niente, con Rotta per casa di Dio sparata a tutto volume nel suo orecchio per prenderlo per il culo.

Yousef era il vicino di casa di Ciccio, si conoscevano da una vita ed era un compagno stabile di calcetto ormai da tempo immemore. Lui scherzava, millantando di essere la "quota internazionale" del gruppo perché era stato adottato dal Kenya quando era poco più che un neonato, però non parlava altra lingua al di fuori del napoletano (a stento l'italiano, a dire il vero) né aveva mai messo piede fuori da Napoli.

In un solo, breve, istante di silenzio a chiusura della playlist degli 883, i presentatori del contest in streaming ci palesarono il perché quella gara fosse così importante per Ciccio: erano i presenti a votare i vincitori, e questi si sarebbero abbuscati una cosa di soldi, di cui probabilmente a lui era stata promessa una parte se avesse portato più gente allo spettacolo.

Ma, ciliegina sulla torta di una traversata che già da principio era partita sotto una cattiva stella, ci fermarono le guardie. In un posto che non saprei neanche piazzare con sicurezza su una mappa, forse al confine col Lazio o forse prima.

Dato che avevamo fumato per tutto il tempo coi finestrini spalancati, nessuno di noi pensò che potesse esserci alcuna puzza di erba in auto. Brilli un po' lo eravamo, ma giusto con quell'accenno di euforia che poteva mascherarsi da fugace spensieratezza di un gruppetto di diciottenni neopatentati che passano una serata in giro con la macchina del padre. E, infatti, andava tutto più o meno bene finché gli sbirri non videro me e Yousef.

Può darsi che uno di loro fosse in caserma quando fui arrestato o forse si era trovato a passare dall'IPM in chissà quale occasione, comunque io non mi ricordavo minimamente di lui anche se lui dimostrò di ricordarsi benissimo di me.

– Tu sei quel guaglioncello con la faccia da fesso che spacciava a Posillipo! – esclamò e scrollò il braccio dell'agente con cui faceva coppia per indicarmi come se fossi un fantasma.

Feci per scuotere la testa ma non ebbi il coraggio di negare ad alta voce, perché era chiaro che sapesse alla perfezione chi fossi.

Lui seguitò a urlare, assicurò ai colleghi di quanto bene si ricordasse la mia fottuta faccia, e poi indicò anche Yousef per sottolineare davanti a tutti il fatto che fossi rimasto un pidocchietto spacciatore che se la faceva pure coi clandestini.

A quell'immane cazzata, Yousef ed io ci catapultammo fuori dalla macchina accompagnati da imprecazioni dialettali per pigliarci la questione con quel boia razzista. Fu allora che un terzo stronzo scese dalla volante, a sorpresa, e ordinò la perquisizione a tappeto su tutti noi e sul veicolo.

Incrociai lo sguardo interdetto di Francesco, che era rimasto impietrito aggangiato allo sterzo come a un salvagente, e vidi, di fianco a lui, che Carmine guardava fuori dal finestrino sulla parte opposta alla strada.

Ci trovavamo su una provinciale illuminata malissimo e senza guardrail. Qualche metro più avanti alla piazzola dove ci avevano fermato c'era uno svincolo con un'uscita su una stradina ancora più piccola e buia che andava verso una fitta campagna.

Carmine sussurrò con circospezione qualcosa all'orecchio di Ciccio e lui si voltò a lanciarmi un'altra occhiata, stavolta più decisa.

Pensai di aver colto il messaggio.

Se quelli ci avessero perquisito, avrebbero trovato tutto il fumo che avevamo comprato solo qualche ora prima.

Con uno scatto all'indietro mi tolsi il carabiniere con la memoria di ferro d'annanz 'o cazz', afferrai il colletto della polo di Yousef che stava per mettere le mani addosso all'altro sbirro e lo spinsi via verso la nostra auto, a mia volta lanciato a correre in quella direzione.

Sentii i tre agenti dietro di noi che, nel caotico tentativo di capire cosa stessimo macchinando, si erano divisi e uno era tornato alla volante mentre gli altri due si erano scagliati a correrci appresso.

Noi tornammo come fulmini a sederci sui sedili posteriori e Francesco diede gas per schizzare in avanti senza neanche aspettare che chiudessimo le portiere. M'impressionò come quel Pandino scassato reggesse l'accelerazione improvvisa.

Svoltò allo svincolo buio dove non c'erano neanche i pali della luce e proprio allora spense anche tutti i faretti, mentre Carmine suppliva con l'accensione dei flash di entrambi i loro cellulari chinato sul cruscotto. Ci ritrovammo nella più assoluta oscurità di una campagna a casa di Cristo, con la Panda che sballottava sul terreno roccioso del vicoletto e ci reggeva ancora tutti per miracolo, una pattuglia che ci inseguiva e che mi conosceva di vista, un sacco di fumo nascosto ovunque.

Proseguimmo in quel modo per chissà quanto tempo, in perfetto silenzio, finché ci parve di non sentire più nessun rumore dietro di noi. Eravamo arrivati nei pressi di una rada striscia di pineta ai margini di un paesino costiero. Quando Ciccio spense il motore mi accorsi che, oltre le inquietanti sagome nere degli alberi, si sentiva il rumore del mare.

– Guagliu', me so' pisciato sotto – sussurrò Carmine, voltato a guardarci con gli occhi di un sopravvissuto a un attacco nucleare.

Scorgemmo in lontananza un pub, stile lido sulla spiaggia, da cui veniva della musica house.

– Andiamo a farci uno shottino, offro io – annunciò Ciccio col dito a indicare il locale. Noialtri non ci facemmo pregare.

Lasciammo la macchina incatastata nella vegetazione ai margini della spiaggia poco prima che si diradasse la pineta, all'angolo con una staccionata malconcia e il nulla cosmico dell'ingresso del paesino, così da essere abbastanza nascosta da non poter venire rintracciata (nel malaugurato caso che le guardie fossero ancora alla nostra ricerca).

Una decina di minuti di cammino dopo entrammo nel lido che, nonostante la musica a palla e le luci fluo sparate sulla pista, non era per niente affollato.

Ci assiepammo al bancone e ordinammo il primo giro di cicchetti. Ne seguì presto un secondo e un terzo, prima che ci sciogliessimo e iniziassimo a scherzare su quanto era appena successo. Per la prima mezz'ora pensammo sul serio di averla scampata ma poi Yousef, con un richiamo provvidenziale della vescica, si alzò per andare in bagno e tornò meno due secondi dopo, di corsa e con la faccia paonazza: – Raga', stanno qua fuori! – urlò come se dal lancio di quell'allarme dipendesse la sua vita.

Senza avere il tempo di ragionare, guardammo in direzione della barista che, senza sapere niente, lesse il pericolo nei nostri occhi e ci indicò d'istinto la cucina. Una vera compagna.

Irrompemmo sul retro giusto un attimo prima di sentire le voci dei gendarmi entrare nel locale e chiedere se qualcuno avesse visto una Panda bianca scassata. I quattro gatti che stavano ballando in pista li ignorarono, mentre gli altri seduti ai tavoli urlarono di no per scavalcare la musica.

Dato che gli sbirri iniziarono a perdere tempo a interrogare quelli che non avevano risposto, ci voltammo verso il tipo ai fornelli che ci accolse con gli occhi allucinati: – E voi chi minchia siete?

– C'è un'uscita da questo lato? – s'informò in fretta Francesco. Il cuoco fece spallucce e indicò la porta dietro di sé, seminascosta da un paio di grossi bidoni del vetro.

Ci precipitammo fuori senza neanche ringraziare o salutare, ma chiudemmo piano la porta e ci ritrovammo in mezzo alla spiaggia deserta, illuminata solo a tratti da alcuni raggi dei neon che sfuggivano alle finestre multicolor del pub.

– Ci mettiamo troppo tempo per tornare indietro. Se quelli escono tra poco, fanno presto a beccarci e rintracciare pure la macchina – predisse Francesco, con la jella funesta nella voce.

– Guagliu', fate come me – ordinò Carmine mentre si addentrava nella spiaggia scura, popolata solo dalle solitarie sdraio del lido che parevano lapidi. Arrivato più o meno alla seconda fila di ombrelloni chiusi prima del bagnasciuga, lo vedemmo sparire come un prestigiatore.

Raggiungemmo lo stesso punto e faticammo a trovarlo, se non avesse lui stesso cacciato fuori un braccio per farci segno di scavarci una conca sotto alle sedie come aveva appena fatto.

Ci dividemmo per non stare tutti nella stessa zona e, nell'arco di un minuto, ognuno di noi era sepolto sotto una sdraio. A quel punto avevo sabbia pure nelle mutande, non parliamo dei capelli, ci vedevo doppio per tutta la roba che mi ero chiavato in corpo dalle 19 di quella sera, e trasalii quando sentii il suono della notifica di WhatsApp sul cellulare. Lo sfilai dalla tasca per mettere il silenzioso e scoprire che si trattava di un video di Elena, dalla sua vacanza in Salento; era andata a ballare alla notte della Taranta.

Aprii il file, le uscite audio del cell otturate con i palmi, e sorrisi come uno scemo a vederla battere i piedi e le mani, saltare sul posto e ondeggiare i fianchi stretti, mentre indossava solo il sopra di un bikini e una lunga gonna con lo spacco alto sulla coscia.

Mi venne duro all'istante. Ma non ebbi neanche il tempo di godermi l'attimo, perché sentii la voce dello stronzo che mi aveva riconosciuto a pochissimi metri di distanza da me.

Dopo un po' di chiacchiericcio che non riuscii a intercettare, ebbi l'impressione che uno di loro dicesse agli altri che ormai ci avevano perso.

Ma, per troppa paura che ci stessero tendendo un'imboscata, restammo ancora nascosti lì sotto per un tempo che sembrò interminabile, forse anche un'ora abbondante, tanto che iniziai a pensare che qualcuno di noi si fosse addormentato.

Solo nel momento in cui mi balenò il pensiero di farmi una sega sul video di Elena, proprio lì in mezzo alla sabbia e alle tarantelle, capii che si era fatta una certa e il cervello mi aveva abbandonato. Era ora di tornarcene a casa.

Strisciai fuori non appena captai che persino la musica del lido era stata spenta, e intimai di uscire anche agli altri.

Carmine stava ancora nella sua conca tipo utero, al centro della fila di fronte alla mia, quando sgattaiolai verso di lui per spaventarlo: – 'O sce'! Ti si' addurmuto?

Lui fece emergere solo un braccio per schiaffeggiarmi i polpacci alla cieca. Un paio di metri più in là, Yousef uscì piano piano dalla sua nicchia e venne verso di noi. Francesco invece sembrava impegnato in una telefonata, ancora nascosto per metà dietro un ombrellone.

– Mo per forza se ne so' gghiut, no?! – constatò Sef in autoconvincimento.

Provammo a ripulirci e scrollarci la sabbia di dosso finché non si riunì al gruppo anche Ciccio: – Jamm' bell, ja', turnamm a casa – decise; il costoso regalo di diploma sfoggiato al polso segnava un orario troppo tardo persino per lui, il re delle feste.

Buttai un'occhiata al cellulare anch'io: erano le 3 passate.

L'indomani sarei stato di nuovo uno zombie per tutto il giorno, dietro al bancone.

***

E così fu.

Il mattino seguente arrivai al bar con quaranta minuti di ritardo, ma fortuna volle che il proprietario non ci fosse e avesse aperto il nipote, che era 'nu bravo guaglioncello che mi voleva bene e mi copriva sempre le spalle. Aveva quindici anni, Clemente. Spesso, smaltiti i picchi d'afflusso di clienti, cazzeggiavamo su YouTube oppure si faceva spiegare la lettura del pentagramma. In cambio, lui mi mostrava come scrivere i caratteri semplici giapponesi, imparati dalla sorella maggiore che era laureanda in lingue orientali.

Nel primo pomeriggio venne a trovarmi a sorpresa Teresa, che scroccò un caffè macchiato e una sfogliatella riccia piccola.

Mi voleva parlare in privato, allora ci sedemmo a un tavolino esterno nell'angolo più nascosto del gazebo di plastica.

– Per caso hai notato niente di strano in Francy, di recente? – chiese con occhi preoccupati, i riccioli bruni in balia della mano destra che scrollava nervosamente la criniera.

La domanda mi sorprese. Cercai di fare mente locale, ma non mi sovvenne niente di particolare, quindi risposi di no.

Lei mi scrutò per intendere se stessi dicendo la verità, ma poi realizzò che ero molto più amico suo che di Francesco e quindi non avrei avuto motivo di mentirle.

Tirò un lungo sospiro e abbassò lo sguardo sulla tovaglia di carta: – È che forse l'ho trascurato molto nell'ultimo periodo, per via dello studio, sai, e ora lo sento molto distante...

A vederla così abbattuta per amore ripensai a come era nata la sua storia con Ciccio. Perché Teresa non era mai stata una ragazza interessata ai maschi, anzi, alle medie la prendevano in giro col nomignolo "suora", o col pettegolezzo che fosse lesbica solo perché era una bambina un po' secchiona. Era la figlia della migliore amica di mia madre, uscite entrambe incinte nello stesso periodo, anche se la mamma di Teresa era caduta in piedi perché almeno non si era fatta ingravidare da un pezzo di merda. Infatti Teresa era la cocca di papà, viziata oltremodo, anche quando i suoi desideri comportavano qualche sacrificio di troppo per una famiglia non proprio benestante.

Quando Carmine, figlio dell'amica del cuore che completava il trio delle nostre madri, iniziò a mostrare interesse per lei, Teresa nemmeno se ne accorse. Fu nel periodo dell'esame di terza media, quando passavamo quasi ventiquattro ore al giorno insieme per preparare le tesine, che lui finalmente si dichiarò, sfiancato da tutti i segnali a vuoto che aveva cercato di mandarle per tutta la stagione.

Ma lei non ne voleva proprio sapere di mettersi con qualcuno; c'aveva un sacco di altri cazzi per la testa che noi poveri scemi non potevamo capire.

Quando entrammo al liceo e iniziammo a uscire con le nuove comitive dei compagni di scuola, fu allora che Francesco le mise gli occhi addosso. Ma anche lui faticò parecchio per conquistarla, e dovette provarci strenuamente per mesi prima di attirare la sua attenzione. Tutt'oggi mi chiedo ancora come cazzo fece.

– È pure che sono molto confusa, Lillù, capisci? Mi sento tutta sottosopra... – balbettò. Ma il suo flusso di coscienza fu interrotto dallo schermo del cellulare, poggiato di fianco al suo gomito sul tavolino, che si era illuminato per segnalarle una notifica. Sembrò allarmata da quello che lesse, scattò in piedi dalla sedia e raccolse le sue cose: – Mo me n'aggia ij, ma sentiamoci più tardi che così organizziamo per il mio compleanno. Mi fa piacere se può venire anche Elena!

Annuii e le schioccai un bacio sulla guancia.

Corse via, avvolta da chissà quale mistero. Ci ero abituato, era sempre così con Teresa: io le raccontavo tutti i miei cazzi non appena succedevano, così che lei potesse darmi subito dei buoni consigli. Invece lei mi raccontava tutto a cose già fatte poiché, in capa a essa, voleva prendere le sue decisioni con meno ingerenze esterne possibili. Secondo lei, così era più facile assumersi le proprie responsabilità.

Tornai dentro giusto in tempo per vedere arrivare il proprietario insieme al genero e all'altra nipote, il padre e la sorella di Clemente. La prole era stranamente biondissima e dalla pelle pallida, al contrario del padre che sembrava quasi magrebino.

Ci fu un breve giro di presentazioni, poi tornai a servire il caffè a dei turisti americani che erano appena entrati. Quando ebbi finito, Clemente mi chiamò al tavolo dove si era seduto con la primogenita della famiglia, mentre il padre e il nonno facevano dei conti vicino alla cassa.

– Annachiara si è sorpresa del tuo ottimo inglese – rivelò.

La ragazza al suo fianco rise e si raddrizzò con timidezza una spallina scivolata della canottiera: – Hai una pronuncia migliore di molti miei compagni all'università – dichiarò poi, molto divertita dalla cosa.

Mi sedetti con loro e la ringraziai, lusingato.

– Quindi tu sei la brillante sorella che si sta laureando all'Orientale di cui Clemente parla sempre? – svelai con candore l'ammirazione del fratellino, e loro si lanciarono un'occhiata affettuosa.

Avevo sempre desiderato avere un fratello o una sorella perché ero molto geloso dei rapporti fraterni come quello, ma mi rendevo conto che era stata una fortuna che mamma avesse evitato di figliare ulteriormente dopo l'errore madornale che aveva già fatto con me.

Annachiara spazzò via quelle mie considerazioni idiote facendosi aria con una mano a mo' di ventaglio, mentre usava l'altra per recuperare dalla borsetta un elastico per capelli a forma del cane rosa di Paranoia Agent. Non potei fare a meno di notarlo con estasi esagerata e, data la sua profonda cultura sul Giappone e sulle arti, ci imbarcammo in discussioni fiume su fumetti e cartoni animati.

Si meravigliò di quanti ne conoscessi e io diedi subito il merito a mia madre, che mi aveva cresciuto a pane e Anime Night su MTV, insieme agli immancabili loop di repliche storiche su Italia1. Allora tirò fuori dalla borsa dei pupazzetti di Attack on Titan che teneva appesi alle chiavi, bottino del suo ultimo viaggio a Tokyo l'anno precedente. Ma dovetti alzarmi di nuovo a fare altri due caffè e una limonata per una famiglia appena entrata, e poi pigliare le ordinazioni di alcuni gruppetti che si erano seduti fuori a fare aperitivo.

Qualche minuto dopo, mentre preparavo gli spritz, Annachiara comunicò che doveva andarsene e passò a salutarmi al bancone: – Ho un amico che ha iniziato a studiare al conservatorio l'anno scorso. Clemente mi ha detto che tu farai l'esame di ammissione a breve, giusto? Se ti va te lo faccio conoscere! – propose con entusiasmo.

Io accettai volentieri e la ringraziai per l'interessamento.

Lei sorrise con calore: – Magari vieni a farti una birra con noi al Kestè domani sera, così te lo presento.

Ci scambiammo i numeri di cellulare e andò via con la promessa di farmi sapere su WhatsApp.

Benvenuto nel mondo degli adulti, Filippo, pensai tra me e me, finalmente si esce con gli universitari!


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NdA: Grazie mille per aver letto fin qui! 

I primi cinque capitoli sono pensati per introdurvi nel mondo dei personaggi di questa storia e imparare a conoscerli, ma la trama vera e propria parte dal capitolo VI. 

Se fin qui i personaggi sono stati capaci di coinvolgervi, date una chance a Filippo e co. di portarvi dentro alla storia che si apre nel prossimo capitolo 💙



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